In questi giorni, sentiamo ripetere, principalmente dalle forze di centrodestra, ma non solo da esse (vedi Confindustria), che i problemi ambientali e la lotta nei confronti del riscaldamento climatico vanno affrontati con un approccio non ideologico. Che cosa vuol dire? Per mettere da parte l’ideologia, basta attenersi alle indicazioni delle autorità scientifiche più qualificate nel settore in questione (i climatologi). Si fa invece dell’ideologia quando ci si arrampica sui vetri per ridimensionare il riscaldamento climatico, o negarne la sua origine antropica, o quando, invocando improbabili soluzioni tecnologiche, si creano pericolose illusioni per distrarre l’opinione pubblica dai sacrifici che occorre fare.
Di fatto, si antepone alla transizione verde la crescita economica con il connesso consumismo che la alimenta, essendo essa una necessità vitale per il dominante turbocapitalismo. Questo è stato paragonato a una motocicletta di grossa cilindrata che è costretta a viaggiare veloce perché, se va piano o rallenta troppo, perde equilibrio e cade.
Ora, di fronte ai guasti ambientali e al progressivo riscaldamento climatico prodotti dalle attività umane – una realtà che non si può più negare – i fautori dello sviluppo illimitato (a cui non possono rinunciare perché altrimenti sarebbe la loro fine) ritengono di aver trovato un’ancora di salvezza immaginando la possibilità di uno sviluppo fondato sulla produzione di beni immateriali, realizzabile con un bassissimo o perfino nullo impiego di energia.
Guillaume Travers (un raro economista che non crede alla crescita illimitata) ha denunciato (su “Eléments”, octobre-novembre 2021) la natura mitica di tale idea che non trova alcun conforto nei fatti.
Espongo sinteticamente le obiezioni fatte da Travers agli argomenti che stanno alla base di tale improbabile ancora di salvezza.
Da quando l’economia ha cominciato a terziarizzarsi, allargando gli spazi occupati dalla smaterializzazione, il consumo di energia e di risorse naturali, e il tasso di inquinamento e di emissione di gas serra, a livello planetario, non sono calati, ma anzi sono progressivamente aumentati. Allorché se ne è verificata una qualche diminuzione in taluni Paesi, questa è stata possibile solo perché detti Paesi hanno dismesso o delocalizzato la produzione di beni industriali ed agricoli, preferendo coprire le proprie esigenze in materia con l’importazione.
Aggiunge Travers che, in ogni tipo di economia, ci sono attività che non possono essere smaterializzate: quelle dedicate alla produzione di alimenti, alla costruzione di abitazioni, alla fornitura di vestiario, di mobilia, di mezzi di trasporto, ecc.; attività che riguardano la soddisfazione dei nostri bisogni materiali fondamentali, e nelle quali, quando le società erano meno complesse e poco automatizzate rispetto ad oggi, era impiegata la quasi totalità dei lavoratori. Attualmente, mentre la manodopera in tali settori si è molto ridotta, resta elevata la domanda di energia e di materie prime per mantenerli operativi.
La smaterializzazione fa la sua comparsa con lo sviluppo del settore terziario (commercio, banche e assicurazioni, comunicazione, pubblicità, ecc.), resosi possibile da quando i bisogni materiali fondamentali sono risultati soddisfatti perché le attività primarie e secondarie erano diventate adeguatamente produttive e/o si erano appoggiate in misura significativa alla divisione internazionale del lavoro. Infatti, la precondizione della smaterializzazione è una solida economia fortemente materiale, energivora, dipendente da flussi complessi di merci.
Travers si sofferma su quanto ci sia di illusorio dietro i “clic”, quel gesto che caratterizza la più parte delle operazioni cosiddette immateriali.
È vero che scrivere una e-mail è meglio per l’ambiente che spedire una lettera per posta? A parte il fatto che di lettere inviate per posta, un tempo, se ne scrivevano poche, il costo effettivo, non visibile di una e-mail non è affatto trascurabile in termini materiali ed energetici. Infatti, il supporto materiale di Internet richiede energia per funzionare. Una e-mail con un allegato importante equivale a lasciare accesa una lampadina per più di un’ora. Assai di più incide una indagine su un motore di ricerca.
