Nel dibattito politico, i temi di politica estera in genere vengono trascurati. Quando se ne parla, lo si fa sovente in modo strumentale per trovare argomentazioni da utilizzare nelle contrapposizioni tra le forze che si contendono il potere in casa nostra.
C'è tuttavia anche chi affronta seriamente temi importanti. Sono legittime la discussioni sulla costruzione europea rispetto alla quale sussistono visioni diversificate sull'edificio da realizzare; ed altrettanto legittimo è formulare differenti valutazioni su quanto è stato fatto finora. Altro tema di necessario confronto, che si intreccia con quello sulla globalizzazione, riguarda l'atlantismo, e di conseguenza la scelta fra un mondo unipolare oppure multipolare. Comunque mancano in genere, nell'affrontare queste tematiche, le considerazione di ordine geopolitico, non solo per ignoranza della disciplina, ma forse principalmente per il timore di mettere in crisi molte delle proprie convinzioni e aspettative.
Si dice che la geopolitica sia diventata oggi di moda. Tuttavia, andrebbe compreso il significato di tale termine. Ho l'abitudine di ricorrere frequentemente al dizionario, e, in materia, trovo sullo Zingarelli questa definizione di geopolitica: “Scienza che studia le basi e le ragioni geografiche dei problemi politici ed economici”. Credo che sia necessario andare un po' più a fondo per comprenderne l'importanza, visto che, ai piani alti del mondo finanziario e degli apparati politico-diplomatici e militari, i decisori la applicano per definire le loro strategie. Ricorro allora ad un esperto quale è Lucio Caracciolo (Direttore di “Limes”). Sinteticamente vediamo cosa ci dice.
La geopolitica analizza conflitti di potere in spazi determinati e, a tal fine, incrocia competenze e discipline diverse: dalla storia alla geografia, dall'antropologia all'economia e altre ancora. È uno studio di casi specifici, per i quali è necessario il confronto fra le diverse rappresentazioni dei soggetti in competizione per un dato territorio. Il territorio è sempre al centro dell'attenzione: infatti, l'uomo resta un animale territoriale, e i suoi spazi di esistenza sono sempre contendibili. Con queste parole, si fa riferimento alle aree su cui sono insediati gli Stati con la loro popolazione e, per le grandi e medie potenze, anche agli ambiti territoriali al di fuori dei loro confini politici da cui tuttavia traggono risorse ritenute vitali e sui quali impongono i loro interessi e la loro influenza.
Nelle questioni che la geopolitica esamina, essa mette a confronto i punti di vista in competizione, ma non afferma mai la verità di uno di questi. Il ragionamento geopolitico è dinamico, perché si svolge nello spaziotempo, e non è limitato alle guerre, ma si estende a ogni tipo di disputa: economica, politica, amministrativa, giurisdizionale. La geopolitica è carica di storia, più ancora che di geografia, perché gli attori politici ricorrono alla storia (come da loro interpretata) per confermare il proprio status e i correlativi progetti territoriali, e per legittimare se stessi e le proprie azioni. Aggiungo che, a condizionare le decisioni degli Stati, c'è (come ci ha detto il grande storico Fernand Braudel) “l'onda lunga della storia”, determinata, oltre che dai dati geografici ed economici, dalla cultura e dalla memoria storica delle popolazioni coinvolte nei fatti presi in esame.
Perché la geopolitica è poco amata o non compresa da politici ed opinionisti?
In primo luogo, direi che mettere a confronto punti di vista senza affermare la verità di alcuno di essi non può incontrare il favore di quanti, nelle contese e nelle relative analisi dei fatti, sono schierati a favore di una parte e quindi cercano argomentazioni da utilizzare in favore della propria tesi. Inoltre, la più parte di noi ha una sua visione del mondo. Taluni ad essa legano degli ideali fortemente sentiti che vorrebbero veder realizzati. Riesce pertanto difficile accettare la rappresentazione di una realtà dura che pone enormi ostacoli a quanto si desidera o si auspica.
