In agosto, Pier Luigi Tolardo ha commentato qui su “Rinascita popolare” il libro del generale Roberto Vannacci Il mondo al contrario. Non ho letto il libro, e non credo che lo leggerò perché non mi piace che chi ricopre incarichi importanti dello Stato (magistrati, militari, poliziotti ecc.) esprima pubblicamente opinioni dalle evidenti ricadute politiche. Mi soffermo tuttavia su un giudizio espresso da Tolardo che, nella definizione di reazionario, ha una portata che va al di là del libro in questione: “Si direbbe un libro reazionario, nel senso che reagisce a molte trasformazioni, certamente a volte repentine, traumatiche, poco governate della società italiana per regredire a una società di ieri che forse non è mai esistita o non esattamente nel modo in cui la si rimpiange”.
“Negli ultimi decenni – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – sono avvenute gigantesche trasformazioni ideologiche e di costume, tali che oggi molti si sentono stranieri nel Paese in cui sono nati”. Non lo riconoscono più; vedono capovolti valori e riferimenti che erano loro stati proposti fin da quando erano bambini; sono sempre più isolati per l’indebolimento dei legami interpersonali e del senso di appartenenza (familiare, nazionale, di classe); hanno difficoltà a rapportarsi con quanti hanno fatto proprio il credo oggi dominante.
Anche io sono in qualche misura partecipe di questo stato d’animo. Dobbiamo (i molti di cui sopra ed io) sentirci reazionari? Reazionario è chi rifiuta di adeguarsi a novità che contraddicono tutto quanto ha ispirato la propria esistenza? Oppure reazionario è chi vuole riproporre un passato ormai superato?
Per quanto mi riguarda, sono consapevole dell’impossibilità, in ogni ambito, di ritornare a un passato di cui posso rimpiangere alcuni aspetti, mentre ne respingo molti altri.
Certamente, da quando ero giovane, sono stati fatti molti passi avanti. La speranza di vita si è allungata; si è diffuso (malgrado ancora esistano sacche di povertà) un certo benessere, o, quanto meno, per i più, sono migliorate le condizioni di vita e di lavoro; le donne hanno conquistato più spazio nella società.
Non mancano tuttavia le zone d’ombra. I bambini (che rappresentano la continuità dell’esistenza e il domani per la società tutta) sono diventati una rarità; si guarda al futuro con preoccupazione; i giovani non sanno se l’innovazione tecnologica consentirà loro di avere o mantenere un lavoro sicuro, e se e quando avranno una pensione; abbiamo un clima sovvertito che produce crescenti danni e inquieta, mentre si rimpiangono le stagioni di un passato non lontano quando erano ancora ben definite (inverni con la neve, primavere fiorite e irrorate da frequenti pioggerelline, estati non roventi, e classici autunni); il territorio è stato manomesso con le cementificazioni dilaganti, le edificazioni selvagge e l’espansione mal governata delle aree urbane sicché i bei paesaggi di un tempo sono diventati una rarità.
Guardandoci alle spalle, non è facile separare ricordi e sentimenti riconducibili all’essere stato il tempo della gioventù da giudizi oggettivi sulla società di allora. È quindi comprensibile che molti sentano nostalgia per non pochi aspetti del passato.
Più volte, in articoli e commenti su “Rinascita popolare”, si manifesta rimpianto per la classe politica italiana affermatasi nel dopoguerra, e, dal confronto con quella attuale, se ne traggono impietosi giudizi su quest’ultima, mentre viene riproposto il modello di quell’eccellente ceto politico di un tempo insieme all’eredità culturale che ci ha lasciato. In argomento, voglio riproporre un pensiero di Giacomo Leopardi che ho già avuto modo di citare in altro articolo: “In ciascun luogo e in ciascun tempo, bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa, è povero, per molto ch’egli sia ricco d’altra moneta”. Quegli illustri uomini politici di cui c’è nostalgia, se vivessero oggi, probabilmente non incontrerebbero il favore degli elettori.
Il successo arride a chi è in sintonia col proprio tempo, è una diffusa opinione tra le persone affermate. Sembrerebbe quindi ragionevole adattarsi al tempo attuale in tutte le sue manifestazioni, tanto più che, come ha scritto Vasilij Grossman in Vita e destino, “non c’è niente di peggio dell’essere figliastri del proprio tempo. Non c’è sorte peggiore di chi vive in un tempo non suo”.