Al di là della valutazione delle singole operazioni, si stima che oggi l’intera infrastruttura digitale (in particolare i data centers) possa consumare fra il 5% e il 10% dell’elettricità prodotta nel mondo.
Poi c’è il materiale che sta dietro i “clic”: gli schermi, i computer, i tablet e l’intera infrastruttura dei cavi e dei server necessaria al funzionamento. Per produrre tali apparecchi elettronici, sono necessarie importanti quantità di energia e di materiali, molti dei quali di costosa estrazione e talora rari (cobalto, litio, scandio, ittrio ed altre terre rare).
Inoltre, la smaterializzazione implica la moltiplicazione degli apparati digitali, mentre ogni nuova applicazione, o il potenziamento di quelle esistenti, richiede strumenti sempre più efficaci, potenti e rapidi, imponendone un continuo rinnovamento, sicché detti strumenti vengono in genere buttati via quando sono ancora funzionanti. Tempo fa, Jeremy Rifkin ha segnalato che l’accesso temporaneo a beni e servizi (sviluppatosi insieme alla smaterializzazione), garantendo agli utenti di avere a disposizione prodotti sempre più avanzati o all’ultima moda, rende obsoleti molti beni esaltandone la velocità di ricambio.
Travers evidenzia che la smaterializzazione in genere si realizza mediante la sostituzione di oggetti relativamente semplici con altri di natura più complessa la cui produzione comporta, pertanto, una maggiore pressione sugli ecosistemi. Ad esempio, un telefono degli anni Cinquanta era costituito da un limitato numero di componenti prodotti localmente a partire da materiali “poveri”; aveva inoltre una durata di vita pluridecennale. Uno smartphone comprende un rilevante numero di componenti, per la cui fabbricazione non solo sono richiesti materiali costosi, ma che, prima di essere assemblati, possono aver percorso la circonferenza della Terra venendo dalle più disparate parti del mondo. Esso ha, in aggiunta, una vita operativa assai breve.
Le cose non potranno che aggravarsi con l’estensione della digitalizzazione a sempre nuovi ambiti.
Tutto ciò avrebbe una qualche giustificazione se, come sostengono i suoi fautori, la massiccia crescita del settore dei servizi avvenisse a detrimento delle attività primarie e secondarie, ma, come abbiamo visto, ciò non può accadere su scala mondiale. Il settore primario e quello secondario restano in ogni caso indispensabili e vitali in ogni società, mentre la messa in circolazione e il funzionamento degli apparecchi digitali comportano elevati consumi energetici e di materie prime, consumi che i fautori della smaterializzazione volutamente trascurano.
Fin qui si è preso in considerazione l’impatto delle attività digitali sugli ecosistemi in termini di richieste energetiche e materiali, e di emissione di inquinati e gas serra. Ma ci sono altri aspetti di cui tenere conto.
La società fondata sui beni immateriali è una società estremamente complessa in cui tutto viene messo sotto controllo. A parte la violazione degli spazi di vita individuali (la cosiddetta privacy), una tale complessità può essere gestita solo con il ricorso a potenti mezzi tecnologici (i vari algoritmi e gli strumenti in grado di operare con essi). Dietro a questi, ci sono i tecnologi e le grandi società del settore. Fra non molto, sarà l’intelligenza artificiale a farla da padrone. Lo spazio decisionale dei cittadini, singoli o associati, al di là di quanto riguarda una modesta parte dei consumi, si annulla. Dove andrà a finire la democrazia?
Tuttavia, molti sono convinti del contrario, ritenendo Internet uno spazio di libertà. Ci dicono che offre un crescente numero di scelte; consente una ampia partecipazione resa possibile dalle reti di comunicazione; crea condivisione con l’accesso ai beni in luogo della proprietà di questi, mentre la forza dominante nei processi economici diventa il capitale intellettuale e non più quello fisico, materiale.
Già Rifkin (vedi La sconvolgente era dell’accesso) ha espresso dubbi su tale positiva rappresentazione della società fondata sull’accesso ai beni e ai servizi e la connessa smaterializzazione. Infatti, ci dice, il capitale intellettuale al centro del processo produttivo esercita un forte controllo sulle aziende collegate definendo vincoli gerarchici tali da renderle totalmente subalterne. Inoltre, il nuovo assetto, grazie alla rete, favorisce la concentrazione del potere nelle mani di un numero sempre più ristretto di soggetti (imprese, istituzioni). Ne consegue una società più diseguale e meno partecipata.
