Dopo più di un anno e mezzo dall’invasione russa dell’Ucraina si può constatare come questo conflitto nel cuore dell’Europa, e fra due Paesi di cultura e tradizione cristiana, si stia stabilizzando in una guerra di logoramento che miete vite umane e brucia enormi risorse con tragica costanza, e che promette di durare indefinitamente.
La narrazione ufficiale del conflitto, quella che ne colloca l’inizio con l’aggressione a freddo, ritenuta improvvisa e immotivata dell’Ucraina da parte della Russia, ha finito con il togliere all’UE ogni spazio di manovra diplomatica, rendendo pressoché indistinguibile la posizione dell’Unione Europea da quella della NATO. Il sostegno militare all’Ucraina “for as long as it takes” si è imposto come l’unica linea che si sappia tenere nelle ostilità contro un Paese come la Russia che ha proprio nella guerra di logoramento il suo maggior punto di forza, potendo attingere a riserve umane e risorse naturali praticamente illimitate e potendo contare su una vasta e robusta rete di alleanze internazionali.
In tal modo non solo l’Europa si è posta fuori dai vari tavoli dei tentativi di pace; non solo ha sperimentato l’eterogenesi dei fini delle sanzioni che in un sol colpo danneggiano gravemente l’economia europea e accelerano i processi di autonomia economica e finanziaria non solo della Russia ma del Resto del Mondo dall’Occidente, ma addirittura essa si sta ponendo il problema nel caso, non impossibile, di un disimpegno americano dopo le prossime presidenziali, di come proseguire da sola il conflitto, come se non dovesse esser l’UE più interessata degli Stati Uniti a fare cessare il conflitto che ha praticamente in casa.
Ora ciò che più conta è salvare il salvabile, cercando almeno di fare tacere le armi. E sapendo che il non aver contrastato adeguatamente a tempo debito (prima di Maidan e dopo, dal 2014 al 2022) la deriva verso la guerra, sta producendo condizioni di sicurezza in Europa peggiori di quelle che si sarebbero potute mantenere con un accordo tra Stati Uniti e Russia sulla neutralità dell’Ucraina.
Vale la pena di ricordare che in molti avvertirono al tempo giusto i rischi che avrebbe corso l’Europa dalla mancata soluzione della questione ucraina. Da Enrico Letta che da premier andò, unico leader occidentale, alla cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici Invernali di Sochi del 2014 in un estremo tentativo di evitare l’irreparabile deriva violenta che di lì a poco avrebbe sconvolto l’Ucraina. A Romano Prodi che scriveva su “Il Messaggero” del 19 ottobre 2014, quando già il conflitto russo-ucraino era divenuto di tipo militare: “la via per trovare un accordo che permetta all’Ucraina di vivere in pace e di avere accesso sia al mercato russo che a quello europeo è tecnicamente percorribile: basta avere la sufficiente volontà politica ed elasticità mentale per percorrerla, partendo dall’imprescindibile dato di fatto che l’Ucraina non può essere né russa né europea e che può vivere bene solo se diventa un ponte fra Russia ed Europa. L’Ucraina è, per la sua natura e la sua storia, un ponte. Non può essere un campo di battaglia”.
E l’allora presidente delle ACLI Gianni Bottalico in un appello alle rappresentanze in Italia di UE, Stati Uniti, Ucraina e Russia del 3 marzo 2014, per i rispettivi governi, ricordava la necessità che “venga risparmiata all’Ucraina la triste sorte della divisione per linee etniche e religiose” in sintonia con quanto chiesto allora dal Consiglio delle Chiese ucraine.
Poi le cose hanno preso la piega che sappiamo, e qualcuno ne è responsabile davanti alla Storia e davanti a Dio. Se il passato è irreversibile, il futuro invece dipende dalle scelte che l’Europa vorrà compiere. Perché tali scelte possano incidere occorre che l’UE – o almeno i Paesi membri che intendano farlo – capisca che non c’è più tempo da perdere per parlare con una sola voce a livello internazionale, esprimendo il proprio originale e autonomo punto di vista sui principali temi della politica globale. A cominciare dalla questione ucraina, sulla quale la realtà dei fatti sembra consigliare un cambio di narrazione che tenga conto innanzitutto del fatto che è l’Ucraina la parte maggiormente danneggiata dalla mancanza di un accordo, e che includa il riconoscimento della complessità dei fattori al posto di una semplificazione manichea dalla cui spirale distruttiva è sempre più difficile uscire, con conseguenze terribili sul popolo ucraino e non meno gravi in prospettiva sull’economia, sui livelli di vita e sulle democrazie dell’Europa occidentale.
La narrazione ufficiale del conflitto, quella che ne colloca l’inizio con l’aggressione a freddo, ritenuta improvvisa e immotivata dell’Ucraina da parte della Russia, ha finito con il togliere all’UE ogni spazio di manovra diplomatica, rendendo pressoché indistinguibile la posizione dell’Unione Europea da quella della NATO. Il sostegno militare all’Ucraina “for as long as it takes” si è imposto come l’unica linea che si sappia tenere nelle ostilità contro un Paese come la Russia che ha proprio nella guerra di logoramento il suo maggior punto di forza, potendo attingere a riserve umane e risorse naturali praticamente illimitate e potendo contare su una vasta e robusta rete di alleanze internazionali.
In tal modo non solo l’Europa si è posta fuori dai vari tavoli dei tentativi di pace; non solo ha sperimentato l’eterogenesi dei fini delle sanzioni che in un sol colpo danneggiano gravemente l’economia europea e accelerano i processi di autonomia economica e finanziaria non solo della Russia ma del Resto del Mondo dall’Occidente, ma addirittura essa si sta ponendo il problema nel caso, non impossibile, di un disimpegno americano dopo le prossime presidenziali, di come proseguire da sola il conflitto, come se non dovesse esser l’UE più interessata degli Stati Uniti a fare cessare il conflitto che ha praticamente in casa.
