Cosa sta succedendo in Amazzonia?
Dieci punti spiegati (bene) dal “Guardian” e da un esperto. Giorgio Vacchiano – ricercatore della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale – fra gli 11 migliori ricercatori forestali nel mondo premiati dalla rivista scientifica “Nature”. Anche su questa emergenza ecologica si sono dette e lette tante inesattezze ed esagerazioni. Può essere utile fotografare con realismo la situazione.
In estrema sintesi: anche se l’Amazzonia non è il “polmone” della Terra, anche se è grande come l’unione europea e anche se non sta bruciando tutta, la situazione è grave, e dobbiamo preoccuparci e agire. Ecco come e perché.
1) Ogni anno nella stagione secca (luglio-ottobre) i satelliti rilevano molti incendi nel bacino amazzonico. Secondo l’Instituto Nacional de Pesquisas da Amazôna, il 99% sono accesi dall’uomo, sia su terreni già senza alberi (fuochi agricoli legali) che per aprire all’uso agricolo aree ancora boscate ( spesso illegalmente). Questi fuochi non riguardano tanto la giungla tropicale come la immaginiamo, ma più le aree di margine più rade e aride. L’Amazzonia è fatta anche di questi ecosistemi (come il “cerrado”), ugualmente preziosi e delicati. Eppure, un problema c’è.
2) Vari satelliti hanno individuato nel 2019 oltre 80000 “punti fuoco”, cioè quasi il doppio rispetto all’anno scorso e il 40% in più rispetto alla media dal 2013 (update: quasi 140 000 secondo i dati del satellite MODIS della NASA). L’Amazzonia (con i suoi vari ecosistemi) è grande quasi 6 milioni di km quadrati, poco più dell’Unione Europea (!) Secondo il “Guardian”, da gennaio a luglio 2019 ne sono bruciati 18600 km quadrati, cioè lo 0.3%. All’inizio di agosto questa superficie era il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ma siamo lontani dal record e in media con il periodo 2000-2018. Tuttavia, il fenomeno deve preoccuparci (anche se ne parliamo solo quest’anno).
3) L’Amazzonia non è il polmone del mondo. Tra il 50 e il 70% dell’ossigeno sulla Terra è prodotto dalla fotosintesi delle alghe negli oceani. Il resto dalle praterie, dai campi coltivati (sì, anche loro) e dalle foreste che crescono velocemente, accumulando carbonio e rilasciando ossigeno. L’Amazzonia non produce il 20% dell’ossigeno nel mondo (un dato errato che rimbalza anche sulle testate più prestigiose). Al massimo il 6%, ma più probabilmente ZERO, perché la foresta tropicale non ha una crescita netta positiva (tanti alberi crescono quanti ne muoiono e si decompongono per cause naturali). Anzi, da qualche anno ormai (a causa della deforestazione e della siccità ) l’Amazzonia CONSUMA ossigeno e emette anidride carbonica. Ma anche se producesse ossigeno, non è questa la ragione per cui preoccuparsi: nell’atmosfera c’è il 21% di ossigeno e il 0.0415% di anidride carbonica. Ma è proprio la anidride carbonica a essere pericolosa per l’effetto serra, e poiché in proporzione ce n’è poca, aggiungerne o toglierne un poco fa molto più effetto che aggiungere o togliere un poco di ossigeno. Secondo il servizio europeo Copernicus, gli incendi di quest’anno in Amazzonia hanno già prodotto 230 milioni di tonnellate di CO2 (più di quelli siberiani), proveniente soprattutto dal suolo, povero di sostanze nutritive ma ricco di carbonio (quindi anche gli incendi in terreni agricoli contribuiscono a questo problema).
4) Aumentare la CO2 significa aggravare il riscaldamento climatico, che rende probabili altri incendi, e così via in un circolo vizioso. Inoltre, l’Amazzonia è così grande che produce tramite l’evaporazione dagli alberi la “proprie” nuvole e la “propria” pioggia. Se incendi e deforestazione arriveranno a riguardare il 25%-40% della foresta (per ora siamo intorno al 15%), l’ecosistema non sarà più in grado di regolare il proprio clima e potrebbe trasformarsi in una savana (come era già 55 milioni di anni fa), rilasciando enormi quantità di CO2 nell’atmosfera e mettendo a rischio milioni di specie animali e vegetali, la gran parte sconosciute, tra cui il 25% delle piante medicinali che l’umanità utilizza per la fabbricazione di farmaci di ogni tipo.
5) Nelle stagioni secche (El Nino) gli incendi sono normalmente di più perché è più probabile che si propaghino in modo incontrollato. Ma quest’anno la pioggia è stata solo poco sotto la media, quindi la siccità non è stata il fattore scatenante.