Per John Mearsheimer (docente di scienze politiche dell'Università di Chicago e cultore di geopolitica), la società internazionale è sempre stata e continua ad essere anarchica. Gli organismi internazionali non sono in grado di fare da arbitri tra le potenze, né di garantire alcuno Stato dalle loro prepotenze. La principale preoccupazione di ogni Stato è la sopravvivenza, e su questa base fa le sue scelte. Gli aspetti etici non hanno un’influenza significativa nel determinare la politica estera, perché alla base delle scelte di politica internazionale ci sono sempre considerazioni di sicurezza e obiettivi di potenza. La condivisione del sistema istituzionale non evita la competizione e il conflitto fra gli Stati, e ciò vale anche nel caso delle istituzioni democratiche: non basta la diffusione della democrazia per garantire un futuro di pace. Neppure la libera circolazione dei prodotti e dei capitali e l’interdipendenza delle economie fanno venire meno i possibili conflitti. I leader dei Paesi liberaldemocratici (quelli anglosassoni in particolare) amano esprimere il discorso pubblico sulla politica estera in un linguaggio intriso di riferimenti etici e ideologici, ma, a porte chiuse, parlano la lingua della potenza e non dei principi, e si muovono nel sistema internazionale secondo i dettami della Realpolitik.
Secondo Caracciolo, provare a interpretare i conflitti territoriali ricorrendo a categorie ideologiche o morali significa condannarsi al fallimento. Ad esempio, nella seconda metà del Novecento, USA e URSS hanno avuto interesse a proporre la propria irriducibile contrapposizione sotto specie ideologica o moralistica: liberal-democrazia contro comunismo, capitalismo contro economia pianificata, Bene contro Male. Ma si trattava di propaganda per coprire pure logiche di potenza. Con la crisi del paradigma ideologico, sono infatti risultati evidenti i latenti conflitti territoriali che le contrapposte ideologie imperiali tenevano ben velati. Da parte mia, rilevo che si tratta di una contrapposizione di lunga durata (riconducibile all'onda lunga della storia): già nel lontano 1835, Tocqueville considerava America e Russia due potenze emergenti prevedendone un ruolo protagonistico, potenzialmente conflittuale; oggi, poi, caduto il comunismo, continua l'ostilità americana verso la Russia, presentata come il proseguimento dell'URSS.
Inoltre, in base al ragionamento geopolitico e alle priorità che esso assegna nelle scelte di politica estera, è ritenuta velleitaria l'idea (cara a molti esponenti politici di casa nostra) di creare dei legami tra partiti di differenti Paesi superando la dimensione nazionale: infatti, fra gli Stati (incluse le formazioni politiche che agiscono al loro interno), ci possono essere solo alleanze temporanee dettate da motivazioni geopolitiche, mai da affinità ideologica o valoriale. Le stesse “famiglie” europee (socialisti, popolari, ecc.), nate in funzione del parlamento comunitario, non riescono ad elaborare delle scelte condivise sulle questioni internazionali, vedi il caso della Siria e quello della Libia.
C'è poi una considerazione di cui bisogna tener conto, anche se può risultare dura da accettare. Nessuno Stato è totalmente libero di decidere quale politica seguire nei vari contesti internazionali, perché è la situazione geopolitica ad imporre le scelte. Solo alcune grandi potenze (gli Stati Uniti in primis, e in minor misura la Cina) hanno rilevanti margini di libertà in argomento. Un significativo spazio possono crearselo India, Russia e forse Germania. Per tutti gli altri, i margini in materia sono assai ridotti, e per taluni, nulli. Chi non tenesse conto di ciò finirebbe per pagarne un altissimo prezzo.
Sulla base di questa considerazione, Dario Fabbri (analista di “Limes”) ci parla dell'Europa affermando che la costruzione di uno Stato europeo ha davanti a sé difficoltà pressoché insuperabili.
In primo luogo, un'Europa unificata e politicamente e militarmente autonoma, trova il veto degli Stati Uniti (chiunque sia al governo del Paese). La Russia (il cui peso non è minimamente confrontabile con quello americano) incide assai meno sul potenziale processo unitario europeo. Possiamo, tuttavia, ritenere che, nell'ottica di un mondo multipolare, potrebbe non ostacolare la formazione di un'Europa sovrana a condizione che non si spinga nello spazio geografico occupato dai Paesi già parte dell'URSS.
Ammesso ipoteticamente che sia possibile superare i predetti veti, sorge una seconda perplessità. Negli Stati nazionali, i cittadini, in caso di minacce esterne, sono mobilitati per combattere gli aggressori. Poiché l'Europa non sarà mai una Nazione, si chiede Fabbri se spagnoli o belgi o italiani saranno disponibili a prendere le armi per difendere estoni o polacchi o svedesi, e viceversa. Un vero Stato unitario europeo (la cui reale sovranità si misura in primo luogo sul terreno militare) resta pertanto un miraggio. Ne abbiamo visto un esempio quando, alla proposta macroniana di creare un esercito europeo, da molti Paesi (est europei in particolare) la risposta è stata “Viva la NATO”. Realismo o vocazione al ruolo subalterno di “satelliti”?
