Sul “Corriere della sera” il politologo Galli Della Loggia ha pubblicato una analisi sulla situazione politica odierna che merita di essere rilanciata (anche se con alcuni passaggi per noi non del tutto condivisibili o da approfondire) per il suo acume e originalità.
Con il permanere della crisi del Paese (vent’anni di crescita zero) e il conseguente aggravarsi del suo declino diviene sempre più veloce anche la trasformazione del nostro sistema politico. Una trasformazione di fatto della natura degli attori e dei contenuti, sebbene sia conservato l’involucro esteriore e formale delle regole. La trasformazione che a me sembra la più evidente e importante riguarda il Partito Democratico.
Questo ha ormai compiuto la parabola avviatasi con l’inizio della Seconda Repubblica, e assiste al completo rovesciamento del disegno del vecchio Partito comunista da cui in qualche modo esso discende. Laddove il togliattismo, infatti, prevedeva che alla lunga il PCI riuscisse e egemonizzare l’establishment italiano, oggi viceversa è l’establishment italiano che appare essere riuscito ad egemonizzare il PD. Sotto l’etichetta della «difesa della Costituzione» i Democratici sono diventati infatti il vero partito delle élite della penisola, quello che ne raccoglie in misura maggiore il consenso elettorale (basta vedere come votano i quartieri bene delle grandi città) . I Dem sono il partito dell’europeismo ortodosso e dell’atlantismo ufficiale, di tutte le magistrature, dell’alta burocrazia, della «Civiltà cattolica» e delle alte gerarchie della Chiesa, dei «mercati», del vasto stuolo dei professionisti della consulenza e degli incarichi pubblici ad personam, dei vertici dei sindacati, delle forze armate e degli apparati di sicurezza, nonché dell’assoluta maggioranza di coloro che operano nel settore dell’elaborazione delle idee e del consenso (letterati di successo, accademici con ambizioni più ampie, giornalisti, pubblicitari, gente del cinema, addetti di rango alla comunicazione di ogni tipo).
In senso proprio può dirsi che oggi il PD è per antonomasia «il partito dello Stato» . Questa è la sua autentica identità: qualcosa di analogo funzionalmente a quello che nel primo cinquantennio dell’Unità fu il «partito costituzionale», espressione del dominio politico liberale contro cattolici e socialisti . E infatti esattamente come quello anche il PD trae il massimo motivo della sua esistenza non già da qualche precisa identità programmatica (ormai del tutto residuale e di tipo «nostalgico») ma dalla pura e semplice difesa, per l’appunto, degli equilibri e delle prassi esistenti dell’«ordine costituzionale» .
Nell’esercizio di tale difesa il PD ha costantemente bisogno di trasformare il fondamento di quell’ordine, cioè la Costituzione, in un intangibile feticcio, nel non plus ultra della Carta del Buon Governo Democratico, e insieme, naturalmente, di enfatizzarne l’ispirazione «antifascista». Non per altro che per avere la possibilità di immaginare questa sotto la sempre risorgente minaccia della «Destra», in un clima perenne di «emergenza democratica». In tal modo, a cominciare dal ’92 il PD è venuto istituendo a proprio vantaggio — esattamente come avvenne nel primo mezzo secolo del Regno da parte del partito costituzionale di allora — un’area di potenziale delegittimazione ideologica per tutte le forze politiche di volta in volta sue avversarie. E sottolineo: di volta in volta; se infatti ci si allea con PD da nemici si diventa ipso facto amici dell’«ordine costituzionale» (i 5Stelle ne sanno qualcosa).
Ovviamente il «partito dello Stato» e dell’establishment non può che avere un rapporto particolare con il capo dello stesso. Qui la trasformazione del PD si è in qualche modo saldata con un’altra trasformazione di fondo intervenuta nel nostro sistema politico: vale a dire l’assoluta centralità che nella geografia dei pubblici poteri e del loro orientamento ha acquistato ormai la figura del Presidente della Repubblica, da molti anni vero dominus incontrastato (anche perché di fatto incontrastabile) di tutte le dinamiche politiche oltre che in vari modi dell’accesso alle maggiori cariche pubbliche. Non a caso (non sto svelando certo un mistero) una delle principali motivazioni per la formazione della coalizione che si accinge a governare — per i poteri che davvero contano forse la motivazione principale, anche se proprio per questa mai esplicitata — è stata precisamente quella di impedire che l’ elezione del prossimo Presidente (nella primavera 2022) avvenga fuori dal circuito politico che vede il PD in un ruolo determinante. È infatti di importanza essenziale per tutta la costruzione e il funzionamento del potere italiano che all’establishment e al suo partito di riferimento non sfugga una tale carica, divenuta oramai, di fatto, la massima autorità di governo del Paese.
