Difficile fare pronostici sulla tenuta del governo di Michel Barnier, appeso come è agli umori alla duplice opposizione di una sinistra e di un'estrema destra pronte - se del caso superando un'irriducibile e reciproca avversione - addirittura ad unirsi per votare una mozione di censura. Il che significherebbe dimissioni immediate e l’apertura di una crisi al “buio”, tanto per usare il lessico della nostrana Prima repubblica, cui, va detto, la Quinta repubblica francese, sta cominciando a somigliare. Basti pensare ai quasi due mesi, intercorsi tra le elezioni legislative e la nomina di Barnier, quando ai tempi d'oro dell'era gollista tutto si sistemava già la sera stessa dei risultati con il Presidente della Repubblica - fosse De Gaulle, Mitterrand o Chirac - che comunicava il nome del premier ad urne ancora calde.
E che dire della scelta dei ministri? Mai visto un ritardo del genere nella nomina. Questa volta ha prevalso la ricerca di un equilibrio tra i diversi partiti, che fa pensare ai nostri vecchi esecutivi di pentapartito, di cui sia detto per inciso non abbiamo alcuna nostalgia. Alla fine, di riffa o di raffa, la compagine ministeriale è stata comunque allestita. Una squadra di macroniani, qualche gollista, una spruzzata di centristi e un ex socialista, Didier Migaud alla Giustizia, forse sperando che il Ps si allontani - e sarebbe ora - dal mortifero abbraccio con la France Insoumise di Jean-Luc Melenchon. Altri due nomi spiccano: agli Interni il liberal-gollista, Bruno Retailleau, tutto “legge ed ordine”, e agli Esteri, il centrista filo europeo, Jean-Noel Barrot. Confermata infine Rachida Dati alla Cultura già ministra all'epoca di Nicolas Sarkozy.
Se il Rassemblement nazionale (Rn) di Marina Le Pen sembra fare qualche apertura a Barnier, la sinistra schiuma rabbia sostenendo di aver subito uno scippo elettorale. Essendo finita in testa si vedeva, per certi versi giustamente, alla guida del governo e così sarebbe andata se i melechonisti, convinti di poter governare in solitario pur non avendo i numeri (alla maggioranza assoluta mancano almeno cento deputati), non avessero bocciato il tentativo del socialista Bernard Cazeneuve. A quel punto sarebbe stato sufficiente l’apporto dei voti centristi, che Cazeneuve era perfettamente in grado di ricevere, e una maggioranza di centro-sinistra oggi governerebbe l'Esagono.
Ma nel sistema francese, dominato da un maggioritario poco propenso ai compromessi, questo non è stato possibile. Così alla fine dal cilindro dell’Eliseo è spuntato il nome di Barnier. Un nome di indiscusso prestigio e tra i pochi esponenti gollisti a godere se non della benevolenza quanto meno della neutralità del Rn. Qualcuno – a sinistra – già parla di un esecutivo condizionato dall’estrema destra. Questo significa non conoscere Barnier: certamente uomo pronto al dialogo (lo si è visto all'opera con la Brexit) ma per nulla disposto a transigere su alcuni capisaldi, primo tra tutti l’integrazione europea di cui è uno dei più convinti assertori.
Il resto del programma lo scopriremo strada facendo ma è chiaro che gli spazi di manovra sono alquanto esigui. Persino i repubblicani, nonostante i portafogli ministeriali ricevuti, sono guardinghi. E dire che Sarkozy, il solo tra le fila golliste dotato di una certa lungimiranza politica inviti a sostenere senza indugi Barnier. In fondo, è dal 2012 che i gollisti – la famiglia principe della Quinta repubblica – non occupano Matignon. E da lì il balzo all’Eliseo è un po’ nell’ordine della cose. La sinistra, che troppo vuole e nulla stringe, starà all’opposizione, perché non ha capito che in questa fase servivano i compromessi e non gli ultimatum.
Il sistema francese non obbliga al voto di fiducia, tocca agli oppositori puntare sulla censura e dunque il governo è in grado di partire senza ostacoli iniziali. Poi, quando saranno in ballo testi di legge particolarmente impegnativi si tratterà di cercare la necessaria maggioranza. E non sarà facile. Si chiamano geometrie variabili: in Italia, basti pensare alla non sfiducia andreottiana, ci sguazziamo da sempre. Oltralpe è una clamorosa novità. Già però si parla di introdurre una legge elettorale proporzionale, forse il primo passo per giungere ad un classico parlamentarismo: il sistema più flessibile e probabilmente il più adatto a guidare società tanto frammentate come quelle odierne. Altro che l’assurdo premierato tanto caro ai meloniani, che non solo hanno in uggia la democrazia parlamentare, ma forse persino la democrazia tout court.
