In questi ultimi anni, nei Paesi occidentali, l’opinione pubblica (o una sua parte consistente) è disorientata da sentenze di organi costituzionali o da leggi di iniziativa parlamentare che sembrano contraddire riferimenti valoriali ritenuti fino a ieri immodificabili o, direi, quasi naturali. Ci dicono i media, portavoce o espressione del pensiero oggi dominante, che si tratta dell’evoluzione del diritto in conformità al mutare della società e alle attese della parte più aperta e avanzata (o ritenuta tale) del corpo sociale, una evoluzione garantita dai principi su cui si fonda lo Stato liberale.
L’ordinamento costituzionale liberale, a garanzia delle preferenze e dei valori etici liberamente espressi da ogni cittadino, non può fare propria alcuna visione del mondo. L’ordinamento costituzionale liberale fornisce la cornice e le procedure entro le quali, nell’agone politico, si confrontano i vari interessi e valori presenti in una società articolata in cui convive una pluralità di riferimenti culturali. Le procedure democratiche consentono la partecipazione dei cittadini al pubblico dibattito sui temi che li riguardano come tali. Esse garantiscono che dal dibattito scaturisca un’articolata opinione pubblica e che questa diventi il contenuto di quella sovranità popolare che, mediante le istituzioni parlamentari, produce il diritto.
In un ordinamento liberale autentico, si possono far valere nella discussione pubblica tutti i tipi di dottrine morali o di teorie politiche, purché comprensive e ragionevoli, e a patto di sostenere e difendere i principi proposti portando ragioni pubbliche con argomenti che non ricorrano a riferimenti di fede (secondo la nota formulazione etsi deus non daretur). Di conseguenza, all’interno dello Stato liberale, non ci sono ragioni che implichino il bisogno di ricorrere a un’energia morale altra (derivante da riferimenti storico-culturali o religiosi, da tradizioni e costumi, ecc.) rispetto a quella connessa all’ordinario svolgimento dei compiti di una cittadinanza democratica.
Ma le cose stanno proprio così?
Anche a chi, come me, è sprovvisto di cultura giuridica, credo sia concesso di nutrire qualche dubbio in proposito, e, pertanto, mi permetto di sollevare alcune questioni.
In primo luogo, non è vero che lo Stato liberale abbia sempre adottato una posizione neutrale non facendo propria alcuna visione del mondo. Il liberalismo non può essere culturalmente neutrale: esalta i diritti dei singoli individui, ma non tutela la dignità e i valori delle comunità. Infatti, lo Stato liberale ha sempre privilegiato le aspirazioni e le preferenze orientate all’individualismo, anche estremo, rispetto a quelle sensibili alle istanze comunitarie. Ma teniamo presente che, pur se viene considerato centrale l’individuo, questi è un essere sociale che si realizza pienamente come persona solo nel legame con i membri della propria comunità. Quindi anche quest’ultima dovrebbe essere oggetto di considerazione. Inoltre, non dimentichiamo che le varie e differenti culture (la cui esistenza è indispensabile per evitare l’affermarsi di un'omologazione totalizzante) possono sussistere solo in una dimensione collettiva (cioè in una comunità di adeguata dimensione ancorata a un territorio) e non individuale.
In secondo luogo, si dà come presupposto che, nell’agone politico e nel discorso pubblico alla base della produzione del diritto, i cittadini e i loro rappresentanti intervengano con argomentazioni mosse esclusivamente dalla ragione e non da interessi particolaristici, individuali o di gruppo. Si tratta di un modello ideale, da cui la realtà che ci circonda è abissalmente lontana. In tutto l’Occidente, le forze politiche, si fanno interpreti di interessi particolari e, più che confrontarsi con argomenti razionali su progetti e normative di interesse comune, cercano di prevalere l’una sull’altra facendo appello alle paure irrazionali, all’emotività, al ventre dell’elettorato; in ciò avvalendosi essenzialmente delle tecniche pubblicitarie, tanto da portare Luciano Canfora ad affermare che i creatori di pubblicità sono i veri, e a loro modo geniali, intellettuali organici della vigente società liberaldemocratica. Un fenomeno che viene esacerbato dai sistemi politici bipolari, che focalizzano l’attenzione della gente sulla figura dei leader a scapito dei progetti politici.