La storia lontana dell’Italia unita sembra ripetersi anche per un altro importante aspetto. Proprio come tanti decenni fa, infatti, oggi anche la presenza del combinato disposto partito dello Stato-delegittimazione di ogni identità diversa, ostacolando al massimo il funzionamento fisiologico del sistema politico parlamentare fondato sulle alternative elettorali, avvia un tale sistema al suo virtuale disfacimento sotto il segno del trasformismo.
È ciò che sta accadendo oggi con la nuova maggioranza. Chi crede davvero che le sorti della democrazia italiana fossero a rischio, cioè che si fosse alla vigilia di non poter più tenere elezioni libere, stampare giornali contro il potere, che gli oppositori e gli organi costituzionali fossero sul punto di essere minacciati fisicamente, la magistratura manipolata e magari perfino sciolto il Parlamento — perché questo significa «emergenza democratica», il resto sono chiacchiere — chi crede davvero ciò fa benissimo a giustificare tutto, e dunque anche il trasformismo. Ma chi non condivide l’allarme ora detto, ha il dovere di dire che invece si tratta solo di semplice, banalissimo trasformismo. A cominciare da quello di un Presidente del Consiglio il quale aspetta la mozione di sfiducia presentata contro di lui dal partito del suo ministro degli Interni per cominciare a rimproverare violentemente a quest’ultimo per una lunga serie di gravi malefatte a proposito delle quali, però, non si ricorda che fino a quel momento egli come capo del governo abbia mai avuto nulla da ridire, neppure una parola. Non solo, ma subito dopo fa un nuovo governo di segno opposto e in polemica frontale con quello da lui presieduto fino al giorno prima!
E così dopo poco più di un anno l’establishment italiano ha riportato la vittoria sulla dabbenaggine e sulla pochezza politica della coalizione giallo-verde, sul fare inutilmente smargiasso del capo della Lega e le velleità inconcludenti dei 5Stelle. Ma è una vittoria che non contiene la promessa di niente. Che inalbera un programma per il futuro che è un patetico libro dei sogni dove è elencato di tutto tranne i modi e i mezzi per fare qualsiasi cosa, e che è facile prevedere che non farà nulla. In un sistema politico paralizzato dal trasformismo e di cui l’establishment non cessa di tenere ben salde le redini, il segno distintivo diventa sempre di più l’immobilismo.
Quell’immobilismo di cui il Paese sta lentamente morendo.
Con il permanere della crisi del Paese (vent’anni di crescita zero) e il conseguente aggravarsi del suo declino diviene sempre più veloce anche la trasformazione del nostro sistema politico. Una trasformazione di fatto della natura degli attori e dei contenuti, sebbene sia conservato l’involucro esteriore e formale delle regole. La trasformazione che a me sembra la più evidente e importante riguarda il Partito Democratico.
Questo ha ormai compiuto la parabola avviatasi con l’inizio della Seconda Repubblica, e assiste al completo rovesciamento del disegno del vecchio Partito comunista da cui in qualche modo esso discende. Laddove il togliattismo, infatti, prevedeva che alla lunga il PCI riuscisse e egemonizzare l’establishment italiano, oggi viceversa è l’establishment italiano che appare essere riuscito ad egemonizzare il PD. Sotto l’etichetta della «difesa della Costituzione» i Democratici sono diventati infatti il vero partito delle élite della penisola, quello che ne raccoglie in misura maggiore il consenso elettorale (basta vedere come votano i quartieri bene delle grandi città) . I Dem sono il partito dell’europeismo ortodosso e dell’atlantismo ufficiale, di tutte le magistrature, dell’alta burocrazia, della «Civiltà cattolica» e delle alte gerarchie della Chiesa, dei «mercati», del vasto stuolo dei professionisti della consulenza e degli incarichi pubblici ad personam, dei vertici dei sindacati, delle forze armate e degli apparati di sicurezza, nonché dell’assoluta maggioranza di coloro che operano nel settore dell’elaborazione delle idee e del consenso (letterati di successo, accademici con ambizioni più ampie, giornalisti, pubblicitari, gente del cinema, addetti di rango alla comunicazione di ogni tipo).
In senso proprio può dirsi che oggi il PD è per antonomasia «il partito dello Stato» . Questa è la sua autentica identità: qualcosa di analogo funzionalmente a quello che nel primo cinquantennio dell’Unità fu il «partito costituzionale», espressione del dominio politico liberale contro cattolici e socialisti . E infatti esattamente come quello anche il PD trae il massimo motivo della sua esistenza non già da qualche precisa identità programmatica (ormai del tutto residuale e di tipo «nostalgico») ma dalla pura e semplice difesa, per l’appunto, degli equilibri e delle prassi esistenti dell’«ordine costituzionale» .