E che dire della scelta dei ministri? Mai visto un ritardo del genere nella nomina. Questa volta ha prevalso la ricerca di un equilibrio tra i diversi partiti, che fa pensare ai nostri vecchi esecutivi di pentapartito, di cui sia detto per inciso non abbiamo alcuna nostalgia. Alla fine, di riffa o di raffa, la compagine ministeriale è stata comunque allestita. Una squadra di macroniani, qualche gollista, una spruzzata di centristi e un ex socialista, Didier Migaud alla Giustizia, forse sperando che il Ps si allontani - e sarebbe ora - dal mortifero abbraccio con la France Insoumise di Jean-Luc Melenchon. Altri due nomi spiccano: agli Interni il liberal-gollista, Bruno Retailleau, tutto “legge ed ordine”, e agli Esteri, il centrista filo europeo, Jean-Noel Barrot. Confermata infine Rachida Dati alla Cultura già ministra all'epoca di Nicolas Sarkozy.
Se il Rassemblement nazionale (Rn) di Marina Le Pen sembra fare qualche apertura a Barnier, la sinistra schiuma rabbia sostenendo di aver subito uno scippo elettorale. Essendo finita in testa si vedeva, per certi versi giustamente, alla guida del governo e così sarebbe andata se i melechonisti, convinti di poter governare in solitario pur non avendo i numeri (alla maggioranza assoluta mancano almeno cento deputati), non avessero bocciato il tentativo del socialista Bernard Cazeneuve. A quel punto sarebbe stato sufficiente l’apporto dei voti centristi, che Cazeneuve era perfettamente in grado di ricevere, e una maggioranza di centro-sinistra oggi governerebbe l'Esagono.
Ma nel sistema francese, dominato da un maggioritario poco propenso ai compromessi, questo non è stato possibile. Così alla fine dal cilindro dell’Eliseo è spuntato il nome di Barnier. Un nome di indiscusso prestigio e tra i pochi esponenti gollisti a godere se non della benevolenza quanto meno della neutralità del Rn. Qualcuno – a sinistra – già parla di un esecutivo condizionato dall’estrema destra. Questo significa non conoscere Barnier: certamente uomo pronto al dialogo (lo si è visto all'opera con la Brexit) ma per nulla disposto a transigere su alcuni capisaldi, primo tra tutti l’integrazione europea di cui è uno dei più convinti assertori.
Il resto del programma lo scopriremo strada facendo ma è chiaro che gli spazi di manovra sono alquanto esigui. Persino i repubblicani, nonostante i portafogli ministeriali ricevuti, sono guardinghi. E dire che Sarkozy, il solo tra le fila golliste dotato di una certa lungimiranza politica inviti a sostenere senza indugi Barnier. In fondo, è dal 2012 che i gollisti – la famiglia principe della Quinta repubblica – non occupano Matignon. E da lì il balzo all’Eliseo è un po’ nell’ordine della cose. La sinistra, che troppo vuole e nulla stringe, starà all’opposizione, perché non ha capito che in questa fase servivano i compromessi e non gli ultimatum.
Il sistema francese non obbliga al voto di fiducia, tocca agli oppositori puntare sulla censura e dunque il governo è in grado di partire senza ostacoli iniziali. Poi, quando saranno in ballo testi di legge particolarmente impegnativi si tratterà di cercare la necessaria maggioranza. E non sarà facile. Si chiamano geometrie variabili: in Italia, basti pensare alla non sfiducia andreottiana, ci sguazziamo da sempre. Oltralpe è una clamorosa novità. Già però si parla di introdurre una legge elettorale proporzionale, forse il primo passo per giungere ad un classico parlamentarismo: il sistema più flessibile e probabilmente il più adatto a guidare società tanto frammentate come quelle odierne. Altro che l’assurdo premierato tanto caro ai meloniani, che non solo hanno in uggia la democrazia parlamentare, ma forse persino la democrazia tout court.
Eccellente articolo, che sintetizza in modo chiaro una situazione complessa ed inedita per i nostri cugini transalpini. Come ho avuto modo di far notare in altra sede, ho personalmente un giudizio molto positivo su Barnier, che ho visto all’opera in occasione di diverse riunioni, durante la sua lunga permanenza (17 anni!)alla Presidenza del Consiglio Generale della Savoia (= Provincia), agli albori del tormentone nuova linea Lyon – Turin. Così pure notai, con soddisfazione, che essendo un savoiardo resta pur sempre un nostro cugino …