Tutto chiaro? No, perché lo scrittore aggiunge: “Così è il tempo, tutto passa e lui resta. Tutto resta, il tempo passa. E come è lieve, silenzioso il suo fluire. Ieri eri ancora sicuro, allegro, forte, figlio del tempo. Oggi un altro tempo è arrivato, ma tu non lo sai ancora”. Non è quindi semplice vivere nel proprio tempo perché è sfuggente, sempre si rinnova, o meglio cambia il percorso che pareva avere imboccato. Non basta inseguire le mode per essere al passo dei tempi, per sentirsi inserito nel presente, perché in breve tutto quanto hai fatto tuo sarà superato, diventerà un residuo da gettare via.
Il passo di Leopardi sopra riportato è stato scritto in data 23 dicembre 1820. Quindi la difficoltà di adattamento ai cambiamenti era già presente allora, come probabilmente è sempre accaduto. Tuttavia la crescita della dimensione di ogni fenomeno, specie se in tempi brevi, può mutarne la natura fino a farne una cosa sostanzialmente diversa. La modernità ultima (in particolare a partire dalla globalizzazione) ha progressivamente accelerato il ritmo delle trasformazioni investendo sempre di più lo spazio sociale e quello individuale sicché oggi nulla ne è più indenne. Non c’è quindi confronto con quanto avveniva in un passato ancora non lontano.
Pertanto, essendo così rilevante quanto richiede l’adattamento ai tempi nuovi, prima di fare ogni passo in tale direzione, bisogna interrogarsi su dove si stia andando, e che cosa si finirebbe di essere.
In tema, mi è ritornata alla mente una conferenza tenuta il 4 maggio 2009 da Massimo Cacciari su “Presente e futuro del cristianesimo nel mondo globalizzato” (nell’ambito della Pastorale della cultura della Diocesi di Torino)
Secondo il filosofo, la globalizzazione deve essere intesa come l’affermazione planetaria del capitalismo che con la tecnica e il mercato afferma il suo dominio sugli esseri umani, senza più gli strumenti classici del potere (lo Stato, la burocrazia, il monopolio della forza, ecc.). Si parla di biopolitica per alludere alla capacità del sistema capitalistico di esercitare il controllo sulla vita delle persone plasmandole sulle proprie esigenze di crescita fine a se stessa, imponendo ad esse bisogni, aspettative, stili di vita. Si assiste all’affermazione, in una società apparentemente anarchica, di un potere occulto, non individuabile, non riferibile a singole personalità e a luoghi; un potere che nulla vieta e reprime, ma semplicemente ignora i cittadini e li considera solo in quanto consumatori, cioè elementi seriali e manipolabili che intervengono sul mercato. È questa la modernità (sinonimo di capitalismo e di dominio della tecnica) che, nata in Occidente, sta conquistando il mondo.
Di fronte a questo potere occulto, sfuggente, e tuttavia onnipresente e pervasivo, il cristianesimo è in difficoltà; lo è assai più di quanto possa esserlo stato in passato rispetto a poteri che lo avversavano esplicitamente o lo perseguitavano. Cacciari, con il termine cristianesimo, sembra riferirsi principalmente al cattolicesimo e alla Chiesa, considerando il protestantesimo incapace di opporsi all’omologazione ai valori mercantili che improntano la modernità, e che il capitalismo impone.
Ora, si chiede Cacciari, il cristianesimo può scendere a compromessi con questa modernità o deve contrapporsi ad essa con ciò che lo caratterizza nella sua essenzialità? Quale compromesso è possibile?
La proposta di compromesso che la società moderna gli fa è la seguente: tutto ciò che è sacro lo metti fuori del dominio pubblico, relegato nella dimensione privata; sul terreno pubblico, tralascia ogni messaggio alternativo alle concezioni dominanti e contribuisci a creare una religione civile che dia basi etiche alla società, indispensabile per esercitare un controllo su di essa, ovviamente da parte dell’oligarchia che sta al vertice del capitalismo.
