Governare l’Italia è sempre stato complicato. Di questi tempi ancora di più.
Lo sa bene anche Giorgia Meloni, che stupida non è. Tutt’altro. Dopo aver vinto le elezioni con un consenso per il suo partito del 26% degli italiani recatisi ai seggi, quindi di circa il 15% dell’intero corpo elettorale (considerati astensionismo e voto non espresso al 41%), ha capito che per non andare subito a sbattere avrebbe dovuto riporre nel cassetto le varie scemenze della propaganda sovranista – sue e dell’alleato/concorrente Salvini – e mettere due punti fermi: cieca fedeltà atlantica di fronte ai sommovimenti mondiali e alla guerra ucraina, piena condivisione della politica europea di stampo governativo, burocratico e subalterno alla NATO interpretata dalla Von der Leyen. Poi è vero che con l’Europa il rapporto resta conflittuale su diversi tavoli (vedi il MES, la revisione del Patto di stabilità, le politiche verso i migranti) anche perché la Premier è lacerata tra due opposte esigenze: da un lato, non vuole lasciare campo libero a Salvini nell’elettorato antieuropeista, in genere formato da corporazioni agguerrite (ambulanti, balneari, tassisti ecc.); dall’altro, l’Italia non può correre il rischio di veder sfumare i 200 miliardi del PNRR, vincolati a un percorso virtuoso fatto anche di riforme indigeste all’elettorato di riferimento.
Quando manca un progetto di larghe e lunghe vedute, e ci si muove solo ragionando di piccole e immediate convenienze di bottega – il discorso non vale solo per il Governo Meloni ma parte purtroppo da più lontano –, i passi di chi guida le sorti del Paese non possono che essere incoerenti e incerti.
Da affrontare ci sono questioni come il ritorno della guerra in Europa e nel vicino Oriente palestinese, pezzi a noi vicini di quella Terza guerra mondiale provocata dal rapido modificarsi degli equilibri globali e denunciata da papa Francesco; come il cambiamento climatico e l’esplosione demografica nel Sud del mondo con i conseguenti epocali fenomeni migratori; come le inaccettabili diseguaglianze economiche e sociali generate dal turbocapitalismo finanziario; come – passando all’Italia – un debito pubblico superiore ai 2800 miliardi; come il crollo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione destinati a mettere in crisi il sistema sanitario e previdenziale. Di fronte a tali scenari potrebbero tremare i polsi anche a statisti della levatura di Degasperi e De Gaulle. Non sembrano invece impensieriti i politicanti del teatrino mediatico odierno, più preoccupati dal “meno zero virgola uno” nel sondaggio settimanale: concentrati sul loro particulare e incuranti del contesto, come i musici dell’orchestrina sul Titanic o i capponi litigiosi di Renzo Tramaglino.
Penso tuttavia che la Meloni si renda ben conto delle difficoltà da affrontare. Così come sarà consapevole di essere circondata da una classe dirigente per la quale viene difficile scegliere un aggettivo: direi che “imbarazzante” sia il più appropriato. Donzelli e Delmastro, il cognato Lollobrigida e Sangiuliano, la Santanché (ministro...) e La Russa (seconda carica della Repubblica...), il pistolero Pozzolo, sono per un verso o per l’altro la plateale dimostrazione di inadeguatezza al ruolo istituzionale ricoperto. Aggiungiamoci la mai sopita questione morale (ultimo arrivato nella lunga lista del malaffare il clan Verdini, non proprio una sorpresa…) e possiamo essere certi che pure il governo di destra è destinato a fallire. Probabilmente anche Giorgia lo pensa. E, non riuscendo a risollevare l’economia, a contenere i migranti, a migliorare sanità e istruzione, distoglie l’attenzione dalla realtà e butta sul tavolo un’arma di distrazione di massa, quella che ha definito “la madre di tutte le riforme”: il premierato.
Abbiamo già pubblicato articoli che spiegano bene i limiti e i pericoli di questa pasticciata proposta di riforma costituzionale (CLICCA QUI, QUI, QUI e QUI) e avremo modo di approfondire le ragioni di un NO convinto e militante, che dovrebbe compattare tutti i Popolari (non Renzi, che di sturziano non ha nulla).
Ora vorrei dare una risposta al perché di una simile, dirompente, iniziativa politica.
