Con Giorgio Napolitano perdiamo l'ultimo uomo politico che ha vissuto di persona tutte le vicende storiche del nostro Paese, dalla Resistenza alla Costituzione ai primi convulsi anni della ricostruzione postbellica. Un grande protagonista di ottanta anni di vita italiana.
Eletto Presidente della Repubblica nel 2006, nel segno di uno schieramento politico - l'Unione prodiana appena uscita vincente dalle urne - venne rieletto al Quirinale sette anni dopo con la spinta, o meglio l'esortazione, ad accettare il nuovo mandato dall'intero arco politico. Nel 2013 lo votarono tutti convintamente, anche la destra che lo aveva avversato la prima volta, avendone riconosciuto la figura istituzionale autenticamente al di sopra delle parti. E questo pur essendo figlio di una ben precisa parte politica.
Un lungo percorso cominciato quando, poco più che diciottenne - era nato nel 1925 – entrando in contatto con il Pci subito dopo la caduta del fascismo. Ben presto divenne l'elemento di spicco della covata di un altro prestigioso leader comunista: Giorgio Amendola di cui condivise la traiettoria politica. Un certo aplomb anglosassone e una vaga rassomiglianza con Umberto di Savoia lo allontanavano persino visivamente dall'immagine che, a volte, si aveva dei massimalisti in falce e martello. Sin da subito si collocò nell'area migliorista, che per l'appunto aveva l'ambizione di “migliorare” il capitalismo, renderlo più umano, senza lanciarsi in sperimentazioni collettiviste che avrebbero condotto chissà dove. E questo suo riformismo, di schietto stampo socialdemocratico, non sempre venne compreso ed apprezzato all'interno del suo stesso partito. Come tutti era figlio del proprio tempo, anche con i suoi errori, basti pensare a quando nel 1956 giustificò l'invasione sovietica dell'Ungheria, ma non di rado le sue analisi, ad esempio sull'evoluzione del Pci e della sinistra, anticiparono questioni che sul momento parevano premature.
Nel 1953 fu eletto per la prima volta alla Camera, dove venne riconfermato per altre nove legislature, diventandone presidente nel 1992. Siamo in un'epoca in cui la terza carica dello Stato era appannaggio dell'opposizione: nulla a che vedere con le pratiche della sedicente Seconda repubblica dove chi vince, sia esso di destra o di sinistra, piglia tutto, senza nulla concedere agli avversari.
Con la vittoria dell'Ulivo nel 1996, Napolitano divenne ministro dell'Interno, primo comunista al Viminale, il più emblematico snodo del potere dello Stato, non a caso sino a quel momento, sempre detenuto da esponenti democristiani. La legge Turco-Napolitano sull'immigrazione, con la novità degli sponsor come garanti delle persone che legalmente entravano in Italia fu uno dei pezzi forte di quella stagione. Norma poi cancellata dalla destra con la Bossi-Fini, in nome di una severità quasi fine a se stessa.
La lunga carriera pubblica fu coronata nel 2006 con l'ascesa al Quirinale. Riconoscimento al suo straordinario contributo alla vita politica italiana e anche, per molti versi, alla parte cui ha sempre appartenuto: il Pci vitale forza della nostra democrazia, fulcro della Resistenza ed ispiratore della Costituzione.
Due punti fermi orientarono la sua presidenza: la Costituzione e l'Europa. La difesa della Carta costituzionale, ponendosi ad arbitro del sistema politico, anche contrariando la propria parte politica che nel 2011, dopo la crisi del governo di Silvio Berlusconi, chiedeva elezioni anticipate sentendo il successo in tasca. Un ruolo di garanzia che il premierato renzo-meloniano rischia di indebolire pericolosamente. L'impegno europeo, sostenendo sempre con vigore il cammino di integrazione del nostro continente di cui il nostro Paese non può che essere protagonista. Essendo uno dei sei membri fondatori della comunità.
Accettò la rielezione nel 2013, dopo l'assurda bocciatura, tutta interna al Pd, di figure come Romano Prodi e Franco Marini, per evitare il blocco istituzionale con una classe politica incapace di decidere. Cosa che non mancò di evidenziare nel secondo discorso inaugurale. Dopo gli anni della presidenza, continuò a prendere parte dal dibattito politica, rilevando la necessità di modifiche costituzionali per conseguire una più stabile ed efficiente governabilità. Si schierò quindi a favore della riforma congegnata da Matteo Renzi, cui però consigliò di non personalizzare la contesa.
Salutiamo dunque un riformista che sognava un'Italia più moderna e più giusta, un vero protagonista della nostra democrazia, un grande Presidente.
Eletto Presidente della Repubblica nel 2006, nel segno di uno schieramento politico - l'Unione prodiana appena uscita vincente dalle urne - venne rieletto al Quirinale sette anni dopo con la spinta, o meglio l'esortazione, ad accettare il nuovo mandato dall'intero arco politico. Nel 2013 lo votarono tutti convintamente, anche la destra che lo aveva avversato la prima volta, avendone riconosciuto la figura istituzionale autenticamente al di sopra delle parti. E questo pur essendo figlio di una ben precisa parte politica.