Scelta mortale per il cristianesimo, dice Cacciari. Se il compromesso può essere solo questo, quale alternativa resta? Non resta al cristianesimo che proporsi nella essenzialità del suo messaggio: l’amore del prossimo, cioè di chi ci è vicino. Il cristiano ama il prossimo, che è sempre altro da noi, sostanzialmente avverso e frequentemente nemico, non perché spera così di renderselo amico (come fanno i pacifisti) ma perché Dio è amore. Il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in questo mondo il cristiano si deve presentare nel discorso pubblico e nella pratica della vita quotidiana con l’assurdità del suo messaggio, che tuttavia gli può forse consentire di vincere ancora.
Perché mai Cacciari e altri intellettuali non credenti (la fede è un dono e nessuno può imporsela con la lettura di testi sacri) mostrano tanta attenzione, direi preoccupazione, per le sorti del cristianesimo e della Chiesa?
Da quanto ho potuto capire, mi sembra che l’attenzione di Cacciari per la religione e per il cristianesimo sia il frutto di un percorso di ricerca proprio di tutti quanti si interrogano, credenti o meno, di fronte alle questioni fondamentali dell’esistenza. Inoltre, c’è la consapevolezza che dal cristianesimo nasce l’Europa e vengono le componenti essenziali della nostra cultura, mentre si riconosce che oggi le religioni esprimono le sole voci capaci di farsi ascoltare da un vasto uditorio, voci che si oppongono alla omologazione disumanizzante imposta dal dominio della tecnica e del mercato, un dominio proprio del capitalismo identificato con la modernità.
Ritengo che piegarsi ai dettami della modernità contemporanea sia mortale non solo per il cristianesimo, ma per ogni cultura che si richiami all’umanesimo e al rispetto dei limiti posti dalla natura (a partire da quella umana). Anche in questo caso, diventa obbligatorio il rifiuto di omologarsi al pensiero oggi dominante. Se ciò comporta essere considerati reazionari (sia pure con uno stravolgimento del significato del termine), non sarà certo il timore di questa etichettatura a doverci fermare.
Forse potrà essere donchisciottesco pretendere di contrastare una modernità che (come afferma Emanuele Severino), con l’inevitabile trionfo della tecnica, cancellerà religione, umanesimo e democrazia. Tuttavia, ci ha detto Anthony Giddens, a proposito dell’attuale stadio della modernità, che “è un’epoca in cui si esplorano strade e possibilità non ancora sperimentate, rimettendo in discussione tutto, compresa la modernità stessa”. Quindi, per quanto l’impresa sia difficile, la partita è ancora aperta.
“Negli ultimi decenni – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – sono avvenute gigantesche trasformazioni ideologiche e di costume, tali che oggi molti si sentono stranieri nel Paese in cui sono nati”. Non lo riconoscono più; vedono capovolti valori e riferimenti che erano loro stati proposti fin da quando erano bambini; sono sempre più isolati per l’indebolimento dei legami interpersonali e del senso di appartenenza (familiare, nazionale, di classe); hanno difficoltà a rapportarsi con quanti hanno fatto proprio il credo oggi dominante.
Anche io sono in qualche misura partecipe di questo stato d’animo. Dobbiamo (i molti di cui sopra ed io) sentirci reazionari? Reazionario è chi rifiuta di adeguarsi a novità che contraddicono tutto quanto ha ispirato la propria esistenza? Oppure reazionario è chi vuole riproporre un passato ormai superato?
Per quanto mi riguarda, sono consapevole dell’impossibilità, in ogni ambito, di ritornare a un passato di cui posso rimpiangere alcuni aspetti, mentre ne respingo molti altri.
Certamente, da quando ero giovane, sono stati fatti molti passi avanti. La speranza di vita si è allungata; si è diffuso (malgrado ancora esistano sacche di povertà) un certo benessere, o, quanto meno, per i più, sono migliorate le condizioni di vita e di lavoro; le donne hanno conquistato più spazio nella società.