Aggiungo che il discorso pubblico fondato sul dibattito richiede la partecipazione attiva dei cittadini. Purtroppo, da tempo, i partiti, i sindacati, come in generale tutte le organizzazioni di massa, sono in crisi: si riducono, pertanto, gli spazi di incontro in cui si realizza il dibattito politico. E la rete non basta a porvi rimedio. Le opinioni, le mode e i modelli del vivere sono dettati dai media, gli strumenti con cui l’oligarchia al vertice della società occidentale diffonde il suo messaggio teso alla promozione dei consumi e all’esaltazione del successo individuale.
A definire i termini del dibattito pubblico e a determinarne gli esiti, è questa élite che ha il dominio dei mezzi finanziari e il controllo degli strumenti della produzione culturale e dell’informazione. Non sono certo i cittadini, ai quali, spetta solo il ruolo di spettatori. Anzi lo stesso termine “cittadino” sta scomparendo nel vocabolario politico per essere sostituito da quello di “consumatore”, che meglio definisce una condizione passiva. Tutto questo non mi sembra avere nulla a che fare con quel dibattito pubblico immaginato dai teorici del liberalismo, ma semmai ne è il contrario.
Tuttavia il punto più critico, o più debole, della costruzione ideologica liberale è un altro. Jurgen Habermas, fra i maggiori teorici degli ordinamenti costituzionali liberali e fautore del patriottismo costituzionale, ha suo malgrado dovuto riconoscere (nel confronto con Joseph Ratzinger tenutosi a Monaco nel 2004) l’affermarsi di una modernizzazione “aberrante” che trasforma i cittadini delle società liberali benestanti in individui chiusi in se stessi, attenti solo al proprio interesse: ne consegue la distruzione del capitale sociale e dei legami che stanno a fondamento della società.
Habermas rileva che segni crescenti di un simile sfaldamento della solidarietà tra cittadini si mostrano nella dinamica, non più controllata politicamente, dell’economia e della società globalizzata: i mercati assumono crescenti funzioni di regolazione in ambiti di vita che finora sono stati tenuti insieme normativamente dalla politica o con forme prepolitiche di comunicazione. Non so se si tratti dei frutti di una “modernità aberrante”, come pensa Habermas, o non sia piuttosto il punto d’arrivo di un viaggio cominciato da lontano. Ha scritto, infatti, Alain Touraine (Critica della modernità) che “nel percorso della modernità, si è verificato il passaggio dal religioso al politico, quindi dal politico al sociale e da quest’ultimo a un individualismo orientato al consumo, con un’impressionante crescita della ricerca dell’interesse personale e del semplice piacere: si afferma così come unico fine l’individuo che diventa, invece della società, il principio di definizione del bene e del male”.
È un processo che inevitabilmente riduce le virtù indispensabili per la partecipazione alla vita democratica e a quel dibattito pubblico che dovrebbe essere la fonte del diritto. E’ difficile che in questo contesto sussistano i presupposti di quel dibattito razionale in grado di risolvere in maniera consensuale i conflitti di interesse e i contrasti di valori tra i membri della società.
Da questo insieme di fatti, credo si possano trarre due conclusioni.
In primo luogo, pare evidente che lo Stato liberale non sia in grado, autonomamente, di elaborare dimensioni valoriali che gli sono essenziali, ma debba ricorrere al soccorso di strutture prepolitiche (riferimenti storico-culturali o religiosi, tradizioni e costumi, sentimenti di appartenenza e di identità, ecc.) che oggi invece trascura quando non combatte. Lo stesso Habermas (riconsiderando sue precedenti posizioni) si è visto costretto ad ammettere che il presente del mondo ha un qualche bisogno del contributo degli ancoraggi prepolitici ancora vitali, per rinforzare le virtù politiche che non trovano più sufficiente alimento nel patriottismo costituzionale. In particolare, il filosofo è rimasto colpito da quel concetto di “vita buona” che nelle comunità religiose e di credenti alimenta una sensibilità, altrove perduta, per le vite andate a male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali, tragedie delle quali la società politica sembra incapace di occuparsi. Certamente questa considerazione apre un vulnus nell’edificio ideologico liberale: infatti, il filosofo è stato aspramente criticato per questa sua posizione.
