Dopo il voto del 4 marzo è partito un dibattito sulla potenziale "estinzione" del centrosinistra. Nello specifico, della possibile "estinzione del PD". Una riflessione che sui principali organi di informazione accomuna svariati commentatori e opinionisti, di tutte le aree politiche e culturali del Paese. Ora, al di là della catastrofe elettorale che prosegue senza interruzione – dalle amministrative alle regionali, dal referendum alle politiche sino al voto in Molise e in attesa del Friuli e della tornata di giugno – forse è arrivato il momento di dire con chiarezza alcune cose in merito al futuro di questo "campo" politico.
Innanzitutto è fallito il progetto politico del Partito Democratico. La cosiddetta "vocazione maggioritaria" ormai è un puro ricordo del passato. Pratica archiviata.
In secondo luogo è miseramente naufragata la concezione del "partito plurale" di veltroniana e prodiana memoria. Una scommessa importante e suggestiva quella della pluralità culturale. Cioè della unità in un unico soggetto politico dei principali riformismi che hanno caratterizzato la storia democratica del nostro Paese. Un progetto che con Veltroni e poi con altre segreterie aveva entusiasmato milioni di italiani, e il massiccio consenso al PD ne era la diretta conseguenza.
Ma con la segreteria di Matteo Renzi quel progetto si è progressivamente trasformato. Il cambiamento del PD in un "partito personale" – l'ormai famoso PdR, partito di Renzi – prima, e le ripetute e ormai croniche sconfitte elettorali hanno liquidato l'esperienza originaria di marca veltroniana. Semplicemente si tratta di prenderne atto. Il PD, o chi per esso, continuerà certamente ad esistere, com'è ovvio, ma sarà un'altra cosa rispetto a quel partito che abbiamo conosciuto come contenitore delle culture riformiste.
In ultimo, l'insistenza sulla vocazione maggioritaria da un lato e la negazione della "cultura delle alleanze" dall'altro, hanno di fatto isolato il PD nello scacchiere politico italiano determinandone la sconfitta quasi scientifica e solitaria.
Ecco perché si parla, purtroppo a ragione, di possibile "estinzione del centrosinistra", e quindi di estinzione o trasformazione profonda dello stesso Partito Democratico. E, di fronte a un quadro politico che rischia di stabilizzare – anche se l'elettorato ormai è molto volubile – un nuovo bipolarismo che relega definitivamente ai margini quel che resta del centrosinistra, è proprio giunto il momento di riscoprire quelle culture che avevano contribuito a dare origine a quel progetto riformista, democratico e di governo che andò sotto il nome dell'Ulivo a metà degli anni '90 e che poi si dissolse nel PD e nella sua trasformazione.
Noi, per quando ci riguarda, abbiamo oggi il dovere morale, politico e culturale di riscoprire e riattualizzare la tradizione del Popolarismo. Lo chiedono a gran voce non solo l'area cattolica, seppur variegata e pluralistica, ma curiosamente lo invocano anche i pulpiti laicisti e laici del nostro Paese. Uno scatto d'orgoglio adesso è necessario. Verrebbe da dire, "se non ora quando"?
Innanzitutto è fallito il progetto politico del Partito Democratico. La cosiddetta "vocazione maggioritaria" ormai è un puro ricordo del passato. Pratica archiviata.
In secondo luogo è miseramente naufragata la concezione del "partito plurale" di veltroniana e prodiana memoria. Una scommessa importante e suggestiva quella della pluralità culturale. Cioè della unità in un unico soggetto politico dei principali riformismi che hanno caratterizzato la storia democratica del nostro Paese. Un progetto che con Veltroni e poi con altre segreterie aveva entusiasmato milioni di italiani, e il massiccio consenso al PD ne era la diretta conseguenza.
Ma con la segreteria di Matteo Renzi quel progetto si è progressivamente trasformato. Il cambiamento del PD in un "partito personale" – l'ormai famoso PdR, partito di Renzi – prima, e le ripetute e ormai croniche sconfitte elettorali hanno liquidato l'esperienza originaria di marca veltroniana. Semplicemente si tratta di prenderne atto. Il PD, o chi per esso, continuerà certamente ad esistere, com'è ovvio, ma sarà un'altra cosa rispetto a quel partito che abbiamo conosciuto come contenitore delle culture riformiste.