6) Fino al 2017, la deforestazione in Amazzonia, che è causata soprattutto dalla conversione in terreni per la coltura della soia (per alimentazione animale) e per pascolo estensivo (non intensivo!) era considerevolmente diminuita. Il 2018 e 2019 hanno visto un aumento velocissimo di area disboscata (cioè trasformata permanentemente in non-foresta). Secondo L’agenzia spaziale brasiliana (il cui direttore è stato licenziato da Jair Bolsonaro) quest’anno potremmo raggiungere per la prima volta in un decennio i 10.000 km quadrati disboscati. Gli incendi sono legati alla deforestazione, essendone uno degli strumenti principali.
7) Il presidente Bolsonaro durante il suo mandato ha incoraggiato nelle parole e con i fatti l’eliminazione della foresta a scopi produttivi, tolto fondi al monitoraggio e alla protezione ambientale e allentato i controlli sulle illegalità. Tuttavia, la deforestazione e gli incendi procedono rapidi anche nell’Amazzonia boliviana (soprattutto a causa delle estrazioni minerarie), dove il presidente Evo Morales non può certo essere definito un capitalista di destra. Pertanto, il problema non è solo di chi guida lo Stato, ma di un sistema di mercato internazionale legato alle esportazioni di soia, carne, e minerali verso Europa e USA.
8) La carne è uno dei principali prodotti di esportazione dal Brasile, e l’Italia è uno dei principali importatori (30.000 tonnellate/anno – soprattutto per carni lavorate di bassa qualità). L’accordo commerciale UE-Mercosur firmato la scorsa settimana facilita l’importazione di altre 100.000 t di carne bovina all’anno dal Sudamerica all’Europa ed è oggetto di una interrogazione al Parlamento Europeo di Coldiretti, che teme la concorrenza sleale nei confronti delle carni italiane (che non causano deforestazione). Uno studio ha dimostrato che l’EU è stata indirettamente responsabile di 9 milioni di ettari di deforestazione nel mondo nel periodo 1990-2008 mediante il consumo di prodotti ottenuti grazie a disboscamento (soia, carne, olio di palma).
9) Cosa fare? Le azioni più efficaci sono quelle collettive e politiche. Occorre organizzarsi e fare pressione per modificare le abitudini alimentari, i meccanismi di importazione, e allineare la spesa pubblica al reale valore delle cose: quanto viene destinato alla cooperazione ambientale? Quanto invece a sostenere i consumi domestici di prodotti responsabili di deforestazione? Il primo passo (necessario non sufficiente) è a livello personale – accettare la sfida della complessità e cercare di capire da dove proviene e che conseguenze ha ciò che consumiamo.
10) Utile leggere la fonte originale dal "Guardian" (qui il link).
Dieci punti spiegati (bene) dal “Guardian” e da un esperto. Giorgio Vacchiano – ricercatore della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale – fra gli 11 migliori ricercatori forestali nel mondo premiati dalla rivista scientifica “Nature”. Anche su questa emergenza ecologica si sono dette e lette tante inesattezze ed esagerazioni. Può essere utile fotografare con realismo la situazione.
In estrema sintesi: anche se l’Amazzonia non è il “polmone” della Terra, anche se è grande come l’unione europea e anche se non sta bruciando tutta, la situazione è grave, e dobbiamo preoccuparci e agire. Ecco come e perché.
1) Ogni anno nella stagione secca (luglio-ottobre) i satelliti rilevano molti incendi nel bacino amazzonico. Secondo l’Instituto Nacional de Pesquisas da Amazôna, il 99% sono accesi dall’uomo, sia su terreni già senza alberi (fuochi agricoli legali) che per aprire all’uso agricolo aree ancora boscate ( spesso illegalmente). Questi fuochi non riguardano tanto la giungla tropicale come la immaginiamo, ma più le aree di margine più rade e aride. L’Amazzonia è fatta anche di questi ecosistemi (come il “cerrado”), ugualmente preziosi e delicati. Eppure, un problema c’è.
2) Vari satelliti hanno individuato nel 2019 oltre 80000 “punti fuoco”, cioè quasi il doppio rispetto all’anno scorso e il 40% in più rispetto alla media dal 2013 (update: quasi 140 000 secondo i dati del satellite MODIS della NASA). L’Amazzonia (con i suoi vari ecosistemi) è grande quasi 6 milioni di km quadrati, poco più dell’Unione Europea (!) Secondo il “Guardian”, da gennaio a luglio 2019 ne sono bruciati 18600 km quadrati, cioè lo 0.3%. All’inizio di agosto questa superficie era il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ma siamo lontani dal record e in media con il periodo 2000-2018. Tuttavia, il fenomeno deve preoccuparci (anche se ne parliamo solo quest’anno).