Di fronte a questo quadro, dobbiamo fare alcune considerazioni e porci delle domande.
Il primo ostacolo alla creazione di uno Stato europeo viene dagli Stati Uniti. Di conseguenza una prospettiva unitaria può prendere corpo solo superando l'attuale mondo unipolare (ancorché traballante) in direzione multipolare, il che significa auspicare un indebolimento del peso degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Come ciò si concilia con il riferimento al legame indissolubile tra Europa e Stati Uniti nel quadro dell'Alleanza atlantica continuamente proposto dalla più parte degli esponenti politici e degli opinionisti?
Non si costruisce, inoltre, uno Stato europeo senza dare agli europei un forte senso di appartenenza a qualche cosa per cui valga la pena di battersi. A tal fine, non bastano gli interessi economici, la creazione di una moneta e le regole di un mercato comune; e non bastano riferimenti quali i diritti dell'uomo e la liberaldemocrazia che non sono riferimenti peculiari od esclusivi dell'Europa, quindi atti a definirla. Come ha scritto Federico Chabod: “Il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c'è qualcosa che non è Europa, e si precisa attraverso un confronto con questa non Europa”.
C'è la necessità di sentirsi protagonisti di una storia condivisa e di essere orgogliosi di un patrimonio culturale che ci connota come europei. Non è quanto caratterizza l'attuale dirigenza della Unione e larga parte dei politici e degli intellettuali di cultura liberal che rifiutano di riconoscere le radici dell'Europa, in nome di una società senza confini e multiculturale (cioè che priva gli europei di identità e di senso di appartenenza).
La storia ci racconta che, a partire dal primitivo “nucleo carolingio”, si è progressivamente esteso, nei secoli, il confine (culturale e identitario) europeo. Ci sono nazioni che, al di là dei molti conflitti, hanno, rispetto alle altre, una maggiore e più antica condivisione di elementi ed esperienze. Dobbiamo chiederci se non si sia proceduto troppo in fretta nell'allargamento della Unione europea, e se non sia il caso di ritornare, per trovare un maggior senso di appartenenza, a quel nucleo carolingio di cui fanno parte i paesi che, nel dopoguerra, hanno posto le basi della Comunità.
C'è tuttavia anche chi affronta seriamente temi importanti. Sono legittime la discussioni sulla costruzione europea rispetto alla quale sussistono visioni diversificate sull'edificio da realizzare; ed altrettanto legittimo è formulare differenti valutazioni su quanto è stato fatto finora. Altro tema di necessario confronto, che si intreccia con quello sulla globalizzazione, riguarda l'atlantismo, e di conseguenza la scelta fra un mondo unipolare oppure multipolare. Comunque mancano in genere, nell'affrontare queste tematiche, le considerazione di ordine geopolitico, non solo per ignoranza della disciplina, ma forse principalmente per il timore di mettere in crisi molte delle proprie convinzioni e aspettative.
Si dice che la geopolitica sia diventata oggi di moda. Tuttavia, andrebbe compreso il significato di tale termine. Ho l'abitudine di ricorrere frequentemente al dizionario, e, in materia, trovo sullo Zingarelli questa definizione di geopolitica: “Scienza che studia le basi e le ragioni geografiche dei problemi politici ed economici”. Credo che sia necessario andare un po' più a fondo per comprenderne l'importanza, visto che, ai piani alti del mondo finanziario e degli apparati politico-diplomatici e militari, i decisori la applicano per definire le loro strategie. Ricorro allora ad un esperto quale è Lucio Caracciolo (Direttore di “Limes”). Sinteticamente vediamo cosa ci dice.
La geopolitica analizza conflitti di potere in spazi determinati e, a tal fine, incrocia competenze e discipline diverse: dalla storia alla geografia, dall'antropologia all'economia e altre ancora. È uno studio di casi specifici, per i quali è necessario il confronto fra le diverse rappresentazioni dei soggetti in competizione per un dato territorio. Il territorio è sempre al centro dell'attenzione: infatti, l'uomo resta un animale territoriale, e i suoi spazi di esistenza sono sempre contendibili. Con queste parole, si fa riferimento alle aree su cui sono insediati gli Stati con la loro popolazione e, per le grandi e medie potenze, anche agli ambiti territoriali al di fuori dei loro confini politici da cui tuttavia traggono risorse ritenute vitali e sui quali impongono i loro interessi e la loro influenza.
