Quale futuro per il servizio sanitario?



Massimo Molteni    19 Agosto 2023       1

Negli ultimi 10 anni sono ancora migliorate le tecnologie di cura nel nostro mondo occidentale e anche in Italia, e sono stati immessi nel sistema, o “nel mercato” come si usa dire, nuovi farmaci per patologie complesse come per alcuni tipi di tumore: in prospettiva le terapie geniche sono ormai prossime.

La durata media della vita – a parte la drammatica parentesi del Covid – è continuamente aumentata negli ultimi decenni: e una parte del merito è dovuta anche ai sistemi sanitari, anche a quello italiano.

Eppure la percezione di tutti e le numerose e drammatiche evidenze di tutti i giorni, anche nelle regioni con la Sanità più efficiente, testimoniano la realtà di un SSN in progressivo disfacimento: gravissime difficoltà nei Pronto Soccorso, liste d’attesa per visite, esami diagnostici e ricoveri programmati sempre più lunghe e drammatiche, inarrestabile ricorso alla sanità privata da parte dei cittadini che se lo possono permettere, carenza di medici, infermieri e di tutti gli operatori socio-sanitari, aggressioni in aumento verso i sanitari, territori sempre più numerosi con carenze sempre più vistose del “medico di famiglia”: spesso una vera odissea “trovare” un medico o un team curante capace di strutturare una minima “relazione di cura”, probabilmente la vera realtà capace di soddisfare la percezione del proprio bisogno di salute.

Nel 2022 la spesa sanitaria si è attestata a oltre 131.000 milioni, con previsione di aumento nel 2023 di 4 miliardi di euro: il rapporto con il PIL (da leggere sempre con attento sospetto) si attesta poco sotto il 7%, certo inferiore ad altre nazioni europee (ma – con tutto il rispetto – il PIL e i suoi calcoli sono “vaticini” più che fotografie reali anche solo dello stato della ricchezza di un Paese, peggio che mai indicatori di confronto attendibili), e comunque la spesa sanitaria è in continuo aumento, nonostante la costante e continua contrazione numerica (in termini percentuali rispetto ai servizi erogati e negli ultimi anni anche in termini assoluti) di chi lavora nel settore e con una retribuzione media che non ha seguito nemmeno lontanamente l’inflazione…

È di pochi giorni fa la certificazione che anche nel 2022 la spesa farmaceutica ha sfondato di un paio di miliardi il tetto previsto e contemporaneamente continua a crescere la spesa farmaceutica pagata direttamente dai cittadini…

Il Ministero della Salute sta richiedendo a gran voce almeno 4 miliardi in più per il 2024: servono, purtroppo e se basteranno, solo a mantenere il sistema nella attuale situazione di degrado continuo, evidente anche ai non esperti…

Aumenta in continuazione il consumo di “oggetti per la salute” (farmaci - presidi - esami diagnostici - visite e interventi clinici) nel SSN e anche acquistati direttamente dal cittadino, mentre continua simmetricamente a diminuire la percezione e in molte circostanze anche la evidenza di essere adeguatamente curati, così come i propri bisogni di salute continuano invece ad aumentare, specie nella percezione individuale: l’Italia è il paese che spende più di tutti in fitness e integratori (oltre 5 miliardi spesi nel 2020…)

La crescita costante degli standard di eccellenza necessari per poter avere una “vita personale dignitosa” (all’interno della quale si situa anche la propria auto percezione del benessere necessario e desiderato, motore del proprio bisogno di salute), la crescente solitudine e insicurezza, la pervasiva idea che tutto si può ottenere (e comperare), hanno determinato una dinamica compulsiva verso l’acquisto di beni-servizi-esperienze che ha fatto esplodere la richiesta di questi “oggetti necessari per la salute”, tradotti poi nella narrazione italiana in “diritti esigibili”.

L’industria della Salute è stata capace di assecondare questa crescente aspettativa immettendo nel mercato sempre più “beni”: alcuni di indubbio valore e che hanno accresciuto la possibilità di cura, altri – la maggioranza – pura espressione di marketing, capace di sollecitare le paure di ciascuno e di lasciar credere la loro necessarietà per il proprio “star bene”.

Nel mondo occidentale questa è una classica dinamica di mercato, imperniato sul consumo compulsivo di beni, necessario a mantenere l’attuale modello di sviluppo economico: l’industria della salute è molto redditizia e molti grandi gruppi hanno aumentato i loro investimenti in questo settore, aspettandosi lauti e crescenti guadagni, con l’ausilio di potenti lobbies a sostegno, capaci di diffondere nelle persone la necessità di questa compulsione consumistica anche in questo settore.

In un mercato così ricco e che vede crescere costantemente i propri profitti, gli operatori sanitari, partendo dai medici, vivono con crescente e drammatica insoddisfazione la loro condizione: necessari (per ora: vedremo con l’IA e la robotica cosa succederà) per far girare la macchina dei consumi, ma sempre più marginali e esclusi dalla ricaduta dei benefici economici, specie in Italia e in Inghilterra che con la loro scelta di un sistema sanitario prevalentemente pubblico stanno sottoponendo a una tensione violentissima questa categoria di operatori: del resto, nella logica produttiva di qualsiasi mercato consumