Pubblichiamo la lettera inviata da Antonio Labanca al Presidente della nostra Associazione e Direttore di “Rinascita popolare” Alessandro Risso a seguito dell’incontro organizzato lunedì scorso sulla possibilità di aprire una nuova stagione politica dei “liberi e forti”.
Caro Alessandro,
nel ringraziarti ancora per l’iniziativa con gli amici Popolari piemontesi e Lorenzo Dellai, ti espongo le mie considerazioni quasi in risposta alla tua introduzione.
Rispetto alle sei opzioni per i cattolici democratici che hai presentate (impegno solo prepolitico, partito autonomo identitario, partito autonomo di programma, contenitore moderato tipo DC, contenitore di centrosinistra tipo Margherita, corrente nel PD, ndr), oggi sul tavolo ne vedo una settima che mi sembrava solamente una mia personale insistenza su un’intuizione che coltivo da tempo ma che alcuni tuoi accenni e più estesamente l’ospite avete descritta senza dare ad essa un nome.
È l’opzione che mi piace definire dei “cristiani radicali” che mi parrebbe risolutiva rispetto a tante questioni ideali (anche ideologiche) e pratiche che sono state messe a fuoco anche nei vari interventi della in riunione.
L’appello ai “liberi e forti” oggi si declinerebbe infatti – a mio parere – nella ricerca di persone che desiderano spendersi per il bene pubblico valorizzando a pieno il “movente” (come ama definirlo un caro studioso del cattolicesimo del Novecento) costituito dalla traduzione in atti della loro fede cattolica. Che queste persone siano poi raccolte in una lista di candidati al governo delle istituzioni pubbliche con il necessario supporto dei loro “mondi”, e che in esse – in proporzione ai consensi raccolti - siano promotrici di partecipazione, di dialogo, di scelte laicamente condivise nella misura più ampia possibile.
Perché dico che questa impostazione fa compiere un passo avanti sul piano ideale: perché il “cristiano radicale” si pone in termini di massima disciplina interiore e di massima misericordia verso il prossimo, non si manifesta per sbandierare un credo (o, com’è di moda in questi mesi, un rosario: semmai ne tiene una corona in tasca da sgranare durante le pause della sua giornata) ma per mettere a disposizione un portato della sua “tradizione”, che è storicamente verificata, e della sua “esperienza”, che è connessa a realtà di vita reale nel suo territorio geografico e/o professionale. Non una chiamata a raccolta secondo un’identità confessionale, ma una responsabilizzazione individuale per la cosa pubblica che cerca relazioni con i simili e non stigmatizza l’avversario (che pure esiste).
Mi sembra che questo approccio vada oltre la distinzione fra chi ha animato e difeso un “partito di cattolici” pur risolutivo in certi passaggi politici, e chi ha teorizzato e pratico una diaspora assoluta pur necessaria per distinguere senza equivoci il piano della pratica religiosa da quello della partita partitica. E non spinge a un generico riferimento a “valori cristiani” o a intransigenti arroccamenti su “questioni non negoziabili”, ma richiama fortemente alla una coscienza personale di ciascuno senza coperture “di gruppo” (che arrivano a giustificare ogni decisione, anche le maggiori violenze, nella deresponsabilizzazione dell’individuo).
Non è semplice aggiornamento della definizione di certo cattolicesimo sociale italiano (popolari, democratici cristiani) ma un salto di qualità alla luce dell’esperienza interna alla Chiesa dopo il Concilio ecumenico Vaticano II e delle trasformazioni culturali e sociali del nostro Paese e dell’Europa dopo il Sessantotto e la caduta del Muro di Berlino. Il cristiano radicale gioca in un campo che non è più quello della maggioranza cattolica per inerzia culturale ma quello della atomizzazione dell’esperienza di fede appena mitigata da appartenenze a parrocchie, gruppi associazioni, movimenti. Essere minoranza richiede più convinzione, più coraggio, più radicalità.
Perché questa impostazione consente anche di dare migliori risposte anche sul piano pratico oggi? Perché impone la selezione di persone davvero libere e davvero forti. Libere da condizionamenti di appartenenze a cordate, a convenienze, a eredità pesanti sul piano partitico; forti perché abilitata a un ruolo pubblico dalla loro biografia fatta di competenze e di servizi. Persone cioè che possono essere spese per la loro personale storia, riconoscibili nei loro ambienti per la loro coerenza e capacità.
Persone certo non “inattaccabili” in assoluto dacché la competizione politica potrà portare avversioni e trappole, ma sicuramente “difendibili” dal momento che la forza da essi impressa all’impegno politico non affonda nei fanghi del Web o nella sterilità di certi talk show ma deriva da una rete di testimoni della loro libertà e generosità: questo dovrà essere - tra l’altro – il compito di un “partito” che li sostenga nella competizione elettorale e, più ancora nella quotidianità del servizio.