Nelle questioni che la geopolitica esamina, essa mette a confronto i punti di vista in competizione, ma non afferma mai la verità di uno di questi. Il ragionamento geopolitico è dinamico, perché si svolge nello spaziotempo, e non è limitato alle guerre, ma si estende a ogni tipo di disputa: economica, politica, amministrativa, giurisdizionale. La geopolitica è carica di storia, più ancora che di geografia, perché gli attori politici ricorrono alla storia (come da loro interpretata) per confermare il proprio status e i correlativi progetti territoriali, e per legittimare se stessi e le proprie azioni. Aggiungo che, a condizionare le decisioni degli Stati, c'è (come ci ha detto il grande storico Fernand Braudel) “l'onda lunga della storia”, determinata, oltre che dai dati geografici ed economici, dalla cultura e dalla memoria storica delle popolazioni coinvolte nei fatti presi in esame.
Perché la geopolitica è poco amata o non compresa da politici ed opinionisti?
In primo luogo, direi che mettere a confronto punti di vista senza affermare la verità di alcuno di essi non può incontrare il favore di quanti, nelle contese e nelle relative analisi dei fatti, sono schierati a favore di una parte e quindi cercano argomentazioni da utilizzare in favore della propria tesi. Inoltre, la più parte di noi ha una sua visione del mondo. Taluni ad essa legano degli ideali fortemente sentiti che vorrebbero veder realizzati. Riesce pertanto difficile accettare la rappresentazione di una realtà dura che pone enormi ostacoli a quanto si desidera o si auspica.
Per John Mearsheimer (docente di scienze politiche dell'Università di Chicago e cultore di geopolitica), la società internazionale è sempre stata e continua ad essere anarchica. Gli organismi internazionali non sono in grado di fare da arbitri tra le potenze, né di garantire alcuno Stato dalle loro prepotenze. La principale preoccupazione di ogni Stato è la sopravvivenza, e su questa base fa le sue scelte. Gli aspetti etici non hanno un’influenza significativa nel determinare la politica estera, perché alla base delle scelte di politica internazionale ci sono sempre considerazioni di sicurezza e obiettivi di potenza. La condivisione del sistema istituzionale non evita la competizione e il conflitto fra gli Stati, e ciò vale anche nel caso delle istituzioni democratiche: non basta la diffusione della democrazia per garantire un futuro di pace. Neppure la libera circolazione dei prodotti e dei capitali e l’interdipendenza delle economie fanno venire meno i possibili conflitti. I leader dei Paesi liberaldemocratici (quelli anglosassoni in particolare) amano esprimere il discorso pubblico sulla politica estera in un linguaggio intriso di riferimenti etici e ideologici, ma, a porte chiuse, parlano la lingua della potenza e non dei principi, e si muovono nel sistema internazionale secondo i dettami della Realpolitik.
Secondo Caracciolo, provare a interpretare i conflitti territoriali ricorrendo a categorie ideologiche o morali significa condannarsi al fallimento. Ad esempio, nella seconda metà del Novecento, USA e URSS hanno avuto interesse a proporre la propria irriducibile contrapposizione sotto specie ideologica o moralistica: liberal-democrazia contro comunismo, capitalismo contro economia pianificata, Bene contro Male. Ma si trattava di propaganda per coprire pure logiche di potenza. Con la crisi del paradigma ideologico, sono infatti risultati evidenti i latenti conflitti territoriali che le contrapposte ideologie imperiali tenevano ben velati. Da parte mia, rilevo che si tratta di una contrapposizione di lunga durata (riconducibile all'onda lunga della storia): già nel lontano 1835, Tocqueville considerava America e Russia due potenze emergenti prevedendone un ruolo protagonistico, potenzialmente conflittuale; oggi, poi, caduto il comunismo, continua l'ostilità americana verso la Russia, presentata come il proseguimento dell'URSS.
