Ormai siamo entrati in campagna elettorale: per il rinnovo del Parlamento Europeo, ma anche per quello del Consiglio Regionale del Piemonte e di non pochi Comuni. Anche se le campagne elettorali si protraggono per l’intero anno e, nel caso specifico, il confronto sull’Europa che verrà è già iniziato da tempo.
Questa circostanza ha favorito la riscoperta e la riproposta dell’importanza della costruzione dell’Unità Europea per quanto riguarda il nostro futuro. Al di là di lentezze ed errori, la realizzazione di una Federazione che veda uniti i nostri popoli è fondamentale per non essere piccoli giocattoli nelle mani delle grandi potenze: sia dal punto di vista commerciale, che di politica estera, che di sovranità e nuova cittadinanza, che di politica culturale, sociale e di giustizia.
A tal proposito mi ha colpito un articolo di qualche tempo fa sulla rivista “Città Nuova” in cui si presentavano (parlando di idea di Europa e senza sminuire l’apporto fondamentale dei padri fondatori, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi e di quanti fin dagli anni venti o dall’esilio, dal confino o dal carcere l’hanno sognata e proposta) quattro figure definite madri fondatrici: denominazione usata non da un punto di vista istituzionale, ma più in prospettiva storico-filosofica e di fondamenti del pensiero che in chiave di impegno contemporaneo.
María Zambrano: “Cos’è stata l’Europa? Cos’è, nella sua complessa e ricchissima realtà, l’irrinunciabile? […] È una radice comune, ricevuta per trasmissione, non inventata, non dovuta al nostro sforzo. [..] Non sappiamo in che cosa consista quel quid che ci apparenta con tutto ciò che è europeo e che in questo istante ha più vigore di qualsiasi tratto nazionale, particolare o individuale. Quell’elemento che ci fa sentire l’Europa come una grande unità nella quale siamo compresi integralmente”. (M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999).
Hannah Arendt con le osservazioni sul legame tra diritti umani e cittadinanza (si pensi, oggi, alla condizione dei profughi e dei migranti): “Le guerre civili scoppiate nel periodo fra i due conflitti mondiali furono più sanguinose e crudeli che in passato; e diedero luogo a migrazioni di gruppi che a differenza dei loro più fortunati predecessori, i profughi delle guerre religiose, non furono accolti e assimilati in nessun Paese. […] C’erano state delle minoranze anche in passato, ma la minoranza come istituzione permanente, il riconoscimento che milioni di persone vivevano fuori della normale protezione giuridica e avevano bisogno per i loro diritti elementari di un’ulteriore garanzia da un organismo esterno, la presunzione che questo stato di cose non fosse temporaneo e occorressero dei trattati per stabilire un modus vivendi durevole, tutto ciò era qualcosa di nuovo nella storia europea almeno su tale scala. […] Nessun paradosso della politica contemporanea è più pervaso di amara ironia del divario fra gli sforzi di sinceri idealisti, che insistono tenacemente a considerare “inalienabili” diritti umani in realtà goduti soltanto dai cittadini dei Paesi più prosperi e civili, e la situazione degli individui privi di diritti, che è costantemente peggiorata.[..] è perfettamente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo democratico, cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti”. (H. Arendt, II tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, in Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004 [1948]).
Simone Weil (gli “obblighi” verso l’essere umano come complemento dei diritti umani fondamentali): “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto [...] II diritto è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto. […]L’obbligo lega solo gli esseri umani. Non c’è obbligo per le collettività come tali. Ve ne sono invece per tutti gli esseri umani che compongono, servono, comandano o rappresentano una collettività, tanto per la parte della loro vita che è legata alla collettività quanto per quella che ne è indipendente [..] C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire; e persino quando non gli si riconoscesse alcun diritto”. (S. Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2017 [1943]).
Chiara Lubich con la visione di Unione europea nel più ampio contesto dell’impegno politico come fraternità universale: “Sono questi i tempi in cui ogni popolo deve oltrepassare il proprio confine e guardare al di là; è arrivato il momento in cui la patria altrui va amata come la propria, in cui il nostro occhio ha da acquistare una nuova purezza. […] Noi speriamo che il Signore abbia pietà di questo mondo diviso e sbandato, di questi popoli rinchiusi nel proprio guscio a contemplare la propria bellezza – per loro unica – limitata ed insoddisfacente, a tenersi coi denti stretti i propri tesori – anche quei beni che potrebbero servire ad altri popoli presso cui si muore di fame – e faccia crollare le barriere e correre con flusso ininterrotto la carità tra terra e terra, torrente di beni spirituali e materiali”. [Dal Discorso dell’estate 1959, nel paese dolomitico di Fiera di Primiero; in La dottrina spirituale, Mondadori, Milano 2001, pp. 277-279]. “La fraternità è un impegno che favorisce lo sviluppo autenticamente umano del Paese senza isolare nell’incertezza del futuro le categorie più deboli, senza escluderne altre dal benessere, senza creare nuove povertà; salvaguarda i diritti della cittadinanza e l’accesso alla cittadinanza stessa, aprendo una speranza a quanti cercano la possibilità di una vita degna nel nostro Paese” [C. Lubich, Per una politica di comunione, in «Nuova Umanità», 2001/2].
Da quanto sopra si comprende che dobbiamo guardare l’Europa, sì come “unione di diversi” ma anche come comunità che ha delle radici comuni; radici spirituali, culturali, del diritto, di solidarietà, di umanesimo, di rispetto dei diritti della persona, di riconoscimento del pluralismo e della società civile.
E quanto accaduto a Parigi, con l’incendio che ha coinvolto la Cattedrale di Notre Dame, richiama a quest’anima dell’Europa, a queste radici, che fanno di popoli e nazioni diverse una storia e una civiltà comune.
Inoltre dovremmo capire che non è possibile avere alcune Istituzioni in comune e una moneta unica senza avere uno Stato: e questo Stato è la Federazione degli Stati Uniti d’Europa.
Mi pare che, parlare di Europa unita e rilanciare quell’obiettivo (questo è ciò a cui saremo chiamati col voto il 26 maggio) e considerare ciò che le “madri fondatrici” ci indicano, aiuti anche a recuperare i motivi di fondo dell’azione politica locale e nazionale: il bene comune, la moralità della vita pubblica, l’amore per il prossimo, la fraternità, il rispetto del pluralismo. Spero che siamo tutti consapevoli di questo compito per non restare invischiati solo da promesse generiche e da una visione contingente ed egoista.
Questa circostanza ha favorito la riscoperta e la riproposta dell’importanza della costruzione dell’Unità Europea per quanto riguarda il nostro futuro. Al di là di lentezze ed errori, la realizzazione di una Federazione che veda uniti i nostri popoli è fondamentale per non essere piccoli giocattoli nelle mani delle grandi potenze: sia dal punto di vista commerciale, che di politica estera, che di sovranità e nuova cittadinanza, che di politica culturale, sociale e di giustizia.
A tal proposito mi ha colpito un articolo di qualche tempo fa sulla rivista “Città Nuova” in cui si presentavano (parlando di idea di Europa e senza sminuire l’apporto fondamentale dei padri fondatori, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi e di quanti fin dagli anni venti o dall’esilio, dal confino o dal carcere l’hanno sognata e proposta) quattro figure definite madri fondatrici: denominazione usata non da un punto di vista istituzionale, ma più in prospettiva storico-filosofica e di fondamenti del pensiero che in chiave di impegno contemporaneo.
María Zambrano: “Cos’è stata l’Europa? Cos’è, nella sua complessa e ricchissima realtà, l’irrinunciabile? […] È una radice comune, ricevuta per trasmissione, non inventata, non dovuta al nostro sforzo. [..] Non sappiamo in che cosa consista quel quid che ci apparenta con tutto ciò che è europeo e che in questo istante ha più vigore di qualsiasi tratto nazionale, particolare o individuale. Quell’elemento che ci fa sentire l’Europa come una grande unità nella quale siamo compresi integralmente”. (M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999).