Cristiani radicali che non sono espressione di una ideologia ma di un “metodo”: la dimensione sociale del Vangelo, quella che – da esprimersi in termini più aggiornati – chiamiamo comunemente la dottrina sociale della Chiesa. Ancora una volta “liberi” perché non costretti da un pre-giudizio sulla realtà e sulle soluzioni, sia pure intimamente maturato in buona fede o supportato da una appartenenza aprioristica, ma attenti a capire e a rispondere con laicità alle sfide che sempre si rinnovano. L’apporto alla vita politica dei cristiani radicali non nasce dal ricorso a un modello del passato ma da una sensibilità spirituale che mette insieme “cose nuove e cose antiche” per il maggior bene possibile. Un modo convincente per dirsi – ed essere - oltre la geografica distinzione fra destra e sinistra, fra conservatorismo e modernismo, non per negare categorie di pensiero ma per non farsi ingabbiare da canoni mutevoli eppur stantii.
Fra le sei diverse “soluzioni” al desiderio di servizio politico che anche tu, Alessandro, con molti amici leggi nel presente momento dell’Italia (e dell’Europa) forse è la settima che ci permetterebbe di spaccare certi tatticismi, certe dipendenze da leader autoreferenziali, certe collocazioni che dipendono da puro calcolo probabilistico del successo. Osare anche di rompere l’immagine di un moderatismo che – abbiamo visto – ha reso l’immagine di un mondo cattolico tergiversante, ambiguo, inoffensivo. La moderazione nostra è figlia della prudenza virtù teologica, sorella della forza, della temperanza, della giustizia. Non per neo-papalismo, ma per oggettiva visione profetica può esserci guida e giustificazione la dottrina che sta esprimendo Francesco papa. Che qualcuno dice – per riferirsi al linguaggio politico - essere “più a sinistra” della sinistra… L’opzione 7 potrebbe collocare la nuova proposta di alcuni cattolici al nostro Paese “a sinistra” del PD: non me ne stupirei, se traduciamo questa opzione in “ripartire dagli ultimi”, “attenzione alle periferie umane”, o simili.
D’altronde sono passati 50 anni da quando don Milani scriveva a Pipetta (qui il link): oggi quella sinistra non ha più “fame né sete”, sta dalla parte del potere, è un buon pezzo del potere... è forse il giorno in cui dobbiamo “tradirla”.
Caro Alessandro,
nel ringraziarti ancora per l’iniziativa con gli amici Popolari piemontesi e Lorenzo Dellai, ti espongo le mie considerazioni quasi in risposta alla tua introduzione.
Rispetto alle sei opzioni per i cattolici democratici che hai presentate (impegno solo prepolitico, partito autonomo identitario, partito autonomo di programma, contenitore moderato tipo DC, contenitore di centrosinistra tipo Margherita, corrente nel PD, ndr), oggi sul tavolo ne vedo una settima che mi sembrava solamente una mia personale insistenza su un’intuizione che coltivo da tempo ma che alcuni tuoi accenni e più estesamente l’ospite avete descritta senza dare ad essa un nome.
È l’opzione che mi piace definire dei “cristiani radicali” che mi parrebbe risolutiva rispetto a tante questioni ideali (anche ideologiche) e pratiche che sono state messe a fuoco anche nei vari interventi della in riunione.
L’appello ai “liberi e forti” oggi si declinerebbe infatti – a mio parere – nella ricerca di persone che desiderano spendersi per il bene pubblico valorizzando a pieno il “movente” (come ama definirlo un caro studioso del cattolicesimo del Novecento) costituito dalla traduzione in atti della loro fede cattolica. Che queste persone siano poi raccolte in una lista di candidati al governo delle istituzioni pubbliche con il necessario supporto dei loro “mondi”, e che in esse – in proporzione ai consensi raccolti - siano promotrici di partecipazione, di dialogo, di scelte laicamente condivise nella misura più ampia possibile.
Perché dico che questa impostazione fa compiere un passo avanti sul piano ideale: perché il “cristiano radicale” si pone in termini di massima disciplina interiore e di massima misericordia verso il prossimo, non si manifesta per sbandierare un credo (o, com’è di moda in questi mesi, un rosario: semmai ne tiene una corona in tasca da sgranare durante le pause della sua giornata) ma per mettere a disposizione un portato della sua “tradizione”, che è storicamente verificata, e della sua “esperienza”, che è connessa a realtà di vita reale nel suo territorio geografico e/o professionale. Non una chiamata a raccolta secondo un’identità confessionale, ma una responsabilizzazione individuale per la cosa pubblica che cerca relazioni con i simili e non stigmatizza l’avversario (che pure esiste).