Ora ciò che più conta è salvare il salvabile, cercando almeno di fare tacere le armi. E sapendo che il non aver contrastato adeguatamente a tempo debito (prima di Maidan e dopo, dal 2014 al 2022) la deriva verso la guerra, sta producendo condizioni di sicurezza in Europa peggiori di quelle che si sarebbero potute mantenere con un accordo tra Stati Uniti e Russia sulla neutralità dell’Ucraina.
Vale la pena di ricordare che in molti avvertirono al tempo giusto i rischi che avrebbe corso l’Europa dalla mancata soluzione della questione ucraina. Da Enrico Letta che da premier andò, unico leader occidentale, alla cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici Invernali di Sochi del 2014 in un estremo tentativo di evitare l’irreparabile deriva violenta che di lì a poco avrebbe sconvolto l’Ucraina. A Romano Prodi che scriveva su “Il Messaggero” del 19 ottobre 2014, quando già il conflitto russo-ucraino era divenuto di tipo militare: “la via per trovare un accordo che permetta all’Ucraina di vivere in pace e di avere accesso sia al mercato russo che a quello europeo è tecnicamente percorribile: basta avere la sufficiente volontà politica ed elasticità mentale per percorrerla, partendo dall’imprescindibile dato di fatto che l’Ucraina non può essere né russa né europea e che può vivere bene solo se diventa un ponte fra Russia ed Europa. L’Ucraina è, per la sua natura e la sua storia, un ponte. Non può essere un campo di battaglia”.
E l’allora presidente delle ACLI Gianni Bottalico in un appello alle rappresentanze in Italia di UE, Stati Uniti, Ucraina e Russia del 3 marzo 2014, per i rispettivi governi, ricordava la necessità che “venga risparmiata all’Ucraina la triste sorte della divisione per linee etniche e religiose” in sintonia con quanto chiesto allora dal Consiglio delle Chiese ucraine.
Poi le cose hanno preso la piega che sappiamo, e qualcuno ne è responsabile davanti alla Storia e davanti a Dio. Se il passato è irreversibile, il futuro invece dipende dalle scelte che l’Europa vorrà compiere. Perché tali scelte possano incidere occorre che l’UE – o almeno i Paesi membri che intendano farlo – capisca che non c’è più tempo da perdere per parlare con una sola voce a livello internazionale, esprimendo il proprio originale e autonomo punto di vista sui principali temi della politica globale. A cominciare dalla questione ucraina, sulla quale la realtà dei fatti sembra consigliare un cambio di narrazione che tenga conto innanzitutto del fatto che è l’Ucraina la parte maggiormente danneggiata dalla mancanza di un accordo, e che includa il riconoscimento della complessità dei fattori al posto di una semplificazione manichea dalla cui spirale distruttiva è sempre più difficile uscire, con conseguenze terribili sul popolo ucraino e non meno gravi in prospettiva sull’economia, sui livelli di vita e sulle democrazie dell’Europa occidentale.
A questo punto Putin vorrà tenersi i territori occupati illegalmente e non si appagherà della neutralità ucraina. Poi ci riproverà. Già si è preso la Transnistria moldava. Non illudiamo
Apprezzo le considerazioni svolte da Giuseppe Davicino e quindi da queste parto in un tentativo di vedere che possibilità concrete ci sono tenuto conto della prevalente insipienza dei comportamenti della maggioranza dei governanti europei ante invasione russa del febbraio 2022.
Bisognerebbe innanzitutto che il governo ucraino capisse (forse lo capisce, ma non può mostrarlo) che il supporto USA finirebbe non solo se arriva Trump, ma anche solo se apparisse alla maggioranza degli americani che “il budget è esaurito” e bisogna accontentarsi di quanto si è ottenuto in termini di logoramento della Russia (soprattutto a spese di Europa e morti ucraini, ma questo è “un danno collaterale”).
Poi sarebbe bello che l’Europa, almeno di fronte al pericolo, provasse a capire che non è necessario dividersi sempre su tutto, auspicando l’unità sempre solo a parole, ma invece vediamo che basta un problema grave, ma non irrisolvibile (leggi “migranti”) per mandare all’aria il buon senso. La imminenza delle elezioni europee, dove tutti devono mostrarsi migliori degli altri, non aiuta, tenendo conto che non si può pretendere che gli elettori siano in maggioranza più lungimiranti dei loro politici e quindi meriti ai fini elettorali un cambio di atteggiamento.
Recentemente qualcuno ha criticato il Papa per aver detto una cosa che dovrebbe essere ovvia: e cioè che un conto è la cultura ed il popolo russo ed altra cosa sono i suoi attuali governanti e, per essere chiaro ha detto che:”un conto è Dostoeski o Ciaikovski e un conto è Putin”. Tutto ciò è demoralizzante, ma consente di ricordare che nessuno durante il conflitto in corso si è premurato di far sapere con tutti i mezzi moderni della propaganda che il vero nemico non è il popolo russo, ma il suo dittatore pro tempore e collaboratori e che, in fondo, la maggioranza dei russi è vittima e non carnefice.
Allora come sperare? Speriamo che ciò che non arriva dal buon senso arrivi almeno per paura. Ciò non significa cedere alla violenza, ma avere il coraggio di ripartire da quanto non si è fatto nel 2014. Una Europa unita sarebbe in grado di proporlo e sostenerlo. Questa Europa, mah!