In secondo luogo, è lecito chiedersi fino a che punto le visioni del mondo e le preferenze debbano essere considerate equivalenti dalle istituzioni dello Stato, se alcune di queste concezioni e preferenze (quelle che determinano la “modernità aberrante” denunciata da Habermas) riducono le virtù indispensabili per la partecipazione alla vita sociale e a quella democratica. In realtà, nella situazione odierna, risulta evidente che ci sono preferenze che sono coerenti con la tutela delle virtù civiche, capaci di alimentare la solidarietà e di rafforzare la coesione sociale, e altre che vanno in direzione opposta. A fronte di ciò, fino a quando la società potrà restare indifferente in materia, limitandosi a promuovere la sola tolleranza e a porre generiche regole di convivenza? L’imperante relativismo non può spingersi fino al punto di negare l’evidenza di quanto palesemente nuoce al bene comune e alla salvaguardia del tessuto sociale.
Sia ben chiaro che nessuno invoca l’introduzione di alcun tipo di censura. Ce n’è già troppa in giro, in particolare nei confronti di chi non si allinei al politicamente corretto o si contrapponga al pensiero dominante. E neppure credo che i valori debbano essere imposti per legge. Penso piuttosto che tutti, e in particolare coloro che hanno ruoli istituzionali, dovrebbero sentirsi impegnati a difendere e a trasmettere alle giovani generazioni il patrimonio culturale del proprio Paese che comprende anche quanto viene sentito come peculiare e caratterizzante di che cosa si è.
In primo luogo, ci sono i doveri e le responsabilità nei confronti di una comunità spirituale che nel tempo lega le varie generazioni e che ha trasmesso a quella presente un patrimonio fatto di cultura, di talenti e di mezzi. Sul piano individuale, guardando a ciascuno di noi, in molti possiamo dire che senza quanto abbiamo ricevuto in mezzi materiali, in sostegno e in educazione da genitori e nonni non saremmo diventati ciò che siamo. Sul piano collettivo di appartenenza alla comunità nazionale è la stessa cosa.
In nome delle aperture al “nuovo” e al “diverso”, tale patrimonio non deve essere gettato via.
L’ordinamento costituzionale liberale, a garanzia delle preferenze e dei valori etici liberamente espressi da ogni cittadino, non può fare propria alcuna visione del mondo. L’ordinamento costituzionale liberale fornisce la cornice e le procedure entro le quali, nell’agone politico, si confrontano i vari interessi e valori presenti in una società articolata in cui convive una pluralità di riferimenti culturali. Le procedure democratiche consentono la partecipazione dei cittadini al pubblico dibattito sui temi che li riguardano come tali. Esse garantiscono che dal dibattito scaturisca un’articolata opinione pubblica e che questa diventi il contenuto di quella sovranità popolare che, mediante le istituzioni parlamentari, produce il diritto.
In un ordinamento liberale autentico, si possono far valere nella discussione pubblica tutti i tipi di dottrine morali o di teorie politiche, purché comprensive e ragionevoli, e a patto di sostenere e difendere i principi proposti portando ragioni pubbliche con argomenti che non ricorrano a riferimenti di fede (secondo la nota formulazione etsi deus non daretur). Di conseguenza, all’interno dello Stato liberale, non ci sono ragioni che implichino il bisogno di ricorrere a un’energia morale altra (derivante da riferimenti storico-culturali o religiosi, da tradizioni e costumi, ecc.) rispetto a quella connessa all’ordinario svolgimento dei compiti di una cittadinanza democratica.
Ma le cose stanno proprio così?
Anche a chi, come me, è sprovvisto di cultura giuridica, credo sia concesso di nutrire qualche dubbio in proposito, e, pertanto, mi permetto di sollevare alcune questioni.