Ci sono poi ricadute sulle persone che stanno davanti agli strumenti cliccando. Chi rimane a lungo fisso davanti agli schermi, scrive Travers, si estranea sempre più dalla realtà e vive in un mondo virtuale. Quando clicca su uno schermo per acquistare un bene o accedere a un servizio, non sa quali conseguenze comporti il suo gesto perché, anche se lo volesse, non ha modo di sapere come e dove la sua richiesta sarà esaudita. Così finisce per non vedere più la natura e ignorare l’imbruttimento e la contaminazione del mondo. Coloro che frequentano assiduamente il mondo virtuale diventano sempre più concentrati su se stessi, meno capaci di empatia e meno dotati di sensibilità verso ciò che li circonda. Effetti perversi che impediscono l’affermarsi di una indispensabile coscienza ecologica.
Da quanto detto, emerge che lo sviluppo, ancorché presentato come smaterializzato, incontra sempre dei limiti perché le contraddizioni che apre non possono essere risolte con il solo ricorso alla tecnica.
Porre dei limiti significa decrescita? Decrescita (felice o meno) è termine introdotto a suo tempo da Serge Latouche, probabilmente una espressione non azzeccata. Il ripristino dell’equilibrio tra consumo di risorse rinnovabili e riproduzione delle stesse, e dell’equilibrio tra emissione di inquinanti (gas serra compresi) e la capacità del sistema naturale di metabolizzarli, comporta l’abbandono del consumismo e della crescita economica su questo fondata, ma non di uno sviluppo responsabile, attento al rispetto dei citati equilibri.
Aggiungo che ritengo pura fantasia o ideologia la rappresentazione della “decrescita” dominante nei media, una decrescita vista come un ritorno all’epoca pre-industriale se non all’età della pietra.
Un sistema tornato in equilibrio (comunque denominato), sostenuto dall’innovazione tecnologica, è compatibile con buone condizioni di vita, per certi aspetti migliori delle attuali, potendo, con l’abbandono del consumismo, ridare spazio ai valori relazionali e al godimento dei beni ambientali e naturali.
A ben vedere, anche la cosiddetta “crescita sostenibile” dovrebbe rispondere a tali requisiti, ma purtroppo è proprio la dizione “crescita sostenibile” ad esser stata stravolta, anzi capovolta, dagli esponenti del mondo economico per i quali, nella sostanza, significherebbe tutelare l’ambiente fin tanto che ciò non incida negativamente sulla crescita economica. In tal modo, non si evita di andare incontro a un disastro.
Già quest’anno si sono fatti molto più più frequenti gli eventi meteorologici devastanti e relative alluvioni (con il reiterato allagamento della Romagna), mentre nel Sud una siccità eccezionale sta creando gravi danni all’agricoltura.
Quanto è avvento, da inizio del nuovo secolo, ci dice che, se non si cambia rotta, nei prossimi anni, le anomalie climatiche negative e gli eventi devastanti continueranno progressivamente ad aumentare di frequenza e intensità, con ricadute pesantissime sull’economia e sulle nostre condizioni di vita.
Certamente, come in ogni transizione, si presenteranno – e già si stanno presentando – momenti critici. Per superarli, occorrono duttilità, realismo, capacità di comprendere le conseguenze di ogni misura, sia da intraprendere, sia ove non fosse attuata o venisse rinviata. In ogni caso, ci vuole molta attenzione nei confronti di tutti quanti incontreranno le maggiori difficoltà.
L’unica cosa non realistica è rallentare tale processo di trasformazione perché è sempre più limitato il tempo necessario per raggiungere l’obiettivo di una salvaguardia ambientale in grado di evitare il peggio.
Di fatto, si antepone alla transizione verde la crescita economica con il connesso consumismo che la alimenta, essendo essa una necessità vitale per il dominante turbocapitalismo. Questo è stato paragonato a una motocicletta di grossa cilindrata che è costretta a viaggiare veloce perché, se va piano o rallenta troppo, perde equilibrio e cade.
