Medio Oriente, problema insolubile



Giuseppe Ladetto    29 Giugno 2024       1

In aprile, il lancio di droni e missili su Israele da parte di Teheran (in seguito al bombardamento israeliano del suo consolato a Damasco) e la successiva risposta di Tel Aviv hanno subito allontanato l’attenzione dei media e del mondo politico occidentale da ciò che accadeva a Gaza e in Cisgiordania con sollievo di quanti mal tolleravano le accuse di una significativa parte dell’opinione pubblica nei confronti della violenza israeliana. Certamente c’è stata la strage compiuta da Hamas nell’ottobre scorso, ma l’indignazione per questo brutale atto non basta a giustificare la sproporzionata risposta di Tel Aviv.

Quindi, lo sguardo è stato subito spostato sul contributo dei Paesi arabi “moderati” alla difesa del territorio israeliano mediante l’intercettazione dei missili e droni iraniani da parte giordana, o con il soccorso dell’intelligence saudita. Di qui, il riemergere di un interessamento per quegli accordi di Abramo del 2020, promossi da Trump, con i quali sono state stabilite relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, accordi, successivamente estesi al Bahrein, volti a porre le basi di una intesa tra i Paesi arabi moderati e Israele in funzione antiraniana.

Nel corso dello stesso anno, Trump aveva messo in campo il progetto Peace to prosperity per la definitiva soluzione del “problema palestinese”. Con esso, a Israele sarebbe stato riconosciuto il possesso di Gerusalemme est e di parte consistente della Cisgiordania occupata dai coloni; al costituendo Stato palestinese, oltre a quanto rimasto della Cisgiordania e a Gaza (collegata alla Cisgiordania con un treno ad alta velocità) sarebbero state date in cambio alcune parti del Neghev israeliano; soprattutto per lo Stato palestinese erano previsti finanziamenti economici per il suo sviluppo.

Tuttavia, detto piano è stato respinto dalle autorità palestinesi, mal accolto dalla maggioranza dei Paesi arabi e guardato con sospetto in Europa e negli stessi USA.

Venendo a tempi più prossimi, il veto americano posto in Consiglio di Sicurezza alla risoluzione proposta dall’Algeria, tesa a riconoscere la piena adesione alle Nazioni Unite di uno Stato palestinese, è stato motivato con la necessità che un tale passo dovesse essere preceduto da un accordo tra Israele e i Paesi arabi moderati. È chiaramente un segnale che va nella direzione di quell’intesa sopra ricordata.

I vari responsabili dei Paesi europei e lo stesso presidente americano Biden hanno ribadito (come peraltro formalmente prevedeva il progetto di Trump) la necessità di creare uno Stato palestinese, ritenuto importante per la stessa sicurezza di Israele (che resta sempre il primo obiettivo indicato). Ma in tema, tutti sono stati molto generici (a parte il premier spagnolo Sanchez). Nessuno ci dà lumi su quali potranno essere i confini di detto Stato, di quale natura esso sarà, di quali risorse potrà disporre.

Sarebbe bene che si facesse chiarezza in proposito rifacendosi a dati quantitativi, a numeri che illustrino la situazione, senza i quali, i propositi, le buone intenzioni, e le dichiarazioni restano solo parole al vento.

Uno Stato palestinese credibile con la capacità di sostenere 5 milioni di abitanti (senza considerare i molti profughi che da anni bivaccano stentatamente nei Paesi limitrofi) richiederebbe non meno dell’insieme dei territori occupati più Gaza (6025 kmq con 800 abitanti/kmq).

Ma chiediamoci quale governo israeliano accetterà (malgrado le indicazioni dell’ONU e gli accordi di Oslo) di rientrare nei confini precedenti la Guerra dei sei giorni (che è bene ricordare già comprendevano il 78% del territorio che fu sotto mandato britannico), e altrettanto quale governo avrà la volontà o sarà in grado di richiamare i quasi 800.000 coloni stanziatisi in Cisgiordania. Inoltre, gli Stati Uniti saranno disposti ad imporre ad Israele tali passi o saranno capaci di farlo?

Che cosa resta allora di un ipotizzato Stato palestinese?

Temo che si riduca a quanto prevede il progetto trumpiano, totalmente sbilanciato a favore di Israele: questo di fatto si risolve nella creazione di enclave affidate a leader, ben foraggiati economicamente, acquiescenti alle indicazioni di un qualche comitato ad hoc proposto dai firmatari di un accordo tra Israele e i Paesi arabi “moderati”. Nell’ipotesi migliore, soldi potrebbero andare anche a programmi di sostegno della popolazione palestinese e/o servire per il suo inserimento in Paesi limitrofi opportunamente a tal fine finanziati. In fondo, i più pensano che col denaro si possa comprare tutto, anche la rinuncia dei palestinesi al sogno di un proprio credibile Stato.