3) L’Amazzonia non è il polmone del mondo. Tra il 50 e il 70% dell’ossigeno sulla Terra è prodotto dalla fotosintesi delle alghe negli oceani. Il resto dalle praterie, dai campi coltivati (sì, anche loro) e dalle foreste che crescono velocemente, accumulando carbonio e rilasciando ossigeno. L’Amazzonia non produce il 20% dell’ossigeno nel mondo (un dato errato che rimbalza anche sulle testate più prestigiose). Al massimo il 6%, ma più probabilmente ZERO, perché la foresta tropicale non ha una crescita netta positiva (tanti alberi crescono quanti ne muoiono e si decompongono per cause naturali). Anzi, da qualche anno ormai (a causa della deforestazione e della siccità ) l’Amazzonia CONSUMA ossigeno e emette anidride carbonica. Ma anche se producesse ossigeno, non è questa la ragione per cui preoccuparsi: nell’atmosfera c’è il 21% di ossigeno e il 0.0415% di anidride carbonica. Ma è proprio la anidride carbonica a essere pericolosa per l’effetto serra, e poiché in proporzione ce n’è poca, aggiungerne o toglierne un poco fa molto più effetto che aggiungere o togliere un poco di ossigeno. Secondo il servizio europeo Copernicus, gli incendi di quest’anno in Amazzonia hanno già prodotto 230 milioni di tonnellate di CO2 (più di quelli siberiani), proveniente soprattutto dal suolo, povero di sostanze nutritive ma ricco di carbonio (quindi anche gli incendi in terreni agricoli contribuiscono a questo problema).
4) Aumentare la CO2 significa aggravare il riscaldamento climatico, che rende probabili altri incendi, e così via in un circolo vizioso. Inoltre, l’Amazzonia è così grande che produce tramite l’evaporazione dagli alberi la “proprie” nuvole e la “propria” pioggia. Se incendi e deforestazione arriveranno a riguardare il 25%-40% della foresta (per ora siamo intorno al 15%), l’ecosistema non sarà più in grado di regolare il proprio clima e potrebbe trasformarsi in una savana (come era già 55 milioni di anni fa), rilasciando enormi quantità di CO2 nell’atmosfera e mettendo a rischio milioni di specie animali e vegetali, la gran parte sconosciute, tra cui il 25% delle piante medicinali che l’umanità utilizza per la fabbricazione di farmaci di ogni tipo.
5) Nelle stagioni secche (El Nino) gli incendi sono normalmente di più perché è più probabile che si propaghino in modo incontrollato. Ma quest’anno la pioggia è stata solo poco sotto la media, quindi la siccità non è stata il fattore scatenante.
6) Fino al 2017, la deforestazione in Amazzonia, che è causata soprattutto dalla conversione in terreni per la coltura della soia (per alimentazione animale) e per pascolo estensivo (non intensivo!) era considerevolmente diminuita. Il 2018 e 2019 hanno visto un aumento velocissimo di area disboscata (cioè trasformata permanentemente in non-foresta). Secondo L’agenzia spaziale brasiliana (il cui direttore è stato licenziato da Jair Bolsonaro) quest’anno potremmo raggiungere per la prima volta in un decennio i 10.000 km quadrati disboscati. Gli incendi sono legati alla deforestazione, essendone uno degli strumenti principali.
7) Il presidente Bolsonaro durante il suo mandato ha incoraggiato nelle parole e con i fatti l’eliminazione della foresta a scopi produttivi, tolto fondi al monitoraggio e alla protezione ambientale e allentato i controlli sulle illegalità. Tuttavia, la deforestazione e gli incendi procedono rapidi anche nell’Amazzonia boliviana (soprattutto a causa delle estrazioni minerarie), dove il presidente Evo Morales non può certo essere definito un capitalista di destra. Pertanto, il problema non è solo di chi guida lo Stato, ma di un sistema di mercato internazionale legato alle esportazioni di soia, carne, e minerali verso Europa e USA.
8) La carne è uno dei principali prodotti di esportazione dal Brasile, e l’Italia è uno dei principali importatori (30.000 tonnellate/anno – soprattutto per carni lavorate di bassa qualità). L’accordo commerciale UE-Mercosur firmato la scorsa settimana facilita l’importazione di altre 100.000 t di carne bovina all’anno dal Sudamerica all’Europa ed è oggetto di una interrogazione al Parlamento Europeo di Coldiretti, che teme la concorrenza sleale nei confronti delle carni italiane (che non causano deforestazione). Uno studio ha dimostrato che l’EU è stata indirettamente responsabile di 9 milioni di ettari di deforestazione nel mondo nel periodo 1990-2008 mediante il consumo di prodotti ottenuti grazie a disboscamento (soia, carne, olio di palma).
9) Cosa fare? Le azioni più efficaci sono quelle collettive e politiche. Occorre organizzarsi e fare pressione per modificare le abitudini alimentari, i meccanismi di importazione, e allineare la spesa pubblica al reale valore delle cose: quanto viene destinato alla cooperazione ambientale? Quanto invece a sostenere i consumi domestici di prodotti responsabili di deforestazione? Il primo passo (necessario non sufficiente) è a livello personale – accettare la sfida della complessità e cercare di capire da dove proviene e che conseguenze ha ciò che consumiamo.
10) Utile leggere la fonte originale dal "Guardian" (qui il link).
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