Non mancano tuttavia le zone d’ombra. I bambini (che rappresentano la continuità dell’esistenza e il domani per la società tutta) sono diventati una rarità; si guarda al futuro con preoccupazione; i giovani non sanno se l’innovazione tecnologica consentirà loro di avere o mantenere un lavoro sicuro, e se e quando avranno una pensione; abbiamo un clima sovvertito che produce crescenti danni e inquieta, mentre si rimpiangono le stagioni di un passato non lontano quando erano ancora ben definite (inverni con la neve, primavere fiorite e irrorate da frequenti pioggerelline, estati non roventi, e classici autunni); il territorio è stato manomesso con le cementificazioni dilaganti, le edificazioni selvagge e l’espansione mal governata delle aree urbane sicché i bei paesaggi di un tempo sono diventati una rarità.
Guardandoci alle spalle, non è facile separare ricordi e sentimenti riconducibili all’essere stato il tempo della gioventù da giudizi oggettivi sulla società di allora. È quindi comprensibile che molti sentano nostalgia per non pochi aspetti del passato.
Più volte, in articoli e commenti su “Rinascita popolare”, si manifesta rimpianto per la classe politica italiana affermatasi nel dopoguerra, e, dal confronto con quella attuale, se ne traggono impietosi giudizi su quest’ultima, mentre viene riproposto il modello di quell’eccellente ceto politico di un tempo insieme all’eredità culturale che ci ha lasciato. In argomento, voglio riproporre un pensiero di Giacomo Leopardi che ho già avuto modo di citare in altro articolo: “In ciascun luogo e in ciascun tempo, bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa, è povero, per molto ch’egli sia ricco d’altra moneta”. Quegli illustri uomini politici di cui c’è nostalgia, se vivessero oggi, probabilmente non incontrerebbero il favore degli elettori.
Il successo arride a chi è in sintonia col proprio tempo, è una diffusa opinione tra le persone affermate. Sembrerebbe quindi ragionevole adattarsi al tempo attuale in tutte le sue manifestazioni, tanto più che, come ha scritto Vasilij Grossman in Vita e destino, “non c’è niente di peggio dell’essere figliastri del proprio tempo. Non c’è sorte peggiore di chi vive in un tempo non suo”.
Tutto chiaro? No, perché lo scrittore aggiunge: “Così è il tempo, tutto passa e lui resta. Tutto resta, il tempo passa. E come è lieve, silenzioso il suo fluire. Ieri eri ancora sicuro, allegro, forte, figlio del tempo. Oggi un altro tempo è arrivato, ma tu non lo sai ancora”. Non è quindi semplice vivere nel proprio tempo perché è sfuggente, sempre si rinnova, o meglio cambia il percorso che pareva avere imboccato. Non basta inseguire le mode per essere al passo dei tempi, per sentirsi inserito nel presente, perché in breve tutto quanto hai fatto tuo sarà superato, diventerà un residuo da gettare via.
Il passo di Leopardi sopra riportato è stato scritto in data 23 dicembre 1820. Quindi la difficoltà di adattamento ai cambiamenti era già presente allora, come probabilmente è sempre accaduto. Tuttavia la crescita della dimensione di ogni fenomeno, specie se in tempi brevi, può mutarne la natura fino a farne una cosa sostanzialmente diversa. La modernità ultima (in particolare a partire dalla globalizzazione) ha progressivamente accelerato il ritmo delle trasformazioni investendo sempre di più lo spazio sociale e quello individuale sicché oggi nulla ne è più indenne. Non c’è quindi confronto con quanto avveniva in un passato ancora non lontano.
Pertanto, essendo così rilevante quanto richiede l’adattamento ai tempi nuovi, prima di fare ogni passo in tale direzione, bisogna interrogarsi su dove si stia andando, e che cosa si finirebbe di essere.
In tema, mi è ritornata alla mente una conferenza tenuta il 4 maggio 2009 da Massimo Cacciari su “Presente e futuro del cristianesimo nel mondo globalizzato” (nell’ambito della Pastorale della cultura della Diocesi di Torino)
Secondo il filosofo, la globalizzazione deve essere intesa come l’affermazione planetaria del capitalismo che con la tecnica e il mercato afferma il suo dominio sugli esseri umani, senza più gli strumenti classici del potere (lo Stato, la burocrazia, il monopolio della forza, ecc.). Si parla di biopolitica per alludere alla capacità del sistema capitalistico di esercitare il controllo sulla vita delle persone plasmandole sulle proprie esigenze di crescita fine a se stessa, imponendo ad esse bisogni, aspettative, stili di vita. Si assiste all’affermazione, in una società apparentemente anarchica, di un potere occulto, non individuabile, non riferibile a singole personalità e a luoghi; un potere che nulla vieta e reprime, ma semplicemente ignora i cittadini e li considera solo in quanto consumatori, cioè elementi seriali e manipolabili che intervengono sul mercato. È questa la modernità (sinonimo di capitalismo e di dominio della tecnica) che, nata in Occidente, sta conquistando il mondo.
