Democrazia e riforme, guardiamo oltre casa nostra



Giuseppe Ladetto    30 Luglio 2024       0

Comprendo e condivido le preoccupazioni espresse da Alessandro Risso in tema di normative elettorali (CLICCA QUI), normative che possono compromettere il corretto funzionamento e la rappresentatività degli organismi elettivi. Ben venga ogni iniziativa tesa a mobilitare quanti sono consapevoli del problema per portare la questione all’attenzione dell’opinione pubblica. Dubito invece che il calo drastico di votanti, avvenuto nelle elezioni per il Parlamento comunitario, e in varie elezioni locali e nazionali, possa essere ricondotto alle modalità di voto. Infatti, da tempo vediamo esempi ben peggiori altrove, quale che sia il sistema elettorale, a cominciare dagli Stati Uniti dove, nelle ultime due o tre tornate per l’elezione del sindaco di New York, si è avuto un record negativo con l’80% degli aventi diritto al voto restato a casa.

Inoltre, ritengo poco produttivo (come avviene negli sterili dibattiti televisivi che quotidianamente ci vengono proposti) ricercare nelle vicende passate e/o più o meno recenti della politica italiana cause e responsabilità della crescente distanza dei cittadini dal mondo politico, quando tale fenomeno negativo si verifica ovunque.

Da decenni assistiamo ad un deterioramento della vita politica. C’è un evidente distacco tra i cittadini e un ceto politico che appare scadente e carente di quelle personalità che un tempo gli avevano dato lustro. L’attenzione è concentrata su personaggi al vertice dei partiti per motivazioni che poco hanno a che fare con una vera autorevolezza e capacità: segretari-padroni, protagonisti mediatici, signori delle tessere, garanti di accordi di potere tra le correnti, burocrati di partito, ecc. Mancano i programmi seri, la ricerca di percorsi rispondenti ai nuovi problemi e ai cambiamenti della società, mentre sono scomparsi i partiti veri, capaci di svolgere compiti che richiedono una ampia presenza di iscritti, la partecipazione e l’impegno dei militanti, come accadeva in passato. Quali le cause?

La causa prima è la debolezza, o meglio l’impotenza, della politica alla quale è stato sottratto il terreno su cui operare ed affermarsi. Nel mondo globalizzato, capitali e merci attraversano indisturbati i confini, mossi dalla sola ricerca del massimo profitto, sottraendosi a ogni controllo da parte degli Stati. Ne consegue che decisioni che coinvolgono la vita di milioni di esseri umani sono prese da organismi estranei allo Stato nazionale in cui si svolge l’attività politica, da organismi privi di rappresentatività, come il Fondo monetario, la Banca mondiale, il WTO, oppure dalle grandi multinazionali, dalle grandi banche e da importanti holding finanziarie.

Inoltre, a ridurre ulteriormente lo spazio della politica, c’è la progressiva cessione di competenze da parte degli Stati a organismi sovraordinati, sostanzialmente guidati da apparati burocratici e da figure tecnocratiche, la cui nomina non è sempre riconducibile a chiari e diretti mandati elettorali. E fra questi organismi, rischiamo sempre più di trovare una Europa in bilico (come è stato autorevolmente detto) tra l’essere preda di populismi autoreferenziali e il trasformarsi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli.

Allora perché recarsi alle urne quando ad avere voce in capitolo non sono gli eletti, ma altri poteri?

Anche Guido Bodrato parlando di crisi della democrazia rappresentativa, ne denunciava, fra le cause principali, la decadenza degli Stati nazionali provocata dalla globalizzazione, e il crescente dominio dell’economia e della finanza sulla politica. Aggiungo che, anche all’interno dei Paesi, numerose competenze vengono assegnate ad autorità garanti, in genere tecnici che, in quanto depositari di saperi specifici, sarebbero indipendenti. Da che cosa? Dalla politica, che appunto risulta ancor più ridimensionata.