Ora, di fronte ai guasti ambientali e al progressivo riscaldamento climatico prodotti dalle attività umane – una realtà che non si può più negare – i fautori dello sviluppo illimitato (a cui non possono rinunciare perché altrimenti sarebbe la loro fine) ritengono di aver trovato un’ancora di salvezza immaginando la possibilità di uno sviluppo fondato sulla produzione di beni immateriali, realizzabile con un bassissimo o perfino nullo impiego di energia.
Guillaume Travers (un raro economista che non crede alla crescita illimitata) ha denunciato (su “Eléments”, octobre-novembre 2021) la natura mitica di tale idea che non trova alcun conforto nei fatti.
Espongo sinteticamente le obiezioni fatte da Travers agli argomenti che stanno alla base di tale improbabile ancora di salvezza.
Da quando l’economia ha cominciato a terziarizzarsi, allargando gli spazi occupati dalla smaterializzazione, il consumo di energia e di risorse naturali, e il tasso di inquinamento e di emissione di gas serra, a livello planetario, non sono calati, ma anzi sono progressivamente aumentati. Allorché se ne è verificata una qualche diminuzione in taluni Paesi, questa è stata possibile solo perché detti Paesi hanno dismesso o delocalizzato la produzione di beni industriali ed agricoli, preferendo coprire le proprie esigenze in materia con l’importazione.
Aggiunge Travers che, in ogni tipo di economia, ci sono attività che non possono essere smaterializzate: quelle dedicate alla produzione di alimenti, alla costruzione di abitazioni, alla fornitura di vestiario, di mobilia, di mezzi di trasporto, ecc.; attività che riguardano la soddisfazione dei nostri bisogni materiali fondamentali, e nelle quali, quando le società erano meno complesse e poco automatizzate rispetto ad oggi, era impiegata la quasi totalità dei lavoratori. Attualmente, mentre la manodopera in tali settori si è molto ridotta, resta elevata la domanda di energia e di materie prime per mantenerli operativi.
La smaterializzazione fa la sua comparsa con lo sviluppo del settore terziario (commercio, banche e assicurazioni, comunicazione, pubblicità, ecc.), resosi possibile da quando i bisogni materiali fondamentali sono risultati soddisfatti perché le attività primarie e secondarie erano diventate adeguatamente produttive e/o si erano appoggiate in misura significativa alla divisione internazionale del lavoro. Infatti, la precondizione della smaterializzazione è una solida economia fortemente materiale, energivora, dipendente da flussi complessi di merci.
Travers si sofferma su quanto ci sia di illusorio dietro i “clic”, quel gesto che caratterizza la più parte delle operazioni cosiddette immateriali.
È vero che scrivere una e-mail è meglio per l’ambiente che spedire una lettera per posta? A parte il fatto che di lettere inviate per posta, un tempo, se ne scrivevano poche, il costo effettivo, non visibile di una e-mail non è affatto trascurabile in termini materiali ed energetici. Infatti, il supporto materiale di Internet richiede energia per funzionare. Una e-mail con un allegato importante equivale a lasciare accesa una lampadina per più di un’ora. Assai di più incide una indagine su un motore di ricerca.
Al di là della valutazione delle singole operazioni, si stima che oggi l’intera infrastruttura digitale (in particolare i data centers) possa consumare fra il 5% e il 10% dell’elettricità prodotta nel mondo.
Poi c’è il materiale che sta dietro i “clic”: gli schermi, i computer, i tablet e l’intera infrastruttura dei cavi e dei server necessaria al funzionamento. Per produrre tali apparecchi elettronici, sono necessarie importanti quantità di energia e di materiali, molti dei quali di costosa estrazione e talora rari (cobalto, litio, scandio, ittrio ed altre terre rare).
Inoltre, la smaterializzazione implica la moltiplicazione degli apparati digitali, mentre ogni nuova applicazione, o il potenziamento di quelle esistenti, richiede strumenti sempre più efficaci, potenti e rapidi, imponendone un continuo rinnovamento, sicché detti strumenti vengono in genere buttati via quando sono ancora funzionanti. Tempo fa, Jeremy Rifkin ha segnalato che l’accesso temporaneo a beni e servizi (sviluppatosi insieme alla smaterializzazione), garantendo agli utenti di avere a disposizione prodotti sempre più avanzati o all’ultima moda, rende obsoleti molti beni esaltandone la velocità di ricambio.