Hannah Arendt con le osservazioni sul legame tra diritti umani e cittadinanza (si pensi, oggi, alla condizione dei profughi e dei migranti): “Le guerre civili scoppiate nel periodo fra i due conflitti mondiali furono più sanguinose e crudeli che in passato; e diedero luogo a migrazioni di gruppi che a differenza dei loro più fortunati predecessori, i profughi delle guerre religiose, non furono accolti e assimilati in nessun Paese. […] C’erano state delle minoranze anche in passato, ma la minoranza come istituzione permanente, il riconoscimento che milioni di persone vivevano fuori della normale protezione giuridica e avevano bisogno per i loro diritti elementari di un’ulteriore garanzia da un organismo esterno, la presunzione che questo stato di cose non fosse temporaneo e occorressero dei trattati per stabilire un modus vivendi durevole, tutto ciò era qualcosa di nuovo nella storia europea almeno su tale scala. […] Nessun paradosso della politica contemporanea è più pervaso di amara ironia del divario fra gli sforzi di sinceri idealisti, che insistono tenacemente a considerare “inalienabili” diritti umani in realtà goduti soltanto dai cittadini dei Paesi più prosperi e civili, e la situazione degli individui privi di diritti, che è costantemente peggiorata.[..] è perfettamente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo democratico, cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti”. (H. Arendt, II tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, in Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004 [1948]).
Simone Weil (gli “obblighi” verso l’essere umano come complemento dei diritti umani fondamentali): “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto [...] II diritto è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto. […]L’obbligo lega solo gli esseri umani. Non c’è obbligo per le collettività come tali. Ve ne sono invece per tutti gli esseri umani che compongono, servono, comandano o rappresentano una collettività, tanto per la parte della loro vita che è legata alla collettività quanto per quella che ne è indipendente [..] C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a intervenire; e persino quando non gli si riconoscesse alcun diritto”. (S. Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2017 [1943]).
Chiara Lubich con la visione di Unione europea nel più ampio contesto dell’impegno politico come fraternità universale: “Sono questi i tempi in cui ogni popolo deve oltrepassare il proprio confine e guardare al di là; è arrivato il momento in cui la patria altrui va amata come la propria, in cui il nostro occhio ha da acquistare una nuova purezza. […] Noi speriamo che il Signore abbia pietà di questo mondo diviso e sbandato, di questi popoli rinchiusi nel proprio guscio a contemplare la propria bellezza – per loro unica – limitata ed insoddisfacente, a tenersi coi denti stretti i propri tesori – anche quei beni che potrebbero servire ad altri popoli presso cui si muore di fame – e faccia crollare le barriere e correre con flusso ininterrotto la carità tra terra e terra, torrente di beni spirituali e materiali”. [Dal Discorso dell’estate 1959, nel paese dolomitico di Fiera di Primiero; in La dottrina spirituale, Mondadori, Milano 2001, pp. 277-279]. “La fraternità è un impegno che favorisce lo sviluppo autenticamente umano del Paese senza isolare nell’incertezza del futuro le categorie più deboli, senza escluderne altre dal benessere, senza creare nuove povertà; salvaguarda i diritti della cittadinanza e l’accesso alla cittadinanza stessa, aprendo una speranza a quanti cercano la possibilità di una vita degna nel nostro Paese” [C. Lubich, Per una politica di comunione, in «Nuova Umanità», 2001/2].
Da quanto sopra si comprende che dobbiamo guardare l’Europa, sì come “unione di diversi” ma anche come comunità che ha delle radici comuni; radici spirituali, culturali, del diritto, di solidarietà, di umanesimo, di rispetto dei diritti della persona, di riconoscimento del pluralismo e della società civile.
E quanto accaduto a Parigi, con l’incendio che ha coinvolto la Cattedrale di Notre Dame, richiama a quest’anima dell’Europa, a queste radici, che fanno di popoli e nazioni diverse una storia e una civiltà comune.
Inoltre dovremmo capire che non è possibile avere alcune Istituzioni in comune e una moneta unica senza avere uno Stato: e questo Stato è la Federazione degli Stati Uniti d’Europa.
Mi pare che, parlare di Europa unita e rilanciare quell’obiettivo (questo è ciò a cui saremo chiamati col voto il 26 maggio) e considerare ciò che le “madri fondatrici” ci indicano, aiuti anche a recuperare i motivi di fondo dell’azione politica locale e nazionale: il bene comune, la moralità della vita pubblica, l’amore per il prossimo, la fraternità, il rispetto del pluralismo. Spero che siamo tutti consapevoli di questo compito per non restare invischiati solo da promesse generiche e da una visione contingente ed egoista.
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