Dietro a figure come i “garanti”, o i “commissari”, si annida una concezione devastante per la politica. Infatti, si sta diffondendo l’idea che per ogni problema ci sia una sola soluzione giusta, o ottimale, di natura tecnica, e che pertanto la figura più idonea a risolverlo sia un “competente”, ovvero un “tecnocrate” di fama, esperto del settore (vedi l’esaltazione di una figura come Mario Draghi). Non si comprende che, per la più parte dei problemi, ci sono più soluzioni che si distinguono per come distribuiscono oneri e vantaggi tra le categorie, i ceti, le generazioni, i generi e i territori. Qui dovrebbe invece entrare in scena la politica con i vari partiti il cui compito è appunto quello di rappresentare tali soggetti e di cercare soluzioni che ne tutelino gli interessi in vista del bene dell’insieme della società. Soprattutto, a diversificare le soluzioni, ci sono i differenti valori che caratterizzano le identità delle formazioni politiche, valori che conducono a privilegiare specifici obiettivi fra i molti possibili.

Il ruolo dei tecnocrati viene esaltato anche dalla complessità crescente della società contemporanea (per lo spazio occupato dagli aspetti tecnici e dalla sottese problematiche scientifiche) che risulta sempre più difficile da comprendere e interpretare, per i cittadini e il ceto politico stesso. Così quanto più vasta, complicata e interdipendente si fa la società (con la globalizzazione) cresce la spinta ad affidarne il governo a coloro che sanno di cose complesse e che hanno la capacità di metterci mano. Si va verso una tecnocrazia salvaguardando della democrazia solo più alcuni aspetti formali, o meglio di facciata.

Aggiungo che, da decenni, si è imposto un liberismo che affida agli automatismi del mercato le risposte ai bisogni dei cittadini ridotti alla sola dimensione di “consumatori”. L’individualismo spinto che ne è conseguito ha allentato i legami interpersonali facendo venir meno quella coesione sociale indispensabile per la vita democratica. La frammentazione che ne deriva conduce gli individui ad esprimere domande assai diversificate e contraddittorie, comunque difficilmente aggregabili in progetti. Senza di questi, è la stessa politica che muore, poiché, quella vera, è fatta di progetti.

Un po’ ovunque si cerca di arginare questi fenomeni negativi tentando nuove vie. Fra queste, troviamo le primarie a cui si assegna il compito di dare voce a larghe fasce di persone (i simpatizzanti) per designare i vertici dei partiti e i candidati ai vari appuntamenti elettorali. Il modello è quello americano dove le primarie si sono imposte da molto tempo. Nel nostro Paese, è nel fronte progressista che il ricorso a questo mezzo trova maggiore considerazione, ma credo che si illudano quanti hanno fede in questo strumento per sanare la frattura fra i cittadini e il ceto politico, e per rivitalizzare i partiti.

A parte il fatto che le primarie sono, di massima, legate al sistema di voto maggioritario (che, a turno singolo o doppio che sia, ci dà organismi scarsamente rappresentativi del Paese), voglio ricordare quanto, ormai più di dieci anni fa, ebbe a dire, in un convegno presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Torino, Joseph La Palombara, docente emerito dell’Università di Yale, e uno dei maggiori politologi nordamericani.

La Palombara ha lamentato il declino della democrazia nel suo Paese perché ormai, a tutti i livelli, le elezioni e le decisioni politiche sono nelle mani delle lobby: fiumi di denaro circolano in casa democratica e repubblicana condizionando tutto. Fra le cause di questo declino della democrazia, ci sono innanzitutto le primarie, perché hanno innalzato, e continuano ad innalzare sempre più, il costo della attività politica: il denaro delle lobby è diventato determinante per ottenere la vittoria elettorale, a partire dalle primarie. Queste, inoltre, hanno contribuito a uccidere i partiti strutturati: costituiscono un evento, non connotano la vera partecipazione che richiede impegno continuativo e militanza. A che serve quest’ultima, si chiedeva La Palombara, se ogni decisione viene rimessa alle primarie?