Inoltre, in base al ragionamento geopolitico e alle priorità che esso assegna nelle scelte di politica estera, è ritenuta velleitaria l'idea (cara a molti esponenti politici di casa nostra) di creare dei legami tra partiti di differenti Paesi superando la dimensione nazionale: infatti, fra gli Stati (incluse le formazioni politiche che agiscono al loro interno), ci possono essere solo alleanze temporanee dettate da motivazioni geopolitiche, mai da affinità ideologica o valoriale. Le stesse “famiglie” europee (socialisti, popolari, ecc.), nate in funzione del parlamento comunitario, non riescono ad elaborare delle scelte condivise sulle questioni internazionali, vedi il caso della Siria e quello della Libia.
C'è poi una considerazione di cui bisogna tener conto, anche se può risultare dura da accettare. Nessuno Stato è totalmente libero di decidere quale politica seguire nei vari contesti internazionali, perché è la situazione geopolitica ad imporre le scelte. Solo alcune grandi potenze (gli Stati Uniti in primis, e in minor misura la Cina) hanno rilevanti margini di libertà in argomento. Un significativo spazio possono crearselo India, Russia e forse Germania. Per tutti gli altri, i margini in materia sono assai ridotti, e per taluni, nulli. Chi non tenesse conto di ciò finirebbe per pagarne un altissimo prezzo.
Sulla base di questa considerazione, Dario Fabbri (analista di “Limes”) ci parla dell'Europa affermando che la costruzione di uno Stato europeo ha davanti a sé difficoltà pressoché insuperabili.
In primo luogo, un'Europa unificata e politicamente e militarmente autonoma, trova il veto degli Stati Uniti (chiunque sia al governo del Paese). La Russia (il cui peso non è minimamente confrontabile con quello americano) incide assai meno sul potenziale processo unitario europeo. Possiamo, tuttavia, ritenere che, nell'ottica di un mondo multipolare, potrebbe non ostacolare la formazione di un'Europa sovrana a condizione che non si spinga nello spazio geografico occupato dai Paesi già parte dell'URSS.
Ammesso ipoteticamente che sia possibile superare i predetti veti, sorge una seconda perplessità. Negli Stati nazionali, i cittadini, in caso di minacce esterne, sono mobilitati per combattere gli aggressori. Poiché l'Europa non sarà mai una Nazione, si chiede Fabbri se spagnoli o belgi o italiani saranno disponibili a prendere le armi per difendere estoni o polacchi o svedesi, e viceversa. Un vero Stato unitario europeo (la cui reale sovranità si misura in primo luogo sul terreno militare) resta pertanto un miraggio. Ne abbiamo visto un esempio quando, alla proposta macroniana di creare un esercito europeo, da molti Paesi (est europei in particolare) la risposta è stata “Viva la NATO”. Realismo o vocazione al ruolo subalterno di “satelliti”?
Di fronte a questo quadro, dobbiamo fare alcune considerazioni e porci delle domande.
Il primo ostacolo alla creazione di uno Stato europeo viene dagli Stati Uniti. Di conseguenza una prospettiva unitaria può prendere corpo solo superando l'attuale mondo unipolare (ancorché traballante) in direzione multipolare, il che significa auspicare un indebolimento del peso degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Come ciò si concilia con il riferimento al legame indissolubile tra Europa e Stati Uniti nel quadro dell'Alleanza atlantica continuamente proposto dalla più parte degli esponenti politici e degli opinionisti?
Non si costruisce, inoltre, uno Stato europeo senza dare agli europei un forte senso di appartenenza a qualche cosa per cui valga la pena di battersi. A tal fine, non bastano gli interessi economici, la creazione di una moneta e le regole di un mercato comune; e non bastano riferimenti quali i diritti dell'uomo e la liberaldemocrazia che non sono riferimenti peculiari od esclusivi dell'Europa, quindi atti a definirla. Come ha scritto Federico Chabod: “Il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c'è qualcosa che non è Europa, e si precisa attraverso un confronto con questa non Europa”.
C'è la necessità di sentirsi protagonisti di una storia condivisa e di essere orgogliosi di un patrimonio culturale che ci connota come europei. Non è quanto caratterizza l'attuale dirigenza della Unione e larga parte dei politici e degli intellettuali di cultura liberal che rifiutano di riconoscere le radici dell'Europa, in nome di una società senza confini e multiculturale (cioè che priva gli europei di identità e di senso di appartenenza).