In primo luogo, non è vero che lo Stato liberale abbia sempre adottato una posizione neutrale non facendo propria alcuna visione del mondo. Il liberalismo non può essere culturalmente neutrale: esalta i diritti dei singoli individui, ma non tutela la dignità e i valori delle comunità. Infatti, lo Stato liberale ha sempre privilegiato le aspirazioni e le preferenze orientate all’individualismo, anche estremo, rispetto a quelle sensibili alle istanze comunitarie. Ma teniamo presente che, pur se viene considerato centrale l’individuo, questi è un essere sociale che si realizza pienamente come persona solo nel legame con i membri della propria comunità. Quindi anche quest’ultima dovrebbe essere oggetto di considerazione. Inoltre, non dimentichiamo che le varie e differenti culture (la cui esistenza è indispensabile per evitare l’affermarsi di un'omologazione totalizzante) possono sussistere solo in una dimensione collettiva (cioè in una comunità di adeguata dimensione ancorata a un territorio) e non individuale.
In secondo luogo, si dà come presupposto che, nell’agone politico e nel discorso pubblico alla base della produzione del diritto, i cittadini e i loro rappresentanti intervengano con argomentazioni mosse esclusivamente dalla ragione e non da interessi particolaristici, individuali o di gruppo. Si tratta di un modello ideale, da cui la realtà che ci circonda è abissalmente lontana. In tutto l’Occidente, le forze politiche, si fanno interpreti di interessi particolari e, più che confrontarsi con argomenti razionali su progetti e normative di interesse comune, cercano di prevalere l’una sull’altra facendo appello alle paure irrazionali, all’emotività, al ventre dell’elettorato; in ciò avvalendosi essenzialmente delle tecniche pubblicitarie, tanto da portare Luciano Canfora ad affermare che i creatori di pubblicità sono i veri, e a loro modo geniali, intellettuali organici della vigente società liberaldemocratica. Un fenomeno che viene esacerbato dai sistemi politici bipolari, che focalizzano l’attenzione della gente sulla figura dei leader a scapito dei progetti politici.
Aggiungo che il discorso pubblico fondato sul dibattito richiede la partecipazione attiva dei cittadini. Purtroppo, da tempo, i partiti, i sindacati, come in generale tutte le organizzazioni di massa, sono in crisi: si riducono, pertanto, gli spazi di incontro in cui si realizza il dibattito politico. E la rete non basta a porvi rimedio. Le opinioni, le mode e i modelli del vivere sono dettati dai media, gli strumenti con cui l’oligarchia al vertice della società occidentale diffonde il suo messaggio teso alla promozione dei consumi e all’esaltazione del successo individuale.
A definire i termini del dibattito pubblico e a determinarne gli esiti, è questa élite che ha il dominio dei mezzi finanziari e il controllo degli strumenti della produzione culturale e dell’informazione. Non sono certo i cittadini, ai quali, spetta solo il ruolo di spettatori. Anzi lo stesso termine “cittadino” sta scomparendo nel vocabolario politico per essere sostituito da quello di “consumatore”, che meglio definisce una condizione passiva. Tutto questo non mi sembra avere nulla a che fare con quel dibattito pubblico immaginato dai teorici del liberalismo, ma semmai ne è il contrario.
Tuttavia il punto più critico, o più debole, della costruzione ideologica liberale è un altro. Jurgen Habermas, fra i maggiori teorici degli ordinamenti costituzionali liberali e fautore del patriottismo costituzionale, ha suo malgrado dovuto riconoscere (nel confronto con Joseph Ratzinger tenutosi a Monaco nel 2004) l’affermarsi di una modernizzazione “aberrante” che trasforma i cittadini delle società liberali benestanti in individui chiusi in se stessi, attenti solo al proprio interesse: ne consegue la distruzione del capitale sociale e dei legami che stanno a fondamento della società.