Certo, nel nostro Paese, i finanziamenti delle lobby non sono ancora determinanti come negli USA, ma non si può trascurare un fatto. Su una platea di votanti alle primarie in larga misura formata di semplici simpatizzanti (che a differenza degli iscritti non sono partecipi dei dibattiti interni e della vita di partito) si fa sentire marcatamente l’influenza dei media, tutti o quasi riconducibili a gruppi economico-finanziari: ne risulta esaltato il condizionamento esercitato da tali portatori di interessi sulla vita politica.

Se si vuol riportare i cittadini alle urne, ci vuole ben altro: occorre ridare alla politica il suo ruolo, il suo primato sull’economia, fornendo ad essa gli strumenti necessari, il che significa rimettere in discussione la globalizzazione.

Guardare oltre casa nostra ci aiuta a comprendere le tendenze di ordine generale che sottendono i fenomeni politici che accadono da noi, e ci permette quindi di intraprendere un cammino adeguato in questo mondo in fase di profondo cambiamento.

Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi europei, si dovrebbe guardare con più attenzione a quanto accade in casa altrui. Si parla continuamente di unità europea, della necessità di dar vita a un matrimonio ritenuto vitale (ancorché mal visto a Washington), ma debbo costatare che i futuri sposi si conoscono poco e/o male. Perfino i Paesi in teoria più prossimi (Italia, Francia, Germania), per vicinanza geografica, storia, e cultura, si descrivono reciprocamente (nelle dichiarazioni di politici e nei media) ricorrendo a luoghi comuni, a pregiudizi stantii e ad una malevolenza frutto di astii stratificati nel tempo.

Per trovare un percorso comune e per individuare obiettivi compatibili con un serio processo unitario, occorre che i Paesi candidati al matrimonio si conoscano meglio, che ciascuno prenda in considerazione di ciascun altro la storia, la cultura, i contesti geopolitici in cui agiscono, e i sentimenti (e talora i pregiudizi) delle rispettive popolazioni. Raramente vedo e sento affrontare nei media tali argomenti. Quindi non mi meraviglio che detto cammino non proceda in alcuna direzione.

Infine, per noi italiani, c’è un altro aspetto da prendere in considerazione che ci dovrebbe spingere a guardare con più attenzione agli altri Paesi.

Si parla sempre di riforme necessarie che si fanno attendere da anni. Ora pur tenendo conto delle specificità di ogni nazione che non consentono la meccanica trasposizione di esperimenti ben riusciti altrove, credo sia sempre opportuno studiare quanto realizzato di valido negli altri Paesi in specie se ritenuto soddisfacente dai propri cittadini.

Un caso che mi pare evidente riguarda la riforma della giustizia. Quella italiana non solo è giudicata negativamente dai cittadini e dagli utenti per i tempi lunghissimi che caratterizzano i procedimenti, ma anche si colloca molto in basso nelle valutazioni internazionali redatte da vari Enti. Ad esempio, la Banca Mondiale, scrive Michele Ainis in La Costituzione e i suoi nemici, ha classificato l’Italia al 156° posto su 181 Paesi presi in considerazione in tema di giustizia civile.

Giovanni Falcone (vedi Chi ha paura muore ogni giorno di Giuseppe Ayala) riteneva che, per conferire efficienza alla macchina giudiziaria, fossero indispensabili alcune modifiche riguardanti in particolare il superamento dell’unicità delle carriere tra magistrati giudicanti e inquirenti, la riduzione a due dei tre gradi di giudizio, la revisione dei poteri del Guardasigilli ritenuti quasi inesistenti, e una valutazione dell’operato dei magistrati che non fosse autoreferenziale. Alle specifiche motivazioni portate a sostegno delle richieste di cambiamento, aggiungeva che, tra quanto occorre modificare, ci sono cose che non trovano corrispondenza negli ordinamenti dei più importanti Paesi occidentali. Quindi in questo caso sarebbe cosa buona guardarsi intorno.

E altrettanto lo sarebbe riguardo al premierato voluto da Giorgia Meloni, visto che, oltre alle condivisibili argomentazioni critiche ben espresse da Aldo Novellini qui su “Rinascita popolare” (CLICCA QUI), un tale istituto non è presente in alcun altro Paese. E, dove è stato introdotto (Israele), è subito stato accantonato per il suo mal funzionamento.


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