Seguiamo da anni il tema centrale del lavoro che manca, a causa delle dinamiche della globalizzazione e dell’accelerata automazione. Il reddito di cittadinanza non sarà la risposta migliore, ma almeno parte da una presa di coscienza del problema, che molti continuano a ignorare limitandosi a vagheggiare la mitica “crescita”. Enrico Giovannini, ex ministro del lavoro e presidente ISTAT, in una intervista a Linkiesta prospetta una strategia di governo per il lavoro che ci pare del tutto condivisibile.
«Nuove forze stanno trasformando il mondo del lavoro. Questa transizione richiede azioni decisive». Il rapporto Work for a brighter future dell’Organizzazione internazionale del lavoro parte dalle soluzioni e da una call to action prima che sia troppo tardi. E a ribadirlo è Enrico Giovannini, già presidente dell’ISTAT e ministro del Lavoro, oltre che membro della Commissione globale sul futuro del lavoro dell’ILO che ha redatto lo studio. «I cambiamenti socioeconomici in atto nel mondo del lavoro, quelli tecnologici in primis, vanno mitigati e anticipati, analogamente a quanto si fa per il cambiamento climatico, altrimenti tanti lavoratori finiranno ai margini, rendendo insostenibile la situazione sociale dei Paesi», dice Giovannini. «Non sappiamo quanti lavori verranno distrutti e quanti verranno creati, ma tutto questo avverrà a una velocità molto alta». L’obiettivo da perseguire è uno: «Scrivere un nuovo contratto sociale». Che includa salario minimo per una vita dignitosa, formazione continua e una nuova collaborazione tra le organizzazioni dei lavoratori, quelle delle imprese e i governi.
Da cosa partire?
Occorre un cambio significativo nelle politiche, con un nuovo approccio centrato sull’uomo, non sulle macchine. Il primo passo è una “garanzia universale sul lavoro”, un insieme di diritti minimi che riguardino tutti i lavoratori, che siano dipendenti o autonomi. Compresi quelli che lavorano nella gig economy. Questi diritti minimi non devono essere l’elargizione di una impresa o stabiliti dalla sentenza di un singolo giudice: vanno negoziati a priori, su base sovranazionale.
Passo successivo?
Formazione continua. Bisogna puntare a quella che viene chiamata life long learning. Istituzioni, imprese e sindacati devono trovare soluzioni adeguate ai tempi. Il cambiamento dei sistemi contabili delle imprese può aiutare, così da considerare la formazione non un costo, ma un investimento. Com’è possibile che oggi ci siano benefici fiscali per chi compra un robot e non per chi investe in formazione?
E per chi si trova al di fuori del mondo del lavoro?
Nella Commissione non abbiamo raggiunto una posizione comune sulla questione del reddito minimo. Ma abbiamo affermato la necessità di avere un salario che assicuri una vita dignitosa. Oggi nel mondo ci sono 300 milioni di persone che lavorano, ma che vivono in una condizione di povertà. Introducendo un salario minimo ”vitale”, la platea dei poveri si ridurrebbe drasticamente, limitandola alle persone senza lavoro o “involontariamente” inattive.
Lei è d’accordo all’introduzione di un reddito minimo, come il reddito di cittadinanza?
Sono a favore di un reddito minimo finalizzato alla attivazione e alla transizione da un lavoro a un altro. Un reddito di inclusione, come quello appena varato, anche se il nome è diverso. Fui io stesso a proporre una misura simile quando ero ministro del governo Letta nel 2013, chiamandolo “Sostegno per l’inclusione attiva”, da cui è poi nato il Reddito di inclusione.
Che ruolo hanno invece i sindacati nella sottoscrizione di questo nuovo contratto sociale?
Nel documento si afferma la necessità di assicurare la rappresentanza collettiva dei lavoratori. Il lavoratore organizzato ha una maggiore forza contrattuale nei confronti dell’azienda rispetto al singolo lavoratore. Altrimenti il rischio è uno squilibrio di potere a favore dell’impresa. In un mondo globalizzato, non è detto che i nuovi lavori si creeranno nello stesso posto in cui si distruggeranno. Con un orizzonte del genere davanti, il singolo lavoratore da solo è debole. Servono forme di aggregazione, per evitare che ci si senta costretti ad accettare qualsiasi condizione lavorativa.
Lei è anche grande sostenitore delle misurazioni alternative al PIL per monitorare il grado di benessere di una società. Quali altri cambiamenti necessari emergono nel rapporto?
Se andiamo verso l’idea di accrescere il benessere complessivo e non solo il reddito, bisogna eliminare anche le disuguaglianze di genere. Una proposta, ad esempio, è quella di dare valore economico anche al lavoro domestico e di cura. Occorre, inoltre, recuperare la sovranità sul proprio tempo, con maggiore equilibrio tra lavoro e vita personale. E infine “contrattare gli algoritmi”, che non sono neutrali, per evitare che venga discriminato chi magari ha svolto attività sindacali o le donne che hanno carichi familiari, o chi appartiene a un certo gruppo etnico. Significa dare una “guida umana” all’intelligenza artificiale, che assicuri che le regole che hanno conseguenze sul lavoratori rispettino i diritti dell’uomo e la giustizia.