Habermas rileva che segni crescenti di un simile sfaldamento della solidarietà tra cittadini si mostrano nella dinamica, non più controllata politicamente, dell’economia e della società globalizzata: i mercati assumono crescenti funzioni di regolazione in ambiti di vita che finora sono stati tenuti insieme normativamente dalla politica o con forme prepolitiche di comunicazione. Non so se si tratti dei frutti di una “modernità aberrante”, come pensa Habermas, o non sia piuttosto il punto d’arrivo di un viaggio cominciato da lontano. Ha scritto, infatti, Alain Touraine (Critica della modernità) che “nel percorso della modernità, si è verificato il passaggio dal religioso al politico, quindi dal politico al sociale e da quest’ultimo a un individualismo orientato al consumo, con un’impressionante crescita della ricerca dell’interesse personale e del semplice piacere: si afferma così come unico fine l’individuo che diventa, invece della società, il principio di definizione del bene e del male”.
È un processo che inevitabilmente riduce le virtù indispensabili per la partecipazione alla vita democratica e a quel dibattito pubblico che dovrebbe essere la fonte del diritto. E’ difficile che in questo contesto sussistano i presupposti di quel dibattito razionale in grado di risolvere in maniera consensuale i conflitti di interesse e i contrasti di valori tra i membri della società.
Da questo insieme di fatti, credo si possano trarre due conclusioni.
In primo luogo, pare evidente che lo Stato liberale non sia in grado, autonomamente, di elaborare dimensioni valoriali che gli sono essenziali, ma debba ricorrere al soccorso di strutture prepolitiche (riferimenti storico-culturali o religiosi, tradizioni e costumi, sentimenti di appartenenza e di identità, ecc.) che oggi invece trascura quando non combatte. Lo stesso Habermas (riconsiderando sue precedenti posizioni) si è visto costretto ad ammettere che il presente del mondo ha un qualche bisogno del contributo degli ancoraggi prepolitici ancora vitali, per rinforzare le virtù politiche che non trovano più sufficiente alimento nel patriottismo costituzionale. In particolare, il filosofo è rimasto colpito da quel concetto di “vita buona” che nelle comunità religiose e di credenti alimenta una sensibilità, altrove perduta, per le vite andate a male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali, tragedie delle quali la società politica sembra incapace di occuparsi. Certamente questa considerazione apre un vulnus nell’edificio ideologico liberale: infatti, il filosofo è stato aspramente criticato per questa sua posizione.
In secondo luogo, è lecito chiedersi fino a che punto le visioni del mondo e le preferenze debbano essere considerate equivalenti dalle istituzioni dello Stato, se alcune di queste concezioni e preferenze (quelle che determinano la “modernità aberrante” denunciata da Habermas) riducono le virtù indispensabili per la partecipazione alla vita sociale e a quella democratica. In realtà, nella situazione odierna, risulta evidente che ci sono preferenze che sono coerenti con la tutela delle virtù civiche, capaci di alimentare la solidarietà e di rafforzare la coesione sociale, e altre che vanno in direzione opposta. A fronte di ciò, fino a quando la società potrà restare indifferente in materia, limitandosi a promuovere la sola tolleranza e a porre generiche regole di convivenza? L’imperante relativismo non può spingersi fino al punto di negare l’evidenza di quanto palesemente nuoce al bene comune e alla salvaguardia del tessuto sociale.
Sia ben chiaro che nessuno invoca l’introduzione di alcun tipo di censura. Ce n’è già troppa in giro, in particolare nei confronti di chi non si allinei al politicamente corretto o si contrapponga al pensiero dominante. E neppure credo che i valori debbano essere imposti per legge. Penso piuttosto che tutti, e in particolare coloro che hanno ruoli istituzionali, dovrebbero sentirsi impegnati a difendere e a trasmettere alle giovani generazioni il patrimonio culturale del proprio Paese che comprende anche quanto viene sentito come peculiare e caratterizzante di che cosa si è.
In primo luogo, ci sono i doveri e le responsabilità nei confronti di una comunità spirituale che nel tempo lega le varie generazioni e che ha trasmesso a quella presente un patrimonio fatto di cultura, di talenti e di mezzi. Sul piano individuale, guardando a ciascuno di noi, in molti possiamo dire che senza quanto abbiamo ricevuto in mezzi materiali, in sostegno e in educazione da genitori e nonni non saremmo diventati ciò che siamo. Sul piano collettivo di appartenenza alla comunità nazionale è la stessa cosa.
In nome delle aperture al “nuovo” e al “diverso”, tale patrimonio non deve essere gettato via.
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