In ultimo, l'insistenza sulla vocazione maggioritaria da un lato e la negazione della "cultura delle alleanze" dall'altro, hanno di fatto isolato il PD nello scacchiere politico italiano determinandone la sconfitta quasi scientifica e solitaria.
Ecco perché si parla, purtroppo a ragione, di possibile "estinzione del centrosinistra", e quindi di estinzione o trasformazione profonda dello stesso Partito Democratico. E, di fronte a un quadro politico che rischia di stabilizzare – anche se l'elettorato ormai è molto volubile – un nuovo bipolarismo che relega definitivamente ai margini quel che resta del centrosinistra, è proprio giunto il momento di riscoprire quelle culture che avevano contribuito a dare origine a quel progetto riformista, democratico e di governo che andò sotto il nome dell'Ulivo a metà degli anni '90 e che poi si dissolse nel PD e nella sua trasformazione.
Noi, per quando ci riguarda, abbiamo oggi il dovere morale, politico e culturale di riscoprire e riattualizzare la tradizione del Popolarismo. Lo chiedono a gran voce non solo l'area cattolica, seppur variegata e pluralistica, ma curiosamente lo invocano anche i pulpiti laicisti e laici del nostro Paese. Uno scatto d'orgoglio adesso è necessario. Verrebbe da dire, "se non ora quando"?
Condivido la necessità di riscoprire e riattualizzare la tradizione del Popolarismo. Che deve essere qualcosa di diverso dal (semplifico per capirci) renzismo: perchè temo che molti popolari pensino che siano da salvaguardare quelle posizioni, perchè difenderebbero dall’egemonia ex diessina da una parte e dal “trasformismo” “qualunquismo” “giacobinismo” dei cinquestelle dall’altra. Noi dobbiamo pensare al bene del Paese e dell’Europa più che al bene di una sigla o di un’organizzazione. Perciò il rilancio popolare deve essere nel portare avanti il cambiamento richiesto (traducendolo laicamente) dalla Laudato sì contro l’establishment e il modello liberista e consumista; essere con l’Occidente e nella Nato ma per farli evolvere e non per condividerne i progetti militaristi di questi anni; di combattere il malaffare e la cultura mafiosa. Insieme a chi garantisce il cambiamento
Lucidissima l’analisi sulle cause del fallimento del Pd. Una sola considerazione sulla tesi di Giorgio Merlo. Il ritorno alle culture originarie dell’area riformatrice, e alle loro rispettive forme organizzative, è ancora possibile senza il consenso popolare? Perché l’Ulivo e persino il primo Pd intercettavano quella parte del voto popolare che guarda a sinistra. Dopo lo scorso 4 marzo non è più così e il rischio estinzione è dietro l’angolo. Alla classe media impoverita, che si sente tradita da una sinistra che ha adottato il punto di vista dei più forti, delle élites della finanza globale occidentale, occorre saper parlare anche con il linguaggio della rappresentanza dei suoi interessi.
La vera sfida allora, a mio avviso, diventa: come usare le categorie qualificanti della cultura politica del popolarismo, che giustamente occorre riscoprire, per costruire un progetto politico più ampio nel quale i ceti lavoratori e popolari tornino ad essere centrali e non subalterni, un progetto di respiro europeo, se vogliamo salvare l’ideale europeista nei fatti e non con la retorica, che scalfisca, con proposte concrete e comprensibili dagli elettori, il primato della moneta sulla persona e la prevalenza dei grandi interessi economici e finanziari sulla sostenibilità del vivere per tutti?
Un nuovo partito, nello schieramento riformatore, serve se si dimostra credibile e determinato nell’andare fino in fondo, non escludendo nessuna opzione, nella difficilissima trattativa con la Germania, da cui dipende il nostro futuro e quello dell’Europa, nel convincere i nostri amici tedeschi a rinunciare almeno in parte al loro egoismo nazionale. Questo è il presupposto per qualunque forza politica, a maggior ragione se cattolico-progressista, che intenda realizzare qualcosa di diverso dall’agenda Monti che negli ultimi sette anni tanti colpi ha inferto alla stabilità economica e sociale del nostro Paese.
In questa prospettiva il richiamo a Sturzo, De Gasperi e Moro qualifica e rafforza l’impegno per una rinascita sociale, economica e democratica dell’Italia e offre all’Europa una via alternativa allo schianto verso cui la stanno guidando i “sacerdoti” del monetarismo.