Travers evidenzia che la smaterializzazione in genere si realizza mediante la sostituzione di oggetti relativamente semplici con altri di natura più complessa la cui produzione comporta, pertanto, una maggiore pressione sugli ecosistemi. Ad esempio, un telefono degli anni Cinquanta era costituito da un limitato numero di componenti prodotti localmente a partire da materiali “poveri”; aveva inoltre una durata di vita pluridecennale. Uno smartphone comprende un rilevante numero di componenti, per la cui fabbricazione non solo sono richiesti materiali costosi, ma che, prima di essere assemblati, possono aver percorso la circonferenza della Terra venendo dalle più disparate parti del mondo. Esso ha, in aggiunta, una vita operativa assai breve.
Le cose non potranno che aggravarsi con l’estensione della digitalizzazione a sempre nuovi ambiti.
Tutto ciò avrebbe una qualche giustificazione se, come sostengono i suoi fautori, la massiccia crescita del settore dei servizi avvenisse a detrimento delle attività primarie e secondarie, ma, come abbiamo visto, ciò non può accadere su scala mondiale. Il settore primario e quello secondario restano in ogni caso indispensabili e vitali in ogni società, mentre la messa in circolazione e il funzionamento degli apparecchi digitali comportano elevati consumi energetici e di materie prime, consumi che i fautori della smaterializzazione volutamente trascurano.
Fin qui si è preso in considerazione l’impatto delle attività digitali sugli ecosistemi in termini di richieste energetiche e materiali, e di emissione di inquinati e gas serra. Ma ci sono altri aspetti di cui tenere conto.
La società fondata sui beni immateriali è una società estremamente complessa in cui tutto viene messo sotto controllo. A parte la violazione degli spazi di vita individuali (la cosiddetta privacy), una tale complessità può essere gestita solo con il ricorso a potenti mezzi tecnologici (i vari algoritmi e gli strumenti in grado di operare con essi). Dietro a questi, ci sono i tecnologi e le grandi società del settore. Fra non molto, sarà l’intelligenza artificiale a farla da padrone. Lo spazio decisionale dei cittadini, singoli o associati, al di là di quanto riguarda una modesta parte dei consumi, si annulla. Dove andrà a finire la democrazia?
Tuttavia, molti sono convinti del contrario, ritenendo Internet uno spazio di libertà. Ci dicono che offre un crescente numero di scelte; consente una ampia partecipazione resa possibile dalle reti di comunicazione; crea condivisione con l’accesso ai beni in luogo della proprietà di questi, mentre la forza dominante nei processi economici diventa il capitale intellettuale e non più quello fisico, materiale.
Già Rifkin (vedi La sconvolgente era dell’accesso) ha espresso dubbi su tale positiva rappresentazione della società fondata sull’accesso ai beni e ai servizi e la connessa smaterializzazione. Infatti, ci dice, il capitale intellettuale al centro del processo produttivo esercita un forte controllo sulle aziende collegate definendo vincoli gerarchici tali da renderle totalmente subalterne. Inoltre, il nuovo assetto, grazie alla rete, favorisce la concentrazione del potere nelle mani di un numero sempre più ristretto di soggetti (imprese, istituzioni). Ne consegue una società più diseguale e meno partecipata.
Ci sono poi ricadute sulle persone che stanno davanti agli strumenti cliccando. Chi rimane a lungo fisso davanti agli schermi, scrive Travers, si estranea sempre più dalla realtà e vive in un mondo virtuale. Quando clicca su uno schermo per acquistare un bene o accedere a un servizio, non sa quali conseguenze comporti il suo gesto perché, anche se lo volesse, non ha modo di sapere come e dove la sua richiesta sarà esaudita. Così finisce per non vedere più la natura e ignorare l’imbruttimento e la contaminazione del mondo. Coloro che frequentano assiduamente il mondo virtuale diventano sempre più concentrati su se stessi, meno capaci di empatia e meno dotati di sensibilità verso ciò che li circonda. Effetti perversi che impediscono l’affermarsi di una indispensabile coscienza ecologica.
