Se manca la politica economica



Giuseppe Davicino    7 Agosto 2018       1

“Al centro c’è questo: il mondo della finanza. Al suo posto avrebbero dovuto esserci l’uomo e la donna. Oggi questo è, credo, il grande peccato contro la dignità della persona”. Anche l'ultima dura critica di papa Francesco alla speculazione finanziaria, il 2 agosto scorso, è finita sottotraccia, insieme a quelle contenute nell'enciclica Laudato Si' (§ 189) e nell'esortazione apostolica Evangelii Gaudium (§ 53-60). Per non parlare del dimenticatoio in cui è finito il documento Oeconomicae et pecuniariae quaestiones della Congregazione per la Dottrina della Fede che ribadisce che “il denaro deve servire e non governare!”.

La Dottrina sociale della Chiesa e il magistero di papa Francesco sui principi ispiratori delle politiche economiche e monetarie risultano troppo politicamente scorretti, e quindi contrari agli interessi dominanti. Se è lampante il motivo per cui l'establishment preferisce non parlarne, molto meno chiaro è il motivo per cui nel mondo cattolico si è persa dimestichezza con le questioni di politica economica. Sostituite spesso da economisti à la page con gratificanti discorsi di buone pratiche o con concetti di economia che sollecitano l'utopia e il narcisismo delle nicchie che possono permetterselo.

E pensare che senza documenti, e senza le fucine di intellettuali ed economisti cattolici (come Paronetto, Saraceno, Vanoni) che li elaborarono, come le Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana o il Codice di Camaldoli, né la Costituzione, né la storia del Paese sarebbero state come le conosciamo.

La mancanza di un pensiero di politica economica costituisce una lacuna che emerge in tutta la sua importanza nell'attuale fase storica, che impone a livello internazionale un ripensamento e un riposizionamento geopolitico e economico. La de-globalizzazione avanza, per lasciare spazio a una nuova internazionalizzazione, fondata non più sul delirio globalista – che ha guidato come un pifferaio magico le culture riformiste che incautamente e acriticamente ne erano rimaste ammaliate, verso la perdizione – bensì fondata sul ritorno alla sovranità degli Stati, sul controllo della politica sui commerci e sulle transazioni finanziarie, anche con un ponderato ricorso ai dazi in funzione della tutela e della dignità del lavoro e della riduzione delle disuguaglianze: perché il mercato “senza frontiere” rende pochissimi ricchissimi e impoverisce il restante 99% dell’umanità.

Una lacuna che pesa anche sulla strategia da sostenere per far ripartire il Paese dopo un decennio di crisi gestita maldestramente con misure procicliche che hanno aggravato, anziché contrastato, gli effetti economici e sociali della congiuntura economica negativa. Senza una solida visione di politica economica che abbia al centro la persona e non il denaro, o la moneta, anche i cattolici, già a partire dal dibattito sulla prossima finanziaria, rischiano di esser risucchiati nel gorgo del primato del denaro generato dalle correnti del monetarismo, dell’ordoliberismo tedesco, della speculazione finanziaria internazionale. Ci verrà chiesto all'unisono dalla poderosa macchina da guerra dei media controllati dalle oligarchie finanziarie, di allinearci alle posizioni “responsabili”, di continuare l'austerità “virtuosa”, di pensare alla reazione dei “mercati”, al danno temporaneo provocato dall'aumento dello spread e dal peggioramento del giudizio delle agenzie di rating.

Solo se i cattolici in politica metteranno in campo idee di politica economica all'altezza e in coerenza con la loro tradizione, oltre che naturalmente adeguate ai tempi, potranno trovare le ragioni e la forza per resistere a queste pressioni e, soprattutto, per dare priorità a un tutt'altro ordine di domande: creare nuovo lavoro, stimolare la domanda interna, riducendo la pressione fiscale e dando maggior potere d'acquisto alle famiglie e ai salari, dotare il welfare di maggiori risorse.

Una terapia d'urto, una svolta a 180 gradi per far ripartire il Paese, che richiede minimo una cinquantina di miliardi che si devono e si possono reperire. Ma per sostenere e fare queste cose – non tra vent'anni, ma adesso, fra due mesi – occorre rispolverare alcuni capisaldi di politica economica.

Le banche centrali, che hanno tutti gli strumenti (whatever it takes, come dice Draghi) per garantire le risorse necessarie alla ripresa economica e per tenere a bada la speculazione finanziaria, devono esser riportate al servizio del bene comune, nazionale ed europeo, e non della mera stabilità monetaria. Questa, contrariamente a quel che si crede, è per sua natura destabilizzante sotto il profilo sociale, economico e democratico, come sta dimostrando ciò che succede nell'Europa soggetta all'influenza economica tedesca. Se si vuole bene all'Italia e all'ideale europeista bisogna esser consapevoli che è venuto il momento di disinnescare il “pilota automatico” della tecnocrazia e dei vincoli di bilancio eurotedeschi.

L'austerità ha condotto l'Unione Europea sull'orlo dell'implosione: i cattolici democratici e popolari devono assumersi le loro responsabilità. O esser complici, per conformismo, di questo fallimento oppure osare il cambiamento come hanno saputo fare nel passaggi fondamentali della storia del Paese.


1 Commento

  1. Sono perfettamente d’accordo su quanto è sottolineato all’inizio di questo utile articolo. In tutti gli appuntamenti politici, sindacali si discute e si indicano nobili intenti ma raramente si chiama in causa il grande convitato di pietra…la finanza, anzi la cyberfinanza basata su algoritmi costruiti e pensati per la speculazione fine a se stessa. E sotto traccia rimane anche l’equazione che ha fatto la fortuna dell’Italia ai tempi del miracolo economico: più investimenti significavano più Pil e più occupazione. Oggi in prevalenza con l’economia digitale bisogna fare i conti che più investimenti comportano meno forza lavoro impiegata, in quanto le braccia dell’uomo sono sostituite dalle veloci pinze dei robot.

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