Nell’esercizio di tale difesa il PD ha costantemente bisogno di trasformare il fondamento di quell’ordine, cioè la Costituzione, in un intangibile feticcio, nel non plus ultra della Carta del Buon Governo Democratico, e insieme, naturalmente, di enfatizzarne l’ispirazione «antifascista». Non per altro che per avere la possibilità di immaginare questa sotto la sempre risorgente minaccia della «Destra», in un clima perenne di «emergenza democratica». In tal modo, a cominciare dal ’92 il PD è venuto istituendo a proprio vantaggio — esattamente come avvenne nel primo mezzo secolo del Regno da parte del partito costituzionale di allora — un’area di potenziale delegittimazione ideologica per tutte le forze politiche di volta in volta sue avversarie. E sottolineo: di volta in volta; se infatti ci si allea con PD da nemici si diventa ipso facto amici dell’«ordine costituzionale» (i 5Stelle ne sanno qualcosa).
Ovviamente il «partito dello Stato» e dell’establishment non può che avere un rapporto particolare con il capo dello stesso. Qui la trasformazione del PD si è in qualche modo saldata con un’altra trasformazione di fondo intervenuta nel nostro sistema politico: vale a dire l’assoluta centralità che nella geografia dei pubblici poteri e del loro orientamento ha acquistato ormai la figura del Presidente della Repubblica, da molti anni vero dominus incontrastato (anche perché di fatto incontrastabile) di tutte le dinamiche politiche oltre che in vari modi dell’accesso alle maggiori cariche pubbliche. Non a caso (non sto svelando certo un mistero) una delle principali motivazioni per la formazione della coalizione che si accinge a governare — per i poteri che davvero contano forse la motivazione principale, anche se proprio per questa mai esplicitata — è stata precisamente quella di impedire che l’ elezione del prossimo Presidente (nella primavera 2022) avvenga fuori dal circuito politico che vede il PD in un ruolo determinante. È infatti di importanza essenziale per tutta la costruzione e il funzionamento del potere italiano che all’establishment e al suo partito di riferimento non sfugga una tale carica, divenuta oramai, di fatto, la massima autorità di governo del Paese.
La storia lontana dell’Italia unita sembra ripetersi anche per un altro importante aspetto. Proprio come tanti decenni fa, infatti, oggi anche la presenza del combinato disposto partito dello Stato-delegittimazione di ogni identità diversa, ostacolando al massimo il funzionamento fisiologico del sistema politico parlamentare fondato sulle alternative elettorali, avvia un tale sistema al suo virtuale disfacimento sotto il segno del trasformismo.
È ciò che sta accadendo oggi con la nuova maggioranza. Chi crede davvero che le sorti della democrazia italiana fossero a rischio, cioè che si fosse alla vigilia di non poter più tenere elezioni libere, stampare giornali contro il potere, che gli oppositori e gli organi costituzionali fossero sul punto di essere minacciati fisicamente, la magistratura manipolata e magari perfino sciolto il Parlamento — perché questo significa «emergenza democratica», il resto sono chiacchiere — chi crede davvero ciò fa benissimo a giustificare tutto, e dunque anche il trasformismo. Ma chi non condivide l’allarme ora detto, ha il dovere di dire che invece si tratta solo di semplice, banalissimo trasformismo. A cominciare da quello di un Presidente del Consiglio il quale aspetta la mozione di sfiducia presentata contro di lui dal partito del suo ministro degli Interni per cominciare a rimproverare violentemente a quest’ultimo per una lunga serie di gravi malefatte a proposito delle quali, però, non si ricorda che fino a quel momento egli come capo del governo abbia mai avuto nulla da ridire, neppure una parola. Non solo, ma subito dopo fa un nuovo governo di segno opposto e in polemica frontale con quello da lui presieduto fino al giorno prima!
E così dopo poco più di un anno l’establishment italiano ha riportato la vittoria sulla dabbenaggine e sulla pochezza politica della coalizione giallo-verde, sul fare inutilmente smargiasso del capo della Lega e le velleità inconcludenti dei 5Stelle. Ma è una vittoria che non contiene la promessa di niente. Che inalbera un programma per il futuro che è un patetico libro dei sogni dove è elencato di tutto tranne i modi e i mezzi per fare qualsiasi cosa, e che è facile prevedere che non farà nulla. In un sistema politico paralizzato dal trasformismo e di cui l’establishment non cessa di tenere ben salde le redini, il segno distintivo diventa sempre di più l’immobilismo.
Quell’immobilismo di cui il Paese sta lentamente morendo.
Lascia un commento