La storia ci racconta che, a partire dal primitivo “nucleo carolingio”, si è progressivamente esteso, nei secoli, il confine (culturale e identitario) europeo. Ci sono nazioni che, al di là dei molti conflitti, hanno, rispetto alle altre, una maggiore e più antica condivisione di elementi ed esperienze. Dobbiamo chiederci se non si sia proceduto troppo in fretta nell'allargamento della Unione europea, e se non sia il caso di ritornare, per trovare un maggior senso di appartenenza, a quel nucleo carolingio di cui fanno parte i paesi che, nel dopoguerra, hanno posto le basi della Comunità.
Un altro splendido articolo di Giuseppe Ladetto che pone questioni cui la cappa di politicamente corretto che soffoca la nostra epoca e la nostra cultura cattolico-democratica, manco immagina di tematizzare.
Sono tantissimi gli spunti che offre l’articolo. Mi limito ad uno: le difficoltà che incontrerebbe la costituzione di uno stato europeo. A tal proposito mi pare vi siano almeno tre grandi difficoltà che paiono difficilmente superabili.
La prima è prettamente di ordine geopolitico, deriva dalla teoria delle heartlands di Mackinder, che ha giustificato una vera e propria fobia atlantista di un’intesa fra Russia e Germania, che alcuni considerano come la vera ragione delle due guerre mondiali, e forse anche di una (quanto lontana?) terza. In questa prospettiva, con la quale la brexit ha una qualche relazione, un’Europa frammentata è più facile da tenere alleata alle potenze anglosassoni di un’Europa unita.
La seconda grande difficoltà alla formazione di uno stato europeo è costituita dal fatto che, nelle condizioni date, l’unica forma di unità possibile per l’Europa è quella dell’assoggettamento degli altri Stati all’interesse nazionale tedesco. L’Europa è tedesca o non è. Ma la germanizzazione del resto d’Europa, fatta attraverso le stingenti regole monetarie che spargono recessione e impoverimento ovunque, incontra ostacoli insormontabili. Lacera le società e soffoca le economie. Ha portato la Grecia alla fame, ha portato al potere un governo euroscettico nel nostro Paese. In Francia al movimento dei gilet gialli si stanno saldando gran parte delle gerarchie militari che non temono scenari da guerra civile, pur di non consegnare allo storico nemico le chiavi del loro arsenale atomico. Non credo quindi che con questi rapporti di forza vi siano le condizioni per ripartire, come saggiamente indica Ladetto, dal primitivo “nucleo carolingio” dell’Europa. O almeno non con queste classi dirigenti. Forse ciò sarà possibile un giorno, dopo che l’Europa non avrà saputo né voluto risparmiarsi altre nuove immani tragedie, che sono rese possibili dal proseguimento acritico delle attuali politiche ordoliberiste dell’Ue. Ecco,forse solo allora, potrà affacciarsi una nuova classe politica simile a quella di De Gasperi, Schuman e Adenauer capace di ridare alla persona umana e alla democrazia il primato che loro spetta, sulla moneta.
La terza grande difficoltà è costituita dal fatto che, morta e sepolta con i trattati di Maastricht l’Europa dei padri fondatori, basata sull’idea di Comunità e di solidarietà, a questa Unione Europea fatta su misura per pochissimi ultraricchi tedeschi, banchieri e massoni manca un’anima, e dunque il sostegno popolare. Ogni qual volta i popoli hanno potuto esprimersi democraticamente su quel prodotto artificiale di laboratorio chiamato Costituzione europea l’hanno bocciata. E la nascita di stati unitari ha bisogno di plebisciti, che non ci sono e se ci sono, sono di senso sovranista, oppure di insurrezioni e di guerre civili, che però è più facile che scoppino per la liberazione dalla condizione attuale che per perseguire l’unità. La verità è che gli stessi “illuminati” che hanno creato questa Ue dove a comandare è il denaro, non l’uomo, non intendono la realizzazione di uno stato europeo come un punto d’arrivo, ma lo vedono solo come una tappa, come l’embrione del Progetto di dominio di un governo globale, e per questo si saldano con i globalisti americani, Obama , Clinton e odiano Trump. Un progetto che suscita l’avversione dei due terzi della popolazione europea e la diffidenza del resto del mondo.
Si tenga anche conto del fatto che in giro per il mondo nessun stato che partecipa a organizzazioni regionali dall’Asean, all’Ua, all’Unasur, ai Brics (anche se quest’ultima non è propriamente un’organizzazione regionale) ha mai pensato di perseguire altro che i propri interessi, confidando con ciò, in una logica win-win, di contribuire al conseguimento anche degli interessi dei propri partner, né mai e poi mai è sfiorato dall’idea di cedere sovranità e di procedere a unioni politiche superiori a quelle nazionali. Solo in Europa questo, incredibilmente, accade. La piccola Corea del Sud, una media potenza come l’Italia, con appena 50 milioni d’abitanti, domina i mercati globali con manufatti di altissima tecnologia che non temono rivali. Non aderisce ad alcuna organizzazione regionale. Questo per dire che esistono alternative serie, concrete, praticabili fin quando l’Europa pretende di esser solo tedesca. O, dopo le Europee, si arriva ad una mediazione, vantaggiosa per tutti, con Berlino oppure l’Italia ha molte altre carte da potersi giocare.
Finalmente un dibattito importante sull’Europa attuale e futura in vista delle prossime elezioni europee.
In quanto federalista europeo“ di lunga data” (ho contribuito a fondare nel 1964 la Gioventù Federalista ed ho dialogato con Altiero Spinelli sul ruolo dell’Europa in divenire) sento le “difficoltà” alla costruzione di un’Europa federale riprese da Limes come “limiti” del processo di integrazione europea che, esaurita la “fase costituente“ della CECA e della CEE e la “fase ri-costituente” della elezione a suffragio universale del Parlamento europeo e poi della presidenza della Commissione Delors, hanno evidenziato il timore delle classi politiche nazionali di perdere potere, in quanto non attrezzate a competere a livello sovranazionale per la conquista di un nuovo potere a dimensioni diverse. In particolare Paesi come l’Italia che poco avevano investito su una classe politica a livello europeo e che non avevano costruito alleanze con altri Paesi aventi interessi geopolitici – mediterranei analoghi (Spagna, Portogallo, Grecia) o economici- coordinabili (Francia, Germania) si sono trovate “spiazzate” dalla novità della caduta del muro di Berlino e dallo spostamento dell’asse geopolitico europeo verso Est, con al centro la leadership tedesca. Inutile è però piangere sul tempo sprecato; meglio è esaminare le “difficoltà“ individuate.
1) Veto degli US alla costruzione di un governo federale europeo (con le conseguenze di una politica di difesa ed economica europea necessarie per sviluppare il primo passo “monco” della creazione di una moneta europea). E’ chiaro che quando il primo presidente della BCE Wim Duisemberg proclamò che un giorno l’euro avrebbe potuto sostituire il dollaro come moneta internazionale, commise una leggerezza politica imperdonabile. Infatti, come è noto, da sempre il timore delle classi dirigenti statunitensi è che essendo l’enorme debito pubblico in gran parte detenuto dalla Cina, gli investimenti internazionali siano dirottati verso i Paesi europei e l’euro, mandando in bancarotta, ed in crisi economico-sociale il melting pot americano. L’economia, e la leadership tedesca in Europa, è l’unica che possa trainare il processo europeo. Indebolirla è ovviamente interesse dei concorrenti. Non avete notato che Hollywood (che costruisce l’immaginario collettivo mediatico) dopo aver demonizzato i russi (periodo della guerra fredda), i cinesi (avversari di James Bond) ora sta riproponendo i tedeschi-nazisti come nemici? E’ chiaro però che l’arroganza tedesca, dopo l’unificazione è stata ed è tuttora psicologicamente “insostenibile”. Ma, come dice Ladetto, in geopolitica contano i fatti non gli umori. Il veto è superabile? In geopolitica contano i rapporti di forza, ma anche i ruoli che si sviluppano e le posizioni che si tengono. E’ chiaro che una Europa frammentata (“grecizzata” rispetto all’impero romano si diceva un tempo) non può svolgere alcun ruolo, mentre un’Europa a trazione “carolingia” si.
2) L’Europa, così come si è costruita dopo l’allargamento, non sarà mai uno Stato né unitario né federale. L’errore fu di realizzare l’allargamento non dopo aver approvato la Costituzione europea, che avrebbe stabilito le regole comuni e i diritti inviolabili degli Stati membri, e quindi “gradualmente”, ma in una unica soluzione, salvo poi constatare che molti Stati non erano preparati alle regole comunitarie (una cosa è la “Law in the books” altra è la ”Law in action“) né ai diritti delle minoranze, né alla sovranazionalità, dato che, superata l’egemonia sovietica volevano e dovevano recuperare la loro sovranità. Solo il cosiddetto “nocciolo duro” (i 6 o gli 8 Stati costituenti) può creare maggior coordinamento e integrazione (esercito, politica economica) per risolvere i problemi che sono irrisolvibili a livello nazionale: ambiente, welfare, investimenti nelle grandi infrastrutture materiali e immateriali (ricerca, formazione) e per riaprire il ciclo investimento – lavoro – reddito individuale e collettivo. Dopo la Brexit, dato che la Gran Bretagna, baluardo europeo degli interessi geopolitici statunitensi, ha costituito da sempre un freno al processo di integrazione europea, un “ostacolo” è venuto meno.