Di fronte a questo potere occulto, sfuggente, e tuttavia onnipresente e pervasivo, il cristianesimo è in difficoltà; lo è assai più di quanto possa esserlo stato in passato rispetto a poteri che lo avversavano esplicitamente o lo perseguitavano. Cacciari, con il termine cristianesimo, sembra riferirsi principalmente al cattolicesimo e alla Chiesa, considerando il protestantesimo incapace di opporsi all’omologazione ai valori mercantili che improntano la modernità, e che il capitalismo impone.
Ora, si chiede Cacciari, il cristianesimo può scendere a compromessi con questa modernità o deve contrapporsi ad essa con ciò che lo caratterizza nella sua essenzialità? Quale compromesso è possibile?
La proposta di compromesso che la società moderna gli fa è la seguente: tutto ciò che è sacro lo metti fuori del dominio pubblico, relegato nella dimensione privata; sul terreno pubblico, tralascia ogni messaggio alternativo alle concezioni dominanti e contribuisci a creare una religione civile che dia basi etiche alla società, indispensabile per esercitare un controllo su di essa, ovviamente da parte dell’oligarchia che sta al vertice del capitalismo.
Scelta mortale per il cristianesimo, dice Cacciari. Se il compromesso può essere solo questo, quale alternativa resta? Non resta al cristianesimo che proporsi nella essenzialità del suo messaggio: l’amore del prossimo, cioè di chi ci è vicino. Il cristiano ama il prossimo, che è sempre altro da noi, sostanzialmente avverso e frequentemente nemico, non perché spera così di renderselo amico (come fanno i pacifisti) ma perché Dio è amore. Il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in questo mondo il cristiano si deve presentare nel discorso pubblico e nella pratica della vita quotidiana con l’assurdità del suo messaggio, che tuttavia gli può forse consentire di vincere ancora.
Perché mai Cacciari e altri intellettuali non credenti (la fede è un dono e nessuno può imporsela con la lettura di testi sacri) mostrano tanta attenzione, direi preoccupazione, per le sorti del cristianesimo e della Chiesa?
Da quanto ho potuto capire, mi sembra che l’attenzione di Cacciari per la religione e per il cristianesimo sia il frutto di un percorso di ricerca proprio di tutti quanti si interrogano, credenti o meno, di fronte alle questioni fondamentali dell’esistenza. Inoltre, c’è la consapevolezza che dal cristianesimo nasce l’Europa e vengono le componenti essenziali della nostra cultura, mentre si riconosce che oggi le religioni esprimono le sole voci capaci di farsi ascoltare da un vasto uditorio, voci che si oppongono alla omologazione disumanizzante imposta dal dominio della tecnica e del mercato, un dominio proprio del capitalismo identificato con la modernità.
Ritengo che piegarsi ai dettami della modernità contemporanea sia mortale non solo per il cristianesimo, ma per ogni cultura che si richiami all’umanesimo e al rispetto dei limiti posti dalla natura (a partire da quella umana). Anche in questo caso, diventa obbligatorio il rifiuto di omologarsi al pensiero oggi dominante. Se ciò comporta essere considerati reazionari (sia pure con uno stravolgimento del significato del termine), non sarà certo il timore di questa etichettatura a doverci fermare.
Forse potrà essere donchisciottesco pretendere di contrastare una modernità che (come afferma Emanuele Severino), con l’inevitabile trionfo della tecnica, cancellerà religione, umanesimo e democrazia. Tuttavia, ci ha detto Anthony Giddens, a proposito dell’attuale stadio della modernità, che “è un’epoca in cui si esplorano strade e possibilità non ancora sperimentate, rimettendo in discussione tutto, compresa la modernità stessa”. Quindi, per quanto l’impresa sia difficile, la partita è ancora aperta.
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