Democrazia illiberale



Giuseppe Ladetto    11 Settembre 2018       4

Oggi, nella più parte dei media, si considerano equivalenti i termini di democrazia e liberalismo, dimenticando che democratici e liberali sono stati a lungo in conflitto.

Nel XIX secolo, era aperta l’alternativa tra la forma rappresentativa parlamentare e forme dirette e talora autoritarie di democrazia: infatti, anche in questi ultimi casi, il potere si legittima affermando le sue origini dal consenso popolare. I democratici erano ben lontani dall’essere unanimi dal giudizio positivo sulla democrazia parlamentare: molti tendevano a contrapporre la democrazia al parlamentarismo, perché le istituzioni rappresentative erano troppo legate al regime del censo che esprimeva gli interessi dell’alta borghesia. I democratici, contrapposti ai liberali, erano orientati a favore di un tipo di democrazia plebiscitaria, antiparlamentare, antiliberale, che tenesse insieme l’autorità e il fondamento popolare. In Italia, anche Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini diffidavano del regime parlamentare, ancora a suffragio ristretto, preferendogli un governo eletto direttamente a suffragio universale e, se necessaria, una dittatura, sia pure temporanea, esercitata in nome del popolo. A lungo nel XIX secolo, il liberalismo è stato inteso dai democratici come una astratta affermazione di principi assoluti, che, nella pratica politica concreta, si traduce essenzialmente in un sistema volto a proteggere gli interessi dei ceti possidenti, e ad assicurare la loro prevalenza sociale.

Nel Novecento, democrazia e liberalismo hanno gradualmente trovato modo di convivere adattandosi reciprocamente, e ciò anche per affrontare i totalitarismi dell’epoca, ma nell'ultima parte del secolo, come scrive Giorgio Ruffolo (Lo specchio del diavolo), il capitalismo, con la globalizzazione, ha riscoperto le sue inclinazioni animalesche e predatorie, e ha rotto quel patto sociale che aveva consentito la realizzazione della cosiddetta “età dell'oro” nel secondo dopoguerra. Di conseguenza, i liberali, in nome dello sviluppo e della crescita economica, si sono piegati e si piegano alle esigenze di questo vorace capitalismo finanziario.

Pertanto, si è riproposta la frattura fra liberalismo e democrazia.

Ma veniamo all'oggi. Sentiamo continuamente accuse nei confronti dei governi ungherese e polacco, e più in generale di quelli dei paesi di Visegrad: avrebbero intrapreso una strada che conduce fuori dal terreno democratico, se non addirittura produce nuove forme di fascismo. Ho già avuto modo di riportare, in un commento a un articolo di Davicino, l’autorevole opinione espressa in merito da Agnes Heller, ebrea ungherese sopravvissuta all'Olocausto, allieva del filosofo marxista Gyorgy Lukacs (il Gramsci ungherese), per la quale è sbagliato attribuire ad Orban, e più in generale agli esponenti dei Paesi di Visegrad, propositi totalitari, perché si tratta di democratici, ancorché la loro idea di democrazia non sia quella liberale. Aggiunge la Heller che ogni Paese ha una storia alle spalle, e quella degli Stati in questione non contiene il liberalismo.

Chiediamoci allora che cosa sia oggi una democrazia illiberale. Ovviamente è un sistema che accantona alcuni degli istituti che sono tipici del liberalismo, o ne riduce il peso, e soprattutto manifesta una differente visione del mondo. Mentre per i liberali, le procedure sono ritenute di pari rilevanza, se non prevalenti, rispetto ai contenuti degli atti politici, in una democrazia illiberale i contenuti sono più importanti degli aspetti formali e delle procedure, e queste ultime non possono costituire un ostacolo insormontabile alla realizzazione di un programma sostenuto dalla volontà popolare. La politica, inoltre, deve governare l'economia e non essere subalterna al mercato come sempre più accade nelle liberaldemocrazie.

Nell'equilibrio dei poteri, per i democratici non liberali, quello giudiziario (che non ha fondamento in un voto popolare) non può avere lo stesso status dei poteri fondati sul voto (legislativo ed esecutivo), mentre, nelle liberaldemocrazie, la magistratura occupa un crescente spazio decisionale nella vita della società. Nelle democrazie illiberali, la storia, la tradizione e la cultura del Paese sono fondamentali nel definire leggi ed attività di governo, mentre per i liberali, alla base della produzione del diritto non trovano posto riferimenti prepolitici (tradizioni, cultura nazionale, religione). Infine per i democratici non liberali, assume un ruolo centrale la sicurezza (non solo ordine pubblico, ma intesa in largo senso: sicurezza delle persone, del lavoro, nella vita di relazione e nei legami familiari, nei riferimenti valoriali, ecc.), in confronto alla scarsa rilevanza che sempre più viene ad essa assegnata in “occidente”.