L’obiettivo da colpire è il punto d’equilibrio del nostro sistema democratico, il Presidente della Repubblica. Sino ad ora gli sforzi di chi lavora per modificare la Carta costituzionale in senso autoritario si sono concentrati sul gettare discredito e delegittimare il Parlamento: missione riuscita! Con leggi maggioritarie che hanno via via escluso dalla rappresentanza crescenti fette di elettorato; con i “nominati”, fedeli esecutori selezionati sulla base della fedeltà al capo partito e non sul merito (chi è capace può fare ombra…); con la deriva populista che ha portato a negare il ruolo pubblico dei partiti ormai ridotti a comitati elettorali, a ridurre drasticamente il numero dei rappresentanti, a trasformare il dibattito politico in un’arena mediatica in cui conta solo spararla grossa alla ricerca di un like della propria claque, per mantenere il potere e, per molti, garantirsi gli affari.
Ogni anno che passa le Camere hanno un ruolo sempre più marginale: non più “parlamento”, luogo di discussione, confronto e mediazione per creare leggi capaci di affrontare la realtà in cambiamento, ma stucchevole teatrino di contrapposizione preconcetta prima degli abituali “voti di fiducia” a scatola chiusa sui decreti-legge del Governo.
Questo andazzo, va detto chiaramente, non appartiene solo alla destra, ma è stato comune a tutti i governi delle ultime legislature, tecnici e no. In parte si spiega con la scarsa qualità dei Parlamentari e con i tempi più lunghi che richiede il bicameralismo perfetto, accorciati con i voti di fiducia. Invece di incidere su questi due problemi (con attuazione art. 49 della Costituzione, sistema proporzionale e preferenze per aumentare la qualità della politica; con proposte di riforma costituzionale che non intacchino l’equilibrio tra poteri e rendano più spedita l’approvazione delle leggi) si punta tutto sulla creazione dell’uomo (o donna) forte. Che avvenga con l’etichetta del presidenzialismo o del premierato non fa differenza. L’importante è avere un plebiscito, un prescelto dalla piazza, in una tenzone a due. Adesso Giorgia Meloni si è scelta Elly Schlein come prossimo avversario, e la leader PD è tutta ringalluzzita. Le sta benissimo essere la sfidante ufficiale sul ring mediatico. La logica perversa del bipolarismo prevede lo scontro di due leader, e nessuno con il centrosinistra al governo, – né Bersani, né Renzi, né Gentiloni, né Zingaretti, né Letta – ha mai cercato di cambiare le regole del gioco, che assicura una rendita di posizione ai due contendenti. Che vinca o che perda, il leader PD del momento è sicuro di essere protagonista. Che poi da un’elezione all’altra si perdano milioni di votanti non importa a nessuno dei leader sul palcoscenico.
Noi ce ne preoccupiamo, invece. E non ci piacciono i plebisciti. Il più conosciuto della Storia liberò un certo Barabba. L’ultimo ha fatto eleggere Milei in Argentina, un soggetto al cui confronto Grillo e Sgarbi paiono due compassati lord inglesi.
Il plebiscito è amato dalle destre e dai populisti. Guido Bodrato ci ha insegnato che il populismo, inesorabilmente, porta acqua al mulino della destra. E dopo i vari populismi della Seconda Repubblica (Berlusconi, Di Pietro, Renzi, Grillo, Di Maio, Salvini, Conte) è proprio la Meloni che cerca di raccoglierne i frutti: blindando il fortino dell’oligarchia politica (il governo di pochi è sempre elitario e antipopolare) e cambiando le regole della Repubblica nata dalla Resistenza, che ha nel confronto parlamentare, nell’equilibrio dei poteri e nel ruolo di garanzia del Presidente i suoi cardini.
Diciamocelo francamente: il governo della destra post fascista non ci ha preoccupati più di tanto perché ci siamo sentiti rassicurati dalla presenza al Quirinale di Sergio Mattarella. Il suo mandato presidenziale terminerà – che il Signore ce lo conservi! – nel gennaio 2029, quando questa legislatura sarà già finita da un paio d’anni. Una così autorevole figura di garanzia costituzionale tranquillizza non solo chi condivide con lui le radici della cultura cattolico democratica, ma i tanti italiani che hanno a cuore le sorti e la qualità della nostra democrazia.