Mi sembra che questo approccio vada oltre la distinzione fra chi ha animato e difeso un “partito di cattolici” pur risolutivo in certi passaggi politici, e chi ha teorizzato e pratico una diaspora assoluta pur necessaria per distinguere senza equivoci il piano della pratica religiosa da quello della partita partitica. E non spinge a un generico riferimento a “valori cristiani” o a intransigenti arroccamenti su “questioni non negoziabili”, ma richiama fortemente alla una coscienza personale di ciascuno senza coperture “di gruppo” (che arrivano a giustificare ogni decisione, anche le maggiori violenze, nella deresponsabilizzazione dell’individuo).
Non è semplice aggiornamento della definizione di certo cattolicesimo sociale italiano (popolari, democratici cristiani) ma un salto di qualità alla luce dell’esperienza interna alla Chiesa dopo il Concilio ecumenico Vaticano II e delle trasformazioni culturali e sociali del nostro Paese e dell’Europa dopo il Sessantotto e la caduta del Muro di Berlino. Il cristiano radicale gioca in un campo che non è più quello della maggioranza cattolica per inerzia culturale ma quello della atomizzazione dell’esperienza di fede appena mitigata da appartenenze a parrocchie, gruppi associazioni, movimenti. Essere minoranza richiede più convinzione, più coraggio, più radicalità.
Perché questa impostazione consente anche di dare migliori risposte anche sul piano pratico oggi? Perché impone la selezione di persone davvero libere e davvero forti. Libere da condizionamenti di appartenenze a cordate, a convenienze, a eredità pesanti sul piano partitico; forti perché abilitata a un ruolo pubblico dalla loro biografia fatta di competenze e di servizi. Persone cioè che possono essere spese per la loro personale storia, riconoscibili nei loro ambienti per la loro coerenza e capacità.
Persone certo non “inattaccabili” in assoluto dacché la competizione politica potrà portare avversioni e trappole, ma sicuramente “difendibili” dal momento che la forza da essi impressa all’impegno politico non affonda nei fanghi del Web o nella sterilità di certi talk show ma deriva da una rete di testimoni della loro libertà e generosità: questo dovrà essere - tra l’altro – il compito di un “partito” che li sostenga nella competizione elettorale e, più ancora nella quotidianità del servizio.
Cristiani radicali che non sono espressione di una ideologia ma di un “metodo”: la dimensione sociale del Vangelo, quella che – da esprimersi in termini più aggiornati – chiamiamo comunemente la dottrina sociale della Chiesa. Ancora una volta “liberi” perché non costretti da un pre-giudizio sulla realtà e sulle soluzioni, sia pure intimamente maturato in buona fede o supportato da una appartenenza aprioristica, ma attenti a capire e a rispondere con laicità alle sfide che sempre si rinnovano. L’apporto alla vita politica dei cristiani radicali non nasce dal ricorso a un modello del passato ma da una sensibilità spirituale che mette insieme “cose nuove e cose antiche” per il maggior bene possibile. Un modo convincente per dirsi – ed essere - oltre la geografica distinzione fra destra e sinistra, fra conservatorismo e modernismo, non per negare categorie di pensiero ma per non farsi ingabbiare da canoni mutevoli eppur stantii.
Fra le sei diverse “soluzioni” al desiderio di servizio politico che anche tu, Alessandro, con molti amici leggi nel presente momento dell’Italia (e dell’Europa) forse è la settima che ci permetterebbe di spaccare certi tatticismi, certe dipendenze da leader autoreferenziali, certe collocazioni che dipendono da puro calcolo probabilistico del successo. Osare anche di rompere l’immagine di un moderatismo che – abbiamo visto – ha reso l’immagine di un mondo cattolico tergiversante, ambiguo, inoffensivo. La moderazione nostra è figlia della prudenza virtù teologica, sorella della forza, della temperanza, della giustizia. Non per neo-papalismo, ma per oggettiva visione profetica può esserci guida e giustificazione la dottrina che sta esprimendo Francesco papa. Che qualcuno dice – per riferirsi al linguaggio politico - essere “più a sinistra” della sinistra… L’opzione 7 potrebbe collocare la nuova proposta di alcuni cattolici al nostro Paese “a sinistra” del PD: non me ne stupirei, se traduciamo questa opzione in “ripartire dagli ultimi”, “attenzione alle periferie umane”, o simili.
D’altronde sono passati 50 anni da quando don Milani scriveva a Pipetta (qui il link): oggi quella sinistra non ha più “fame né sete”, sta dalla parte del potere, è un buon pezzo del potere... è forse il giorno in cui dobbiamo “tradirla”.
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