Si dirà che comunque si tratterebbe di un primo passo, ma sempre il primo passo indica la direzione del cammino che si vuole intraprendere, e questo cammino non va nella direzione auspicata di due Stati per due popoli su un piano di pari dignità e sicurezza.

Un altro interrogativo riguarda la solidità e le prospettive dell’alleanza fra Israele e i Paesi arabi moderati, alleanza posta alla base di un nuovo assetto del Medio Oriente.

La Giordania ha partecipato all’intercettazione dei missili e dei droni iraniani diretti contro Israele. Voglio ricordare che più della metà (il 60%) degli 11 milioni di abitanti della Giordania è composta da rifugiati palestinesi (in seguito alle guerre arabo-israeliane del 1948-49 e 1967) o da loro discendenti. Chiediamoci quali possano essere i loro sentimenti nei confronti di un governo che si schiera a difesa di Israele mentre vengono massacrati a Gaza parenti, amici e persone sentite come fratelli. Re Abd Allah II può contare sul suo esercito composto da beduini da sempre fedeli alla dinastia, ma non è in tal modo che si potrà sostenere nel tempo una linea politica invisa alla maggioranza del Paese. È vero che molti giordani vogliono evitare che Amman subisca quanto è avvenuto a Gaza. È lo stesso timore che spinge la popolazione libanese alla prudenza. Tuttavia non è sulla paura che può reggersi a lungo un nuovo equilibrio.

Gli emirati del Golfo Persico (Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti), con complessivamente 14 milioni di abitanti (19 con l’Oman), sono Paesi ricchi di risorse petrolifere e con elevato PIL per abitante (in possesso della cittadinanza), tutti retti da sovrani che lasciano ben poco margine di azione alle assemblee elettive. La popolazione araba di detti emirati è in larghissima maggioranza sunnita, eccetto quella del Bahrein (Paese che ospita una delle più importati basi americane dell’area) che è invece pressoché tutta di religione sciita. Il Qatar, sunnita, tuttavia mantiene ottime relazioni con l’Iran sciita. Ho lasciato da parte l’Oman che si è sempre tenuto fuori dalle dispute regionali. Caratteristica comune a tutti gli emirati è la presenza di un rilevante numero di immigrati “non arabi” in prevalenza di sesso maschile, pari o superiore a quello dei cittadini di etnia araba, che svolgono le basilari attività lavorative. Ovunque esiste una forte polarizzazione sociale tra cittadini e immigrati, e non mancano le tensioni.

Ora, alla luce di quanto descritto, non mi sembra che tali Paesi nell’insieme possano costituire un solido pilastro in uno schieramento antiraniano.

Tale pilastro può essere rappresentato solo dall’Arabia Saudita, con i suoi 32 milioni di abitanti (comprensivi dei 13 milioni di lavoratori stranieri non arabi). Ma un Paese in cui ha sede il principale sito religioso islamico (La Mecca), condiviso da sunniti e sciiti, fino a che punto può spingersi, per giunta in alleanza con Israele, in una contesa che spacchi il mondo islamico?

Sunniti e sciiti sono divisi fin dal tempo seguito alla morte di Maometto, tuttavia bisognerebbe capire quanto sia profonda la frattura a fronte delle vicende attuali.

Mentre l’Isis (sunnita) continua a prendere di mira con attentati e azioni omicide le comunità sciite, altrove sembra essersi creata una qualche convivenza fra la due famiglie islamiche. Ricordo che Hamas è una formazione riconducibile al mondo sunnita, ma collabora con gli Hezbollà sciiti e con l’Iran (centro del mondo sciita); nel contempo, i Fratelli musulmani (sunniti) hanno messo da parte le ostilità con gli sciiti di fronte al nemico sionista e occidentale; infine, la Turchia sunnita (ostile fino a ieri alla dirigenza siriana degli Assad di religione alawita, una corrente sciita) si è schierata marcatamente contro Israele per quanto avviene a Gaza, e si mostra quindi ostile al piano Peace to prosperity, malgrado sia stata ipotizzata una sua collaborazione con Israele per lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo orientale.

Inoltre, siamo così sicuri che il fattore religioso sia quello più determinante nel definire schieramenti e alleanze in Medio Oriente? Ad esempio, l'Azerbaigian, Paese la cui popolazione è in larga maggioranza sciita, ha forti legami con Israele che lo ha armato e sostenuto nella guerra contro l’Armenia.

In un quadro di grande incertezza, le nazioni europee, che tutte hanno molteplici interessi nel mondo arabo e islamico, se si schierassero manifestamente a sostegno della predetta alleanza, non rischierebbero di precludersi o di indebolire spazi di azione in tale mondo? Credo, pertanto, che sia poco prudente scommettere sul successo della sopraddetta alleanza.