3) Mancanza di obiettivi condivisibili. I grandi obiettivi , e valori, che mossero gli europei nel dopoguerra furono, a mio avviso: la pace, il timore di una espansione sovietica, avvenuta nei paesi Est europei senza alcun consenso popolare, la ricostruzione e lo sviluppo economico (lavoro e benessere). Non sono, mutate le condizioni, gli obiettivi e i valori che oggi si possono ri-presentare ai giovani, in cerca di nuovi o veri valori (e non neologismi o vuoti slogan quali sovranismo, democrazia plebiscitaria, decidere a casa propria, combattere le invasioni dei barbari ecc.)?
a) La pace. Molti affermano, tra cui papa Francesco, che una terza guerra strisciante è già in corso e qualcuno sente già il tintinnare delle spade. Attenzione: la guerra serve a ricompattare il “ sentimento nazionale”, a profondere investimenti ed energie, soprattutto nei Paesi liberisti, che dichiarano di non gradire l’intervento dello Stato nell’economia, ma , in caso di stato di emergenza, lo fanno con il beneplacito di tutti e con rilancio dell’economia stagnante (vedi il volume di Renata Allio: Gli economisti e la guerra, Rubettino, 2014). Inoltre la guerra oggi può essere non secondariamente militare (ci pensano i droni e i warrobots), ma anche economica e può provocare conseguenze devastanti e redistribuzione di risorse economiche rilevanti. Non lo è stata forse l’esportazione in Europa della crisi finanziaria scoppiata in US e che ha provocato gravi conseguenze economico-sociali nei paesi europei più deboli?
b) Il timore della decadenza europea. Non è forse questo il valore da trasferire ai giovani che fuggono da Paesi in cui non vale la pena “ sviluppare” il loro entusiasmo giovanile “spento” da classi dirigenti che al bene comune hanno sostituito il narcisismo individualistico.
c) La ri-costruzione di un tessuto socio-politico solidaristico, in cui l’identità delle singole comunità ( locale, regionale, nazionale ) si confronta con analoghe, per storia, cultura, tradizioni, comunità europee al fine di aprire ad uno sviluppo economico sostenibile le nuove generazioni.
Il grande dibattito europeo, anche tra noi, indica un dato nuovo. Queste elezioni europee sono le prime in cui si dibattono temi, si sviluppano idee, si confrontano, anche aspramente, posizioni politiche nuove. Vuol dire che la conquista del potere a livello europeo finalmente interessa a qualcuno. Interesserà a noi elettori?
E’ piuttosto incomprensibile l’adesione supina di tante cancellerie europee alle sanzioni contro la Russia. Proprio nella ricerca non di un’integrazione (sarebbe ingenuo) ma di un confronto con la Russia, oggi che la cortina di ferro è caduta per davvero, di interscambi commerciali, tecnologici, culturali l’Europa potrebbe cogliere lo spunto per riassemblarsi e ritrovare se non un’unità per lo meno un’identità definita e una politica dotata di una qualche soggettività: il modo migliore per affrontare le grandi sfide che ci attendono e dialogare su un piano dignitoso con l’alleato statunitense o con le potenze emergenti, Cina in primis. Forse proprio l’allargamento a est verso quei soggetti statali che a buon diritto diffidano dei russi è stato paradossalmente precipitoso da parte dell’Europa “carolingia”? La retorica mediatica contro la Russia e il suo Presidente poi è stucchevole: forse la Russia in questo momento ha, altri paradossi della storia, bisogno di una guida forte per non esplodere con conseguenze ingovernabili (soprattutto per l’occidente! E’ il richiamo del nonagenario Kissinger, uno che di geopolitica si intende). Ed è certo che un interscambio a tutti i livelli con quella fetta di Occidente che si chiama Europa non potrebbe che fare bene all’avanzata della democrazia in Russia.