(Tratto da www.linkiesta.it)
«Nuove forze stanno trasformando il mondo del lavoro. Questa transizione richiede azioni decisive». Il rapporto Work for a brighter future dell’Organizzazione internazionale del lavoro parte dalle soluzioni e da una call to action prima che sia troppo tardi. E a ribadirlo è Enrico Giovannini, già presidente dell’ISTAT e ministro del Lavoro, oltre che membro della Commissione globale sul futuro del lavoro dell’ILO che ha redatto lo studio. «I cambiamenti socioeconomici in atto nel mondo del lavoro, quelli tecnologici in primis, vanno mitigati e anticipati, analogamente a quanto si fa per il cambiamento climatico, altrimenti tanti lavoratori finiranno ai margini, rendendo insostenibile la situazione sociale dei Paesi», dice Giovannini. «Non sappiamo quanti lavori verranno distrutti e quanti verranno creati, ma tutto questo avverrà a una velocità molto alta». L’obiettivo da perseguire è uno: «Scrivere un nuovo contratto sociale». Che includa salario minimo per una vita dignitosa, formazione continua e una nuova collaborazione tra le organizzazioni dei lavoratori, quelle delle imprese e i governi.
Da cosa partire?
Occorre un cambio significativo nelle politiche, con un nuovo approccio centrato sull’uomo, non sulle macchine. Il primo passo è una “garanzia universale sul lavoro”, un insieme di diritti minimi che riguardino tutti i lavoratori, che siano dipendenti o autonomi. Compresi quelli che lavorano nella gig economy. Questi diritti minimi non devono essere l’elargizione di una impresa o stabiliti dalla sentenza di un singolo giudice: vanno negoziati a priori, su base sovranazionale.
Passo successivo?
Formazione continua. Bisogna puntare a quella che viene chiamata life long learning. Istituzioni, imprese e sindacati devono trovare soluzioni adeguate ai tempi. Il cambiamento dei sistemi contabili delle imprese può aiutare, così da considerare la formazione non un costo, ma un investimento. Com’è possibile che oggi ci siano benefici fiscali per chi compra un robot e non per chi investe in formazione?
E per chi si trova al di fuori del mondo del lavoro?
Nella Commissione non abbiamo raggiunto una posizione comune sulla questione del reddito minimo. Ma abbiamo affermato la necessità di avere un salario che assicuri una vita dignitosa. Oggi nel mondo ci sono 300 milioni di persone che lavorano, ma che vivono in una condizione di povertà. Introducendo un salario minimo ”vitale”, la platea dei poveri si ridurrebbe drasticamente, limitandola alle persone senza lavoro o “involontariamente” inattive.
Lei è d’accordo all’introduzione di un reddito minimo, come il reddito di cittadinanza?
Sono a favore di un reddito minimo finalizzato alla attivazione e alla transizione da un lavoro a un altro. Un reddito di inclusione, come quello appena varato, anche se il nome è diverso. Fui io stesso a proporre una misura simile quando ero ministro del governo Letta nel 2013, chiamandolo “Sostegno per l’inclusione attiva”, da cui è poi nato il Reddito di inclusione.
Che ruolo hanno invece i sindacati nella sottoscrizione di questo nuovo contratto sociale?
Nel documento si afferma la necessità di assicurare la rappresentanza collettiva dei lavoratori. Il lavoratore organizzato ha una maggiore forza contrattuale nei confronti dell’azienda rispetto al singolo lavoratore. Altrimenti il rischio è uno squilibrio di potere a favore dell’impresa. In un mondo globalizzato, non è detto che i nuovi lavori si creeranno nello stesso posto in cui si distruggeranno. Con un orizzonte del genere davanti, il singolo lavoratore da solo è debole. Servono forme di aggregazione, per evitare che ci si senta costretti ad accettare qualsiasi condizione lavorativa.
Lei è anche grande sostenitore delle misurazioni alternative al PIL per monitorare il grado di benessere di una società. Quali altri cambiamenti necessari emergono nel rapporto?
Se andiamo verso l’idea di accrescere il benessere complessivo e non solo il reddito, bisogna eliminare anche le disuguaglianze di genere. Una proposta, ad esempio, è quella di dare valore economico anche al lavoro domestico e di cura. Occorre, inoltre, recuperare la sovranità sul proprio tempo, con maggiore equilibrio tra lavoro e vita personale. E infine “contrattare gli algoritmi”, che non sono neutrali, per evitare che venga discriminato chi magari ha svolto attività sindacali o le donne che hanno carichi familiari, o chi appartiene a un certo gruppo etnico. Significa dare una “guida umana” all’intelligenza artificiale, che assicuri che le regole che hanno conseguenze sul lavoratori rispettino i diritti dell’uomo e la giustizia.
(Tratto da www.linkiesta.it)
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