Da quanto detto, emerge che lo sviluppo, ancorché presentato come smaterializzato, incontra sempre dei limiti perché le contraddizioni che apre non possono essere risolte con il solo ricorso alla tecnica.
Porre dei limiti significa decrescita? Decrescita (felice o meno) è termine introdotto a suo tempo da Serge Latouche, probabilmente una espressione non azzeccata. Il ripristino dell’equilibrio tra consumo di risorse rinnovabili e riproduzione delle stesse, e dell’equilibrio tra emissione di inquinanti (gas serra compresi) e la capacità del sistema naturale di metabolizzarli, comporta l’abbandono del consumismo e della crescita economica su questo fondata, ma non di uno sviluppo responsabile, attento al rispetto dei citati equilibri.
Aggiungo che ritengo pura fantasia o ideologia la rappresentazione della “decrescita” dominante nei media, una decrescita vista come un ritorno all’epoca pre-industriale se non all’età della pietra.
Un sistema tornato in equilibrio (comunque denominato), sostenuto dall’innovazione tecnologica, è compatibile con buone condizioni di vita, per certi aspetti migliori delle attuali, potendo, con l’abbandono del consumismo, ridare spazio ai valori relazionali e al godimento dei beni ambientali e naturali.
A ben vedere, anche la cosiddetta “crescita sostenibile” dovrebbe rispondere a tali requisiti, ma purtroppo è proprio la dizione “crescita sostenibile” ad esser stata stravolta, anzi capovolta, dagli esponenti del mondo economico per i quali, nella sostanza, significherebbe tutelare l’ambiente fin tanto che ciò non incida negativamente sulla crescita economica. In tal modo, non si evita di andare incontro a un disastro.
Già quest’anno si sono fatti molto più più frequenti gli eventi meteorologici devastanti e relative alluvioni (con il reiterato allagamento della Romagna), mentre nel Sud una siccità eccezionale sta creando gravi danni all’agricoltura.
Quanto è avvento, da inizio del nuovo secolo, ci dice che, se non si cambia rotta, nei prossimi anni, le anomalie climatiche negative e gli eventi devastanti continueranno progressivamente ad aumentare di frequenza e intensità, con ricadute pesantissime sull’economia e sulle nostre condizioni di vita.
Certamente, come in ogni transizione, si presenteranno – e già si stanno presentando – momenti critici. Per superarli, occorrono duttilità, realismo, capacità di comprendere le conseguenze di ogni misura, sia da intraprendere, sia ove non fosse attuata o venisse rinviata. In ogni caso, ci vuole molta attenzione nei confronti di tutti quanti incontreranno le maggiori difficoltà.
L’unica cosa non realistica è rallentare tale processo di trasformazione perché è sempre più limitato il tempo necessario per raggiungere l’obiettivo di una salvaguardia ambientale in grado di evitare il peggio.
Egr. G. Ladetto,
contrariamente a quanto da lei affermato ci sono scienziati climatologi, in Italia Franco Prodi e Antonino Zichichi, che ritengono che il riscaldamento globale, dimostrato ed innegabile, non sia affatto opera antropologica, ma dell’attività solare per almeno il 95%. E che ci siano atteggiamenti di intolleranza è vero, ma soprattutto dalla parte sua, per così dire, e che ha perfino richiesto licenziamenti ed allontanamenti dalle loro attività persone che esprimevano pareri contrari. E se non è comportamento ideologico questo!
Immagino che il Sig. Santo Bressani Doldi sia un affezionato lettore de “La Verità”. Può essere vero che Franco Prodi e Antonino Zichichi ritengano che l’attività solare sia responsabile del 95% del riscaldamento globale. Come accadde al premio Nobel Luc Montagner circa i vaccini anti-COVI-19, può succedere anche a persone intelligenti e colte di incorrere in terribili errori.
Così come possono incorrere, anzi incorrono quasi sempre in errori chi è solo guidato da ideologie, come sembra il sig. Roberto Leonardi. Quanto a leggere giornali mi dispiace contraddirla; io non ho mai letto giornali ideologici, mai di sinistra, mai di destra. E lei?
Buona giornata e buone letture se riesce.