Un lungo percorso cominciato quando, poco più che diciottenne - era nato nel 1925 – entrando in contatto con il Pci subito dopo la caduta del fascismo. Ben presto divenne l'elemento di spicco della covata di un altro prestigioso leader comunista: Giorgio Amendola di cui condivise la traiettoria politica. Un certo aplomb anglosassone e una vaga rassomiglianza con Umberto di Savoia lo allontanavano persino visivamente dall'immagine che, a volte, si aveva dei massimalisti in falce e martello. Sin da subito si collocò nell'area migliorista, che per l'appunto aveva l'ambizione di “migliorare” il capitalismo, renderlo più umano, senza lanciarsi in sperimentazioni collettiviste che avrebbero condotto chissà dove. E questo suo riformismo, di schietto stampo socialdemocratico, non sempre venne compreso ed apprezzato all'interno del suo stesso partito. Come tutti era figlio del proprio tempo, anche con i suoi errori, basti pensare a quando nel 1956 giustificò l'invasione sovietica dell'Ungheria, ma non di rado le sue analisi, ad esempio sull'evoluzione del Pci e della sinistra, anticiparono questioni che sul momento parevano premature.
Nel 1953 fu eletto per la prima volta alla Camera, dove venne riconfermato per altre nove legislature, diventandone presidente nel 1992. Siamo in un'epoca in cui la terza carica dello Stato era appannaggio dell'opposizione: nulla a che vedere con le pratiche della sedicente Seconda repubblica dove chi vince, sia esso di destra o di sinistra, piglia tutto, senza nulla concedere agli avversari.
Con la vittoria dell'Ulivo nel 1996, Napolitano divenne ministro dell'Interno, primo comunista al Viminale, il più emblematico snodo del potere dello Stato, non a caso sino a quel momento, sempre detenuto da esponenti democristiani. La legge Turco-Napolitano sull'immigrazione, con la novità degli sponsor come garanti delle persone che legalmente entravano in Italia fu uno dei pezzi forte di quella stagione. Norma poi cancellata dalla destra con la Bossi-Fini, in nome di una severità quasi fine a se stessa.
La lunga carriera pubblica fu coronata nel 2006 con l'ascesa al Quirinale. Riconoscimento al suo straordinario contributo alla vita politica italiana e anche, per molti versi, alla parte cui ha sempre appartenuto: il Pci vitale forza della nostra democrazia, fulcro della Resistenza ed ispiratore della Costituzione.
Due punti fermi orientarono la sua presidenza: la Costituzione e l'Europa. La difesa della Carta costituzionale, ponendosi ad arbitro del sistema politico, anche contrariando la propria parte politica che nel 2011, dopo la crisi del governo di Silvio Berlusconi, chiedeva elezioni anticipate sentendo il successo in tasca. Un ruolo di garanzia che il premierato renzo-meloniano rischia di indebolire pericolosamente. L'impegno europeo, sostenendo sempre con vigore il cammino di integrazione del nostro continente di cui il nostro Paese non può che essere protagonista. Essendo uno dei sei membri fondatori della comunità.
Accettò la rielezione nel 2013, dopo l'assurda bocciatura, tutta interna al Pd, di figure come Romano Prodi e Franco Marini, per evitare il blocco istituzionale con una classe politica incapace di decidere. Cosa che non mancò di evidenziare nel secondo discorso inaugurale. Dopo gli anni della presidenza, continuò a prendere parte dal dibattito politica, rilevando la necessità di modifiche costituzionali per conseguire una più stabile ed efficiente governabilità. Si schierò quindi a favore della riforma congegnata da Matteo Renzi, cui però consigliò di non personalizzare la contesa.
Salutiamo dunque un riformista che sognava un'Italia più moderna e più giusta, un vero protagonista della nostra democrazia, un grande Presidente.
Giorgio Napolitano è stato un ammirevole esempio di coerenza e di fedeltà ai propri principi ideologici che, sapientemente, ha saputo riconsiderare alla luce del corso della storia e dei mutamenti della politica e della società.
Inoltre, gli va ricosciuto l’altissimo senso dello Stato e delle Istituzioni, di cui ha dato ampia prova nell’assolvimento del doppio mandato presidenziale, che ha svolto all’insegna di una rigorosa imparzialità.
Dopo il primo governo Prodi, non si riusciva a formare un nuovo governo. Mi ricordo che all’epoca ero in contatto con un collega, un autentico comunista, dirigente formato alla scuola delle Frattocchie. Gli chiesi perché non proponete Giorgio Napolitano gradito a tutti. Mi rispose stizzito, conoscendo il mio orientamento lapiriano, ti piacerebbe un fascistone come presidente! Rimasi attonito. Dopo poco fu eletto Massimo D’Alema.