Per chi lavora a scorciatoie autoritarie l’attuale Presidente è un nemico. Dà fastidio quando restituisce le leggi sottoposte alla sua firma con una lettera di osservazioni critiche, o quando attua una politica estera parallela cercando di rimediare a dichiarazioni improvvide di membri del Governo, o quando ricorda nei suoi interventi i fondamenti etici della politica e della comunità sociale. È ingombrante con la sua autorevolezza, specie se rapportata alla piccineria dell’attuale ceto politico. È un esempio di garbo istituzionale che testimonia i migliori valori del nostro Paese e mantiene viva la speranza nella “buona Politica”. È un arbitro saggio che nei momenti di crisi può indirizzare da vicoli ciechi a soluzioni ragionevoli.
Prendiamo atto che il governo Meloni lo vuole estromettere dal tavolo politico e ridurlo a un ruolo decorativo, da esibire nelle cerimonie.
Altro che “madre di tutte le riforme”… Abbiamo di fronte una “matrigna cattiva” che indirizzerà la Terza Repubblica – grazie al vento populista seminato dalla Seconda – sulla strada tempestosa della svolta autoritaria. Tanto più pericolosa quanto più subdola.
La combatteremo con ogni forza.
Lo sa bene anche Giorgia Meloni, che stupida non è. Tutt’altro. Dopo aver vinto le elezioni con un consenso per il suo partito del 26% degli italiani recatisi ai seggi, quindi di circa il 15% dell’intero corpo elettorale (considerati astensionismo e voto non espresso al 41%), ha capito che per non andare subito a sbattere avrebbe dovuto riporre nel cassetto le varie scemenze della propaganda sovranista – sue e dell’alleato/concorrente Salvini – e mettere due punti fermi: cieca fedeltà atlantica di fronte ai sommovimenti mondiali e alla guerra ucraina, piena condivisione della politica europea di stampo governativo, burocratico e subalterno alla NATO interpretata dalla Von der Leyen. Poi è vero che con l’Europa il rapporto resta conflittuale su diversi tavoli (vedi il MES, la revisione del Patto di stabilità, le politiche verso i migranti) anche perché la Premier è lacerata tra due opposte esigenze: da un lato, non vuole lasciare campo libero a Salvini nell’elettorato antieuropeista, in genere formato da corporazioni agguerrite (ambulanti, balneari, tassisti ecc.); dall’altro, l’Italia non può correre il rischio di veder sfumare i 200 miliardi del PNRR, vincolati a un percorso virtuoso fatto anche di riforme indigeste all’elettorato di riferimento.
Quando manca un progetto di larghe e lunghe vedute, e ci si muove solo ragionando di piccole e immediate convenienze di bottega – il discorso non vale solo per il Governo Meloni ma parte purtroppo da più lontano –, i passi di chi guida le sorti del Paese non possono che essere incoerenti e incerti.
Da affrontare ci sono questioni come il ritorno della guerra in Europa e nel vicino Oriente palestinese, pezzi a noi vicini di quella Terza guerra mondiale provocata dal rapido modificarsi degli equilibri globali e denunciata da papa Francesco; come il cambiamento climatico e l’esplosione demografica nel Sud del mondo con i conseguenti epocali fenomeni migratori; come le inaccettabili diseguaglianze economiche e sociali generate dal turbocapitalismo finanziario; come – passando all’Italia – un debito pubblico superiore ai 2800 miliardi; come il crollo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione destinati a mettere in crisi il sistema sanitario e previdenziale. Di fronte a tali scenari potrebbero tremare i polsi anche a statisti della levatura di Degasperi e De Gaulle. Non sembrano invece impensieriti i politicanti del teatrino mediatico odierno, più preoccupati dal “meno zero virgola uno” nel sondaggio settimanale: concentrati sul loro particulare e incuranti del contesto, come i musici dell’orchestrina sul Titanic o i capponi litigiosi di Renzo Tramaglino.
Penso tuttavia che la Meloni si renda ben conto delle difficoltà da affrontare. Così come sarà consapevole di essere circondata da una classe dirigente per la quale viene difficile scegliere un aggettivo: direi che “imbarazzante” sia il più appropriato. Donzelli e Delmastro, il cognato Lollobrigida e Sangiuliano, la Santanché (ministro...) e La Russa (seconda carica della Repubblica...), il pistolero Pozzolo, sono per un verso o per l’altro la plateale dimostrazione di inadeguatezza al ruolo istituzionale ricoperto. Aggiungiamoci la mai sopita questione morale (ultimo arrivato nella lunga lista del malaffare il clan Verdini, non proprio una sorpresa…) e possiamo essere certi che pure il governo di destra è destinato a fallire. Probabilmente anche Giorgia lo pensa. E, non riuscendo a risollevare l’economia, a contenere i migranti, a migliorare sanità e istruzione, distoglie l’attenzione dalla realtà e butta sul tavolo un’arma di distrazione di massa, quella che ha definito “la madre di tutte le riforme”: il premierato.