Quelli descritti sono i due poli estremi (liberaldemocrazia e democrazia illiberale) entro uno spazio in cui si pongono i vari sistemi democratici. Nel corso della storia e nella realtà contemporanea, assistiamo a spostamenti più o meno marcati, ora in una direzione, ora nell'altra.

Molti sono i fattori che condizionano l'affermarsi e l'evolvere delle istituzioni definibili “democratiche”. Sicuramente ci sono la cultura politica del Paese e le sue vicende storiche. Anche la situazione geografica può incidere: ad esempio, negli Stati territorialmente molto estesi è prevalente il presidenzialismo che assegna larghi poteri al capo dell'esecutivo (il Presidente della Repubblica), mentre i Paesi dell'occidente europeo (tutti di estensione territoriale abbastanza limitata) sono in genere repubbliche o monarchie parlamentari in cui il governo necessita della fiducia del parlamento.

Ci sono infine i fatti del presente e le situazioni da affrontare: finché il quadro economico e sociale è favorevole, la liberaldemocrazia appare più attrattiva, ma quando i tempi si fanno difficili, la gente guarda con favore a un potere istituzionale più solido e capace di decisioni. Se infatti consideriamo i pericoli, o le derive, insiti nelle due tipologie istituzionali prese in considerazione, la democrazia illiberale può degenerare in autoritarismo (ma non necessariamente, come pensano taluni), mentre la liberaldemocrazia è esposta all'immobilismo, all’incapacità di fare scelte nelle dimensioni e nei tempi necessari a fronte delle criticità che caratterizzano il nostro presente. Si dirà giustamente che, nella storia, non mancano esempi di democrazie parlamentari dimostratesi in grado di superare con successo situazioni estremamente difficili senza derogare ai propri principi, ma teniamo conto che democrazia parlamentare non è sinonimo di liberaldemocrazia: quest’ultima si caratterizza per assegnare il primato al mercato e agli interessi individuali rispetto al bene comune.

Se l'Italia (come dichiara Emanuele Macaluso in un’intervista su “La Stampa” del 26 giugno) stesse andando verso un sistema che somiglia a quello di Orban, pur riconoscendo che si tratta di un sistema democratico ancorché illiberale, ci sarebbe qualche problema perché la nostra storia, dal secondo dopoguerra, non è quella dei Paesi dell'est Europa. Non è detto tuttavia che questa preoccupata rappresentazione colga compiutamente la situazione: non basta infatti l’incontro Orban-Salvini a determinare una svolta. Bisogna tenere conto che, da sempre, una parte significativa degli opinionisti, dei politici e dei giuristi formatisi nella cosiddetta “prima Repubblica” vede derive illiberali, se non autoritarie, in ogni progetto (o semplice ipotesi) di modifica significativa dell'attuale assetto costituzionale. Essendo digiuno di diritto, non mi addentro troppo su questo terreno, tuttavia è tesi largamente diffusa che l’esecutivo in Italia abbia poteri assai limitati, e più in generale la stessa politica trovi ostacoli di vario ordine che, nel complesso, distanziano il nostro Paese dagli altri Stati occidentali.

Dopo il ventennio fascista, in sede costituente, ci si era premurati di porre limiti al potere esecutivo a scanso di possibili ritorni autoritari. Inoltre, nell'incertezza di quale forza politica (comunisti e socialisti frontisti da un canto, e democristiani e laico-liberali dall'altro) sarebbe prevalsa nell'imminente confronto elettorale – in un mondo spaccato in due dalla nascente guerra fredda –, entrambi gli schieramenti, per precauzione, si sono cautelati con la creazione di un potere esecutivo costitutivamente debole. Poi negli anni seguenti, un insieme di fatti e di circostanze ha contribuito a indebolire ulteriormente il potere esecutivo e la stessa politica a favore di burocrazia, magistratura, e di un crescente numero di autorità “indipendenti” (certamente indipendenti dalla politica, ma non certo da altri interessi di natura settoriale e, in ogni caso, sempre ispirate da logiche unilaterali o tecnicistiche). Ma, se il pericolo a cui può andare incontro la liberaldemocrazia è l'immobilismo, allora proprio chi intende consolidarla dovrebbe ritenere prioritario rimuovere i troppi ostacoli che impediscono, nel nostro Paese, le decisioni di ordine politico e la loro realizzazione.