Leggo tra le righe di questi interessanti commenti una rinascita se ho capito bene di una DC riformista e attuale, commisurata ai tempo che viviamo. Concordo pienamente con questo progetto che vede sicuramente l’area cattolica di oggi protagonista di un nuovo progetto politico che torna ad essere portavoce della classe media e lavoratrice ma con connotazioni più europeiste e riformiste. Un nuovo progetto che attragga le classi che oggi si sono sentite tradite dal PD ma non direi solo da quello renziano, anche se personalmente sono convinta che Renzi ha voluto provare a dare una svolta al paese, ma purtroppo non è stato in grado di intercettare quella classe che proveniva ancora dal mondo operaio, non ci è riuscito… Troppo difficile il suo progetto politico e poco comprensibile da quella fascia di persone. Forse una rinascita di un progetto che stia veramente accanto alle fasce più deboli sarebbe un toccasana per il centro sinistra… quindi più al centro in maniera genuina e comprensibile. La fine della Dc, l’assenza di una forza politica di ispirazione cristiana, in Italia e nel parlamento italiano è tuttora avvertita, se non altro per l’azione politico-parlamentare svolta con competenza, lungimiranza, equilibrio e mitezza. In questa realtà evoluta, moderna, attraversata da un capitalismo primitivo e selvaggio la politica ha smarrito il senso del proprio ruolo, della propria funzione, mostrandosi incapace di contrastare gli interessi egoistici di un’economia aggressiva e cinica, perdendo quella peculiarità sociale necessaria, soprattutto, nel mondo globalizzato. I cattolici in politica di fronte a questo clima assurdo, dove la povertà avanza quotidianamente hanno il dovere di riflettere, e domandarsi se non è il caso di ripensare a un loro rinnovato impegno in politica, ma in maniera più evoluta e riformista, non più come risposta ad un nemico negatore di ogni libertà, ma come necessità, di fronte ai momenti di gravi difficoltà di carattere socio-economico, con l’unico fine di ripristinare condizioni di vita più degne per tutti, in un’Italia dubbiosa e impaurita.
Nell’articolo di Merlo e nei commenti di Baviera, Davicino e Pisano, si prende atto del fallimento del progetto del partito a vocazione maggioritaria e di quel partito plurale che doveva unificare i vari riformismi presenti nel secondo dopoguerra; si auspica una trasformazione profonda del quadro politico con una riscoperta e una attualizzazione della tradizione popolare che dia una nuova centralità ai ceti lavoratori e alle classi popolari. Fin qui non si può non essere d’accordo, ma mi permetto di fare (schematicamente) alcune osservazioni.
1) Come ho già detto varie volte, non si può imputare al solo Renzi la responsabilità per questo fallimento: esso infatti viene da molto lontano.
2) Si continua a focalizzare l’attenzione sul solo scenario italiano, quando la crisi (forse irreversibile) della sinistra e dei riformismi investe l’intera Europa.
3) Per proporre su basi nuove un progetto riformatore, è certamente importante quanto può provenire dal mondo cattolico, ma non si deve dimenticare che i cattolici sono ormai in tutta Europa una modesta minoranza; le condizioni che avevano consentito l’affermazione della Democrazia cristiana appartengono a un mondo ormai lontanissimo. Conservare memoria del passato è fondamentale, ma la nostalgia è una pessima consigliera.
4) Si ripudia il liberismo (che interpreta gli interessi della élite finanziaria globale oggi dominante) al quale si riconducono il malessere dei ceti popolari, il declino della classe media ed i guasti ambientali. Ma c’è dell’altro: assistiamo al disgregarsi del tessuto sociale perché nessuno sembra più accettare limiti ai propri desideri, nessuno riconosce più di avere dei doveri e delle responsabilità; i più vivono solo per se stessi. Sono questi gli effetti di quel libertarismo, fondato sulla continua rivendicazione di nuovi diritti individuali, del quale non si coglie la stretta relazione con il liberismo: liberismo in economia e libertarismo in ambito societario sono le due facce di una stessa medaglia, il neoliberalismo che contrassegna l’attuale Occidente.
Riscoprire e riattualizzare la tradizione del Popolarismo? Si, ma sono necessarie due condizioni: 1-un progetto realistico e complessivo per l’Italia che vogliamo e 2-un leader che sia effettivamente tale, non designato o eletto… alla Sturzo o alla De Gasperi, per intenderci. In caso contrario, sogni e pie intenzioni.