Da qualche tempo vediamo sempre più numerosi Paesi in Asia, Africa e America latina prendere le distanze dall’Occidente. Alle Nazioni Unite votano contro le proposte occidentali o si astengono; preferiscono nuovi partner in campo economico e commerciale; criticano apertamente il ruolo del dollaro e si propongono di sostituirlo con una nuova valuta negli scambi internazionali.
I media occidentali si interrogano sulle ragioni di questo atteggiamento e sulla crescente incomunicabilità con Paesi che raccolgono più della metà degli abitanti del pianeta, definiti appunto la “maggioranza mondiale” oppure talora il “non Occidente”.
C’è chi spiega la situazione parlando di contrapposizione tra liberaldemocrazie e Paesi variamente autocratici o comunque illiberali, ma non è proponibile assegnare una tale etichetta a Stati come India o Brasile. Altri attribuiscono il distacco dall’Occidente al ritardo culturale di Paesi che non hanno ancora raggiunto la piena modernità, ma anche in questo caso la diagnosi non vale per molti di essi. Sono motivazioni che non spiegano le ragioni di una vera e propria spaccatura culturale fra occidentali e non occidentali.
Non bisogna tuttavia trarre conclusioni affrettate perché la “maggioranza mondiale” non esprime ancora una comune visione del cammino da intraprendere: c’è chi vuole una drastica rottura dell’attuale ordine mondiale; altri Stati, cresciuti con la globalizzazione, hanno un atteggiamento revisionista di taglio riformista, e puntano a modificare detto ordine per ottenere un maggiore spazio, adeguato allo status raggiunto.
Oggi, comunque i Paesi della “maggioranza mondiale” (rivoluzionari o revisionisti) non sono più disposti a subire le rampogne di un Occidente sempre con il dito alzato a rimproverare chi non si conformi ai suoi “valori”, o non adotti le sue istituzioni, o non sia disponibile ad accettare quei sempre crescenti nuovi diritti e quelle novità (politicamente corretto, identità di genere, fantasie Lgbt, cancel culture, wokismo ecc.) che la società liberal va quotidianamente elaborando.
Tali Paesi rifiutano un mondo in cui alcuni pretendono di imporre le loro idee, di contare più degli altri e di avere sempre l’ultima parola. Tanto più che, se ieri l’Occidente era oggetto di imitazione per i suoi modi di vita, talora di invidia, sempre rispettato in quanto temuto, oggi è considerato da molti decadente e non è più un modello a cui fare riferimento. Inoltre, la credibilità occidentale in campo internazionale è attualmente del tutto svanita a fronte della parzialità più volte mostrata con l’adozione di due pesi e due misure in vicende oggettivamente censurabili (vedi quanto è avvenuto e avviene in Medio Oriente dove si giustifica qualunque cosa faccia Israele).
In argomento, ripropongo (ne ho già scritto in altro articolo) il pensiero dell’ancora cardinale Joseph Ratzinger quando afferma che sia indispensabile la dimensione interculturale per impostare la discussione delle questioni fondamentali sull’uomo, discussione che non può essere svolta puramente e semplicemente fra cristiani e neppure all’interno della sola tradizione occidentale della ragione. Entrambe le prospettive, secondo il cardinale, considerano come universale la loro autocomprensione mentre sono comprensibili soltanto in determinati settori dell’umanità. Nella società odierna, occorre la disponibilità di tutte le parti ad imparare e ad autolimitarsi. Nel confronto, non sono coinvolte solo la fede cristiana e la razionalità occidentale laica, anche se tutte e due caratterizzano fortemente la situazione mondiale: sarebbe una forma di hybris dell’Occidente che pagheremmo, e stiamo già pagando, a caro prezzo. Occorre che la cultura occidentale sia pronta ad ascoltare le altre culture e a mettersi in correlazione con esse.
Sono parole che credo avesse presenti Giuseppe Davicino quando ha scritto (in un recente articolo qui su “Rinascita popolare”) che occorre ripensare il carattere universale dei valori e dei diritti espressi dalle Nazioni Unite. Infatti, (aggiungo io) sono stati elaborati in un momento storico in cui negli organismi internazionali si faceva riferimento alla sola cultura occidentale.
In un articolo di Romano Ferrari Zumbini, L’Occidente nella trappola del narciso, pubblicato su “Limes” del maggio 2022, lo storico attribuisce la responsabilità di questa spaccatura alla componente culturale che l’Occidente ha ereditato dall’illuminismo. Ferrari Zumbini riconosce il debito che la civiltà europea (e più in generale occidentale) ha nei confronti dell’illuminismo, da cui ha ricevuto benefici innegabili. Tuttavia, l’illuminismo assunto in dosi massicce può rendere difficile la visione della realtà ed impedire a noi occidentali di metterci nella testa degli altri. In tal modo, può essere causa della frattura con il resto del mondo. In nome della ragione, della scienza e della tecnologia, la società occidentale si compiace di vivere senza limiti, senza confini e si proietta in avanti senza più guardare al passato. Il nuovo è garanzia di migliore.
L’insegnamento della storia è stato umiliato, ma, scrive Ferrari Zumbini, una società che non si cura della propria memoria perde gli appigli dell’oggettività e la capacità di giudicare, privilegiando narcisisticamente la propria visione delle cose. Così l’Occidente pretende di imporre istituzioni estranee al pensiero di popolazioni che hanno alle spalle percorsi che nulla hanno a che fare con quelli occidentali. Trapianti forzati che non tengono conto della storia dei popoli a cui si vuole imporre la liberaldemocrazia.
Per molti, è inammissibile ogni riferimento critico all’illuminismo, che ha ispirato le carte dei valori e dei diritti alla base della più parte delle costituzioni delle nazioni occidentali. Si dimentica la critica ben più radicale del processo di sviluppo della storia innescato dall’illuminismo fatta da Max Horkhaimer e Theodor Adorno in Dialettica dell’illuminismo. Per i due filosofi, il progetto illuminista di promozione dell’autodeterminazione razionale degli esseri umani si è risolto nel suo opposto perché la ragione scientifica, tesa a dominare il mondo della natura, ha invece reso, con lo sviluppo della tecnologia, l’uomo e la vita umana oggetti di dominio e di manipolazione.
Ma per ora mettiamo da parte l’illuminismo, se pure sia legittimo attribuirgli qualche responsabilità per la presunzione di superiorità culturale di cui gli occidentali si compiacciono, e che utilizzano per giustificare le proprie azioni anche quando manifestamente scorrette.
In Occidente, è soprattutto l’America a considerare suo storico compito assumere la guida del pianeta, ritenendosi la “nazione eletta”, prescelta da un insindacabile destino. Una convinzione che viene da lontano, da una distorta lettura del Vecchio Testamento per la quale i padri pellegrini, fuggiti dall’Europa (terra del faraone), si ritenevano il popolo prediletto dal Signore, incaricato di costruire una nuova Israele nel nuovo continente. Questa presunzione è rimasta presente ed impronta ancora oggi la mentalità americana, sebbene, da quel tempo, ondate di molteplici genti di varia provenienza siano venute a formare la popolazione statunitense,
Tuttavia, per quanto le visioni ideologiche ed i riferimenti di ordine culturale abbiano grande importanza nel determinare i comportamenti di singoli soggetti, di comunità, e di nazioni, altri fattori contribuiscono alla creazione della frattura fra i paesi occidentali e il resto del mondo.
Certamente il risentimento nei confronti degli occidentali e il senso di rivalsa per quanto subito in epoca coloniale e neocoloniale incidono sull’atteggiamento di quei Paesi un tempo assoggettati alle potenze dominanti. Non dimentichiamo che il livello di vita e gli standard di consumi dei Paesi occidentali sono stati resi possibili ad opera del vecchio e nuovo colonialismo con la rapina delle risorse dei Paesi “arretrati”, e gli scambi ineguali intrattenuti con essi. Ancora oggi, per l’economia dell’Europa, sono indispensabili le materie prime e le risorse energetiche fornite dai Paesi del Sud del pianeta, parecchi dei quali hanno raggiunto uno stadio di sviluppo che, se non ancora prossimo al nostro, tuttavia consente ad essi di far valere i propri interessi. Ne nascono tensioni, in specie con quei Paesi europei che sono stati protagonisti del periodo coloniale.
C’è poi il caso America, una nazione che, con il 4,2% della popolazione mondiale, consuma almeno un quarto delle risorse planetarie. Sebbene il sistema economico-produttivo americano disponga ancora di un alto livello tecnologico ed organizzativo, la sua capacità di rispondere all’enorme domanda di consumi espressa dalla nazione deriva principalmente dalla rendita finanziaria assicurata dalla posizione di dominio del dollaro. Tuttavia larga parte dei Paesi del mondo, e in particolare quelli emergenti, o già decisamente “emersi” come la Cina, non sono più disponibili ad accettare questa situazione.
A spiegazione del contrasto fra i nuovi Paesi entrati sulla scena internazionale e quelli occidentali, va ridimensionato il peso della componente ideologica e quello della frattura tra culture e civiltà. Pur essendo elementi presenti, questi vengono eccessivamente sottolineati da un Occidente che utilizza strumentalmente la sedicente superiorità dei propri valori per difendere o cercare di mantenere i privilegi acquisiti in un’epoca ormai sorpassata.
Il contesto internazionale sta cambiando. Sul terreno demografico, certo non marginale nel definire gli equilibri, da un tempo (1900) in cui la popolazione di Europa e Nord America rappresentava circa un terzo degli abitanti del pianeta, questa, oggi, si colloca intorno al 13%, percentuale in progressiva ulteriore diminuzione.
Si sta andando verso un mondo multipolare. Cercare di arrestare tale inevitabile processo, può solo accrescere l’instabilità di vaste aree e i rischi di nuove guerre sempre più estese.
I media occidentali si interrogano sulle ragioni di questo atteggiamento e sulla crescente incomunicabilità con Paesi che raccolgono più della metà degli abitanti del pianeta, definiti appunto la “maggioranza mondiale” oppure talora il “non Occidente”.
C’è chi spiega la situazione parlando di contrapposizione tra liberaldemocrazie e Paesi variamente autocratici o comunque illiberali, ma non è proponibile assegnare una tale etichetta a Stati come India o Brasile. Altri attribuiscono il distacco dall’Occidente al ritardo culturale di Paesi che non hanno ancora raggiunto la piena modernità, ma anche in questo caso la diagnosi non vale per molti di essi. Sono motivazioni che non spiegano le ragioni di una vera e propria spaccatura culturale fra occidentali e non occidentali.
Non bisogna tuttavia trarre conclusioni affrettate perché la “maggioranza mondiale” non esprime ancora una comune visione del cammino da intraprendere: c’è chi vuole una drastica rottura dell’attuale ordine mondiale; altri Stati, cresciuti con la globalizzazione, hanno un atteggiamento revisionista di taglio riformista, e puntano a modificare detto ordine per ottenere un maggiore spazio, adeguato allo status raggiunto.
Oggi, comunque i Paesi della “maggioranza mondiale” (rivoluzionari o revisionisti) non sono più disposti a subire le rampogne di un Occidente sempre con il dito alzato a rimproverare chi non si conformi ai suoi “valori”, o non adotti le sue istituzioni, o non sia disponibile ad accettare quei sempre crescenti nuovi diritti e quelle novità (politicamente corretto, identità di genere, fantasie Lgbt, cancel culture, wokismo ecc.) che la società liberal va quotidianamente elaborando.
Tali Paesi rifiutano un mondo in cui alcuni pretendono di imporre le loro idee, di contare più degli altri e di avere sempre l’ultima parola. Tanto più che, se ieri l’Occidente era oggetto di imitazione per i suoi modi di vita, talora di invidia, sempre rispettato in quanto temuto, oggi è considerato da molti decadente e non è più un modello a cui fare riferimento. Inoltre, la credibilità occidentale in campo internazionale è attualmente del tutto svanita a fronte della parzialità più volte mostrata con l’adozione di due pesi e due misure in vicende oggettivamente censurabili (vedi quanto è avvenuto e avviene in Medio Oriente dove si giustifica qualunque cosa faccia Israele).
In argomento, ripropongo (ne ho già scritto in altro articolo) il pensiero dell’ancora cardinale Joseph Ratzinger quando afferma che sia indispensabile la dimensione interculturale per impostare la discussione delle questioni fondamentali sull’uomo, discussione che non può essere svolta puramente e semplicemente fra cristiani e neppure all’interno della sola tradizione occidentale della ragione. Entrambe le prospettive, secondo il cardinale, considerano come universale la loro autocomprensione mentre sono comprensibili soltanto in determinati settori dell’umanità. Nella società odierna, occorre la disponibilità di tutte le parti ad imparare e ad autolimitarsi. Nel confronto, non sono coinvolte solo la fede cristiana e la razionalità occidentale laica, anche se tutte e due caratterizzano fortemente la situazione mondiale: sarebbe una forma di hybris dell’Occidente che pagheremmo, e stiamo già pagando, a caro prezzo. Occorre che la cultura occidentale sia pronta ad ascoltare le altre culture e a mettersi in correlazione con esse.
Sono parole che credo avesse presenti Giuseppe Davicino quando ha scritto (in un recente articolo qui su “Rinascita popolare”) che occorre ripensare il carattere universale dei valori e dei diritti espressi dalle Nazioni Unite. Infatti, (aggiungo io) sono stati elaborati in un momento storico in cui negli organismi internazionali si faceva riferimento alla sola cultura occidentale.
In un articolo di Romano Ferrari Zumbini, L’Occidente nella trappola del narciso, pubblicato su “Limes” del maggio 2022, lo storico attribuisce la responsabilità di questa spaccatura alla componente culturale che l’Occidente ha ereditato dall’illuminismo. Ferrari Zumbini riconosce il debito che la civiltà europea (e più in generale occidentale) ha nei confronti dell’illuminismo, da cui ha ricevuto benefici innegabili. Tuttavia, l’illuminismo assunto in dosi massicce può rendere difficile la visione della realtà ed impedire a noi occidentali di metterci nella testa degli altri. In tal modo, può essere causa della frattura con il resto del mondo. In nome della ragione, della scienza e della tecnologia, la società occidentale si compiace di vivere senza limiti, senza confini e si proietta in avanti senza più guardare al passato. Il nuovo è garanzia di migliore.
L’insegnamento della storia è stato umiliato, ma, scrive Ferrari Zumbini, una società che non si cura della propria memoria perde gli appigli dell’oggettività e la capacità di giudicare, privilegiando narcisisticamente la propria visione delle cose. Così l’Occidente pretende di imporre istituzioni estranee al pensiero di popolazioni che hanno alle spalle percorsi che nulla hanno a che fare con quelli occidentali. Trapianti forzati che non tengono conto della storia dei popoli a cui si vuole imporre la liberaldemocrazia.
Per molti, è inammissibile ogni riferimento critico all’illuminismo, che ha ispirato le carte dei valori e dei diritti alla base della più parte delle costituzioni delle nazioni occidentali. Si dimentica la critica ben più radicale del processo di sviluppo della storia innescato dall’illuminismo fatta da Max Horkhaimer e Theodor Adorno in Dialettica dell’illuminismo. Per i due filosofi, il progetto illuminista di promozione dell’autodeterminazione razionale degli esseri umani si è risolto nel suo opposto perché la ragione scientifica, tesa a dominare il mondo della natura, ha invece reso, con lo sviluppo della tecnologia, l’uomo e la vita umana oggetti di dominio e di manipolazione.
Ma per ora mettiamo da parte l’illuminismo, se pure sia legittimo attribuirgli qualche responsabilità per la presunzione di superiorità culturale di cui gli occidentali si compiacciono, e che utilizzano per giustificare le proprie azioni anche quando manifestamente scorrette.
In Occidente, è soprattutto l’America a considerare suo storico compito assumere la guida del pianeta, ritenendosi la “nazione eletta”, prescelta da un insindacabile destino. Una convinzione che viene da lontano, da una distorta lettura del Vecchio Testamento per la quale i padri pellegrini, fuggiti dall’Europa (terra del faraone), si ritenevano il popolo prediletto dal Signore, incaricato di costruire una nuova Israele nel nuovo continente. Questa presunzione è rimasta presente ed impronta ancora oggi la mentalità americana, sebbene, da quel tempo, ondate di molteplici genti di varia provenienza siano venute a formare la popolazione statunitense,
Tuttavia, per quanto le visioni ideologiche ed i riferimenti di ordine culturale abbiano grande importanza nel determinare i comportamenti di singoli soggetti, di comunità, e di nazioni, altri fattori contribuiscono alla creazione della frattura fra i paesi occidentali e il resto del mondo.
Certamente il risentimento nei confronti degli occidentali e il senso di rivalsa per quanto subito in epoca coloniale e neocoloniale incidono sull’atteggiamento di quei Paesi un tempo assoggettati alle potenze dominanti. Non dimentichiamo che il livello di vita e gli standard di consumi dei Paesi occidentali sono stati resi possibili ad opera del vecchio e nuovo colonialismo con la rapina delle risorse dei Paesi “arretrati”, e gli scambi ineguali intrattenuti con essi. Ancora oggi, per l’economia dell’Europa, sono indispensabili le materie prime e le risorse energetiche fornite dai Paesi del Sud del pianeta, parecchi dei quali hanno raggiunto uno stadio di sviluppo che, se non ancora prossimo al nostro, tuttavia consente ad essi di far valere i propri interessi. Ne nascono tensioni, in specie con quei Paesi europei che sono stati protagonisti del periodo coloniale.
C’è poi il caso America, una nazione che, con il 4,2% della popolazione mondiale, consuma almeno un quarto delle risorse planetarie. Sebbene il sistema economico-produttivo americano disponga ancora di un alto livello tecnologico ed organizzativo, la sua capacità di rispondere all’enorme domanda di consumi espressa dalla nazione deriva principalmente dalla rendita finanziaria assicurata dalla posizione di dominio del dollaro. Tuttavia larga parte dei Paesi del mondo, e in particolare quelli emergenti, o già decisamente “emersi” come la Cina, non sono più disponibili ad accettare questa situazione.
A spiegazione del contrasto fra i nuovi Paesi entrati sulla scena internazionale e quelli occidentali, va ridimensionato il peso della componente ideologica e quello della frattura tra culture e civiltà. Pur essendo elementi presenti, questi vengono eccessivamente sottolineati da un Occidente che utilizza strumentalmente la sedicente superiorità dei propri valori per difendere o cercare di mantenere i privilegi acquisiti in un’epoca ormai sorpassata.
Il contesto internazionale sta cambiando. Sul terreno demografico, certo non marginale nel definire gli equilibri, da un tempo (1900) in cui la popolazione di Europa e Nord America rappresentava circa un terzo degli abitanti del pianeta, questa, oggi, si colloca intorno al 13%, percentuale in progressiva ulteriore diminuzione.
Si sta andando verso un mondo multipolare. Cercare di arrestare tale inevitabile processo, può solo accrescere l’instabilità di vaste aree e i rischi di nuove guerre sempre più estese.
L’articolata riflessione di Giuseppe Ladetto pone al centro l’urgenza di una iniziativa per superare la crescente divaricazione culturale e sistemica fra Occidente e Resto del Mondo, tra the West and the Rest, come direbbe Niall Ferguson.
In particolare va superato il doppio standard di giudizio, riconoscendo l’esistenza di una pluralità di forme attraverso le quali gli stati garantiscono il rispetto e l’attuazione dei valori universali sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite. È finito il tempo in cui qualcuno pensava di poter rivendicare la primogenitura a tal riguardo. Questo cambio di mentalità appare necessario indipendentemente da come vanno le cose in Europa. Può darsi che il nostro continente finirà per rimanere impantanato a lungo nella sempre meno sostenibile guerra ucraina. Intanto però il mondo sta cambiando nel segno di un nuovo multilateralismo cooperativo e inclusivo.
È auspicabile che i nuovi vertici dell’Unione Europea che verranno definiti in seguito alle elezioni di giugno, sappiano rendere l’Europa uno dei poli di questo nuovo ordine internazionale. Per la prima volta nella storia a guidare la nuova agenda ONU, con la conferenza di settembre sul Patto per il Futuro, sarà prevalentemente il Resto del Mondo. A maggior ragione l’Europa e l’intero Occidente dovranno porsi l’obiettivo di contribuire all’affermazione di relazioni fondate sulla pari dignità e sul reciproco vantaggio fra le nazioni della terra. Sarebbe illusorio infatti, credere di poter fermare l’affermarsi di questo nuovo ordine globale con la guerra o con il disaccoppiamento delle catene di approvvigionamento. In questo senso all’Italia spetta un ruolo riconosciuto di primaria importanza nel ragionare insieme ai nostri alleati nelle sedi opportune sulla necessità di intraprendere opzioni diverse da quella bellica per favorire una transizione geopolitica il più possibile incruenta nel passaggio dall’unilateralismo ad un multicentrismo cooperativo, ancorato alle Nazioni Unite. Il mondo è diventato così interconnesso come non mai, e l’Occidente potrebbe commettere un errore fatale se cedesse alla tentazione di autoisolarsi, anziché superare le barriere culturali e economiche con il Resto del Mondo.
Ciò riguarda in particolare l’Europa che è l’unico continente non autosufficiente, e senza gli interscambi con l’Africa e l’Asia non potrebbe sopravvivere. Senza una soluzione diplomatica per le guerre in Ucraina e in Terra Santa, l’Europa rischia di venire trascinata in un gorgo di guerre che possono allargare le distanze con gli altri blocchi geopolitici. I vicini Balcani sono sempre pronti a riaccendersi e le tensioni in un altro Paese di frontiera come la Georgia sono tornate a un livello molto preoccupante.
L’Europa deve ambire a diventare un laboratorio del Patto per il Futuro, chiudendo al più presto la questione ucraina attraverso una soluzione diplomatica che ne riaffermi la neutralità, e dimostrando che quando si giunge a un reciproco riconoscimento fra i principali attori globali, anche i conflitti più annosi e complessi possono trovare una loro soluzione.
La presunta attuale “antipatia” dell’Occidente non è un destino, essa appare piuttosto come il risultato di strategie non sempre lungimiranti perseguite in questo secolo più per cercare di prolungare con ogni mezzo, compreso la guerra, le posizioni di rendita dei pochi che si trovavano ai vertici del sistema economico e finanziario a egemonia occidentale piuttosto che per affermare il bene comune dell’umanità e degli stessi popoli europei e occidentali.
Si è ancora in tempo a rendere l’Occidente uno dei perni del nuovo ordine internazionale a condizione che si interpreti la perdita dell’egemonia globale non come una lesa maestà ma come una chance per collaborare insieme agli altri blocchi geopolitici – che non sono più rigidi ma “fluidi”, con molti Paesi che praticano il “multi-allineamento” – alla costruzione di un nuovo sistema di governance globale più adeguato ai tempi, più giusto e inclusivo.
Interessanti i due commenti sull’Occidente antipatico, anche se penso che non ci siano solo questioni di rivalsa contro l’occidente, rivalsa per esempio da sempre presente nel Sudamerica, ma anche un desiderio di dominio o di sostituzione di dominio. Non fanno così l’attuale Russia o la Cina? Nei due commenti personalmente trovo che manca una visione trascendente della storia, come se questa fosse esclusivo appannaggio delle persone, mentre non lo è. E questo perché credo che il potere, quando ben usato, è forse il più alto modo di onorare il Padre, dal quale proviene ogni potere e che quindi come tale non è proprietà esclusiva, ma a disposizione di tutti e ha un fine da realizzare e quindi è un mezzo che deve essere utilizzato appunto per il bene di tutti. Quel che si osserva invece è che in campo politico-economico-culturale-religioso il potere è spesso il solo, il vero ed unico fine e non solo in occidente.
Quanto ha scritto Ladetto ( ed ha confermato Davicino nel suo commento) non è altro che una fotografia nitida della realtà odierna. E il modo in cui Ladetto la commenta e cerca di trovare una via che stia bene a tutti è puro buonsenso, realismo politico e…. quindi cercando il bene comune anche carità cristiana. Il resto sono chiacchiere fuori tempo e fuori luogo.