Abbiamo già pubblicato articoli che spiegano bene i limiti e i pericoli di questa pasticciata proposta di riforma costituzionale (CLICCA QUI, QUI, QUI e QUI) e avremo modo di approfondire le ragioni di un NO convinto e militante, che dovrebbe compattare tutti i Popolari (non Renzi, che di sturziano non ha nulla).
Ora vorrei dare una risposta al perché di una simile, dirompente, iniziativa politica.
L’obiettivo da colpire è il punto d’equilibrio del nostro sistema democratico, il Presidente della Repubblica. Sino ad ora gli sforzi di chi lavora per modificare la Carta costituzionale in senso autoritario si sono concentrati sul gettare discredito e delegittimare il Parlamento: missione riuscita! Con leggi maggioritarie che hanno via via escluso dalla rappresentanza crescenti fette di elettorato; con i “nominati”, fedeli esecutori selezionati sulla base della fedeltà al capo partito e non sul merito (chi è capace può fare ombra…); con la deriva populista che ha portato a negare il ruolo pubblico dei partiti ormai ridotti a comitati elettorali, a ridurre drasticamente il numero dei rappresentanti, a trasformare il dibattito politico in un’arena mediatica in cui conta solo spararla grossa alla ricerca di un like della propria claque, per mantenere il potere e, per molti, garantirsi gli affari.
Ogni anno che passa le Camere hanno un ruolo sempre più marginale: non più “parlamento”, luogo di discussione, confronto e mediazione per creare leggi capaci di affrontare la realtà in cambiamento, ma stucchevole teatrino di contrapposizione preconcetta prima degli abituali “voti di fiducia” a scatola chiusa sui decreti-legge del Governo.
Questo andazzo, va detto chiaramente, non appartiene solo alla destra, ma è stato comune a tutti i governi delle ultime legislature, tecnici e no. In parte si spiega con la scarsa qualità dei Parlamentari e con i tempi più lunghi che richiede il bicameralismo perfetto, accorciati con i voti di fiducia. Invece di incidere su questi due problemi (con attuazione art. 49 della Costituzione, sistema proporzionale e preferenze per aumentare la qualità della politica; con proposte di riforma costituzionale che non intacchino l’equilibrio tra poteri e rendano più spedita l’approvazione delle leggi) si punta tutto sulla creazione dell’uomo (o donna) forte. Che avvenga con l’etichetta del presidenzialismo o del premierato non fa differenza. L’importante è avere un plebiscito, un prescelto dalla piazza, in una tenzone a due. Adesso Giorgia Meloni si è scelta Elly Schlein come prossimo avversario, e la leader PD è tutta ringalluzzita. Le sta benissimo essere la sfidante ufficiale sul ring mediatico. La logica perversa del bipolarismo prevede lo scontro di due leader, e nessuno con il centrosinistra al governo, – né Bersani, né Renzi, né Gentiloni, né Zingaretti, né Letta – ha mai cercato di cambiare le regole del gioco, che assicura una rendita di posizione ai due contendenti. Che vinca o che perda, il leader PD del momento è sicuro di essere protagonista. Che poi da un’elezione all’altra si perdano milioni di votanti non importa a nessuno dei leader sul palcoscenico.
Noi ce ne preoccupiamo, invece. E non ci piacciono i plebisciti. Il più conosciuto della Storia liberò un certo Barabba. L’ultimo ha fatto eleggere Milei in Argentina, un soggetto al cui confronto Grillo e Sgarbi paiono due compassati lord inglesi.
Il plebiscito è amato dalle destre e dai populisti. Guido Bodrato ci ha insegnato che il populismo, inesorabilmente, porta acqua al mulino della destra. E dopo i vari populismi della Seconda Repubblica (Berlusconi, Di Pietro, Renzi, Grillo, Di Maio, Salvini, Conte) è proprio la Meloni che cerca di raccoglierne i frutti: blindando il fortino dell’oligarchia politica (il governo di pochi è sempre elitario e antipopolare) e cambiando le regole della Repubblica nata dalla Resistenza, che ha nel confronto parlamentare, nell’equilibrio dei poteri e nel ruolo di garanzia del Presidente i suoi cardini.
Diciamocelo francamente: il governo della destra post fascista non ci ha preoccupati più di tanto perché ci siamo sentiti rassicurati dalla presenza al Quirinale di Sergio Mattarella. Il suo mandato presidenziale terminerà – che il Signore ce lo conservi! – nel gennaio 2029, quando questa legislatura sarà già finita da un paio d’anni. Una così autorevole figura di garanzia costituzionale tranquillizza non solo chi condivide con lui le radici della cultura cattolico democratica, ma i tanti italiani che hanno a cuore le sorti e la qualità della nostra democrazia.
Per chi lavora a scorciatoie autoritarie l’attuale Presidente è un nemico. Dà fastidio quando restituisce le leggi sottoposte alla sua firma con una lettera di osservazioni critiche, o quando attua una politica estera parallela cercando di rimediare a dichiarazioni improvvide di membri del Governo, o quando ricorda nei suoi interventi i fondamenti etici della politica e della comunità sociale. È ingombrante con la sua autorevolezza, specie se rapportata alla piccineria dell’attuale ceto politico. È un esempio di garbo istituzionale che testimonia i migliori valori del nostro Paese e mantiene viva la speranza nella “buona Politica”. È un arbitro saggio che nei momenti di crisi può indirizzare da vicoli ciechi a soluzioni ragionevoli.
Prendiamo atto che il governo Meloni lo vuole estromettere dal tavolo politico e ridurlo a un ruolo decorativo, da esibire nelle cerimonie.
Altro che “madre di tutte le riforme”… Abbiamo di fronte una “matrigna cattiva” che indirizzerà la Terza Repubblica – grazie al vento populista seminato dalla Seconda – sulla strada tempestosa della svolta autoritaria. Tanto più pericolosa quanto più subdola.
La combatteremo con ogni forza.
Ottima analisi! Continuate l’impegno per la formazione e la riflessione politica di qualità. Grazie.
Analisi perfetta e condivisibile. Gli estremi opposti si attraggono e si respingono per un populismo più forte e più redditizio (Meloni e Schlein). Il Presidente in ogni occasione cerca di rintuzzare il cammino democratico della nostra Repubblica.
Bell’articolo di spessore , ben documentato e realista con spunti arguti ed ironici da apprezzare ( Barabba; Milei, etc.) Ne condivido ogni singola parola per tre quarti fin che non si parla di Mattarella. La penso all’opposto: per me Mattarella non è altro che un occhiuto ed arcigno difensore dell’europeismo pro Nato tout court. Diciamo una Von der Layen al maschile. Basta osservare come se le è presa con le norme sulla concorrenza (balneari in primis) di fine anno, non sufficientemente aperte al mercato.
Ma l’Olanda chiede al permesso a qualcuno per la sua politica fiscale che risucchia tutte le direzioni generali di qualsiasi grande azienda invitandole a trasferirsi nei Paesi Bassi? E la Polonia ha chiesto il permesso a qualcuno per bloccare le importazioni di prodotti agricoli dall’Ucraina, anzi in alcuni casi bloccandone il transito? Suvvia, guardiamo la realtà quale è: Altiero Spinelli si rivolta nella tomba a vedere cosa è l’Europa, il sogno dei padri fondatori è sepolto ogni giorno di più sotto le direttive dell’agenda woke impartita dai Dem USA. Tutto il resto sono parole.
come abbiamo fatto per Renzi: voteremo contro e anche questa storia avrà’ fine! Vedremo se poi anche la Meloni si brucerà le ali.
Questo governo ha dei margini di manovra molto stretti, sia in economia che in politica estera. Non appena sgarra, rischia di cadere. Le criticità della sua riforma istituzionale, che Alessandro Risso indica con precisione, preparandoci a votare No al relativo referendum, quando sarà il tempo, gli complicano ulteriormente la vita.
Si tratta di una riforma che sa molto di distrazione dell’attenzione. Non si affronta la grave anomalia, che tutti vedono, della nomina da parte dei capi partito dei membri del parlamento. Al suo posto viene proposta una elezione diretta del premier di cui nessuno avverte la necessità, e che si è dimostrata destabilizzate nei pochi Paesi che l’hanno adottata, peraltro non paragonabili agli standard delle democrazie occidentali, ad eccezione di uno fra questi, Israele, che dopo averla sperimentata l’ha abbandonata a causa degli effetti che produceva, opposti a quelli desiderati.