A conclusione del discorso, mi sembra pertinente riproporre quanto detto da Zygmunt Bauman sulla relazione di segno negativo esistente tra libertà e sicurezza, per la quale al crescere dell’una si riduce l’altra, e sulla rilevanza diversa che assume tale relazione percorrendo la scala sociale (vedi un mio vecchio articolo su “Rinascita popolare”). Mentre la crescita della libertà (sia in ambito societario, sia in quello economico) incide poco sulla perdita di sicurezza delle classi benestanti, essa può avere un impatto drammatico per i ceti popolari. Ne consegue che le forze politiche che pongono l’accento sulla libertà hanno come interlocutori privilegiati i ceti sociali abbienti, mentre alle classi popolari sta a cuore principalmente la sicurezza in tutte le sue declinazioni.

Di ciò, dovrebbero rendersi conto quanti lamentano la perdita di contatto con quei ceti popolari che un tempo erano i loro principali sostenitori elettorali.


4 Commenti

  1. Una riflessione, quella di Ladetto, del tutto condivisibile. Sembra una lezione di Norberto Bobbio… Aggiungo una riflessione, stimolata da quanto ricorda, all’inizio di un articolo pubblicato su Repubblica, Paul Krugman :”Poco dopo la caduta del Muro di Berlino, un amico, esperto di relazioni internazionali, fece una battuta: ora che l’Europa dell’Est si è liberata dell’ideologia straniera del comunismo, può tornare nel suo vero alveo storico, il fascismo”. Una battuta, che tuttavia dice che quando un Paese attraversa una crisi (nel nostro caso la crisi della democrazia rappresentativa, la crisi sociale provocata dalla globalizzazione…) riemergono i problemi non risolti del passato. Nei Paesi dell’Est, esasperati da 70 anni di repressione sovietica… In Italia le ferite lasciate da una “guerra civile”… Sono, in qualche modo, i corsi e ricorsi storici del Vico, le tragedie che si ripetono come farse.

  2. Eccellente trattazione di Ladetto sul piano concettuale. Nella pratica credo che occorra molta prudenza nell’applicare modelli astratti per definire situazioni specifiche.
    Temo che la subalternità culturale al linguaggio della supercasta globale che aspira a dominare il mondo, condizioni i giudizi. Prendiamo due esempi: l’Ungheria e la Russia.
    Lo stato magiaro era definito dal mainstream come “liberale” sin quando ha accettato politiche che impoverivano i propri cittadini e l’apertura delle frontiere all’immigrazione islamica che lo avrebbe balcanizzato. Quando ha deciso democraticamente di far prevalere gli interessi del popolo su quelli degli speculatori transnazionali alla Soros, limitando le pesanti ingerenze delle ong del pericoloso finanziere per destabilizzare quel Paese, è stato additato come “illiberale”.
    La Russia di Eltsin che si lasciava depredare delle sue immense ricchezze naturali, veniva definita come avviata sulla via di una democrazia liberale. La Russia di Putin che cerca un rapporto di pari dignità, di matteiana memoria, con l’Occidente, viene definita un’ “autocrazia”.
    In conclusione, mi pare che la riflessione di Ladetto richiami le basi ideali entro cui è possibile coniugare democrazia rappresentativa e sviluppo sociale, mentre il politicamente corretto che enfatizza il liberalismo rischia di creare, avanti di questo passo, nel giro di pochi lustri una situazione socio-economica forse non più compatibile con la democrazia, e passibile di sviluppi anche cruenti.
    La Francia e l’Italia sono i Paesi principali indiziati di un simile infausto futuro, se le loro classi dirigenti non avranno il coraggio di cambiare paragigma.

  3. Mi pongo una domanda in conseguenza al fatto che ci possano essere democrazie di segno diverso (liberali, come le intendiamo noi, e illiberali nel senso che alcuni aspetti formali non sono rilevanti): E’ possibile costruire l’Europa – come sognata e progettata e iniziata dai nostri Padri – con differenze abissali rispetto alla concezione di democrazia che divide i Paesi europei? Un’Europa anche federale? Io credo di no! Penso anch’io che (e faccio riferimento alla Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II) che conti in democrazia la sostanza più che la forma: però ci sono aspetti formali su cui non si può prescindere per stare insieme.

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