Certo, Israele è forte militarmente, sempre pronto ad usare la sua forza militare con la massima durezza e confida in tale deterrente, disponendo anche di armi nucleari. Ma è un Paese di pochi milioni di abitanti (circa 9,4 di cui il 26% non ebrei), e, ancorché tecnologicamente molto avanzato, non sopravviverebbe senza avere costantemente alle spalle la potenza americana. Tutto ciò quanto potrà durare?

Negli Stati Uniti è presente una tendenza isolazionista che non riguarda i soli repubblicani. Anche la composizione etnica del Paese d’oltre-atlantico muta con la progressiva crescita dell’immigrazione di latino americani, asiatici e africani, ciò che inevitabilmente indebolirà lo sguardo privilegiato per Israele. Inoltre, cambiano gli equilibri planetari per l’emergere di popolosi Paesi del Sud del mondo.

Quindi, sul lungo termine, la soluzione più vantaggiosa per tutti (Israele in primis) è ancora sempre quella di due Stati con pari dignità e possibilità di sussistenza.

Tuttavia, diversi analisti di fatti internazionali ritengono che le cose siano ormai andate troppo in là per poter realizzare un vero Stato palestinese (colonizzazione ebraica della Cisgiordania, esigenze di sicurezza di Israele che richiedono il mantenimento di posizioni strategiche, ecc.).

In questo caso, resterebbe un’alternativa, forse la più razionale. Creare, in quella che fu la Palestina sotto mandato britannico, uno Stato bi-nazionale in cui ebrei e arabi, ivi residenti, convivano avendo parità di diritti e di doveri, e possano considerare questa terra la loro casa per l’oggi e il domani. Ma la parità di diritti impone che non sia più possibile che ogni ebreo proveniente da ogni parte del mondo, giunto nel territorio dello Stato, abbia immediatamente la cittadinanza come avviene oggi. Infatti, secondo le vigenti leggi israeliane, lo Stato di Israele (Stato nazionale del popolo ebraico) è la patria di tutti gli ebrei, indipendentemente dalla loro provenienza (ciò che inevitabilmente conduce a un espansionismo territoriale). Invece, ai palestinesi profughi e ai loro discendenti ciò è negato, anzi è loro impedito di rimettere piede anche temporaneamente nella terra dei loro padri e nonni.

Si tratta quindi di una soluzione utopica, si dirà, perché ormai sono troppo profondi gli odi e i risentimenti fra le due comunità, e perché verrebbe meno la centralità di Israele come riferimento per il mondo ebraico. Ma se non si supereranno gli odi e i rancori, resterà preclusa ogni possibile soluzione. Circa la centralità di Israele per il mondo ebraico, rammento quanto ebbe a dire il grande Primo Levi quando ancora in Occidente nessuno criticava Tel Aviv per la sua condotta nei confronti dei palestinesi: “Bisogna che il baricentro dell’ebraismo si rovesci, torni fuori d’Israele, torni fra noi ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza”.

Se si continuerà a dire che la prima istanza è comunque sempre e solo la difesa di Israele, non si andrà da nessuna parte. D’altro canto, non vedo alcuna potenza a cui veramente prema dare una soluzione equa e sostenibile alle esigenze dei due popoli, perché tale obiettivo non interessa coloro che hanno come primo, o forse unico, scopo garantirsi la supremazia in Medio Oriente.


1 Commento

  1. Riflessione importante, attenta e precisa, in riferimento al variegato mondo arabo e al particolare “status” di Israele. La situazione in Medio Oriente è sempre più complessa. Azzardo che non vi può essere soluzione politica a conflitti di natura religiosa, indipendentemente dagli interessi in gioco e dal livello mediocre degli attori politici internazionali. Rifletto da tempo circa la soluzione di due stati per due popoli se sia intrinsecamente non risolutiva, la storia e il presente confermano molte perplessità. Aggiungo che il problema del terrorismo internazionale sia di matrice religiosa, sia sostenuto dagli “Stati canaglia” per ragioni diverse, si inserisce a gamba tesa in un contesto mediorientale polarizzato drammaticamente dal capo del governo israeliano in modo inaccettabile, anche per i suoi sostenitori. Va rilevato peraltro che affrontare terroristi mimetizzati tra la popolazione civile non è pari allo stanare terroristi nascosti nei rifugi montani isolati. Per il futuro opino che la questione “ebraico-palestinese” combinata con il “nuovo terrorismo” necessita di riflessioni più “avanzate”. Probabilmente riflettere sulla convivenza civile comune in territori condivisi può essere mutuata dal nostro tanto vituperato mondo occidentale, ove la “questione religiosa” è stata risolta da tempo, insieme alla “questione razziale e multirazziale”. Principio che deve valere per ogni popolo e per qualsivoglia stirpe religiosa. Significa anche ripensare certezze consolidate relative ad Israele. Senza dimenticarsi delle “Questioni Iran, Federazione Russa e Cina” tutt’altro che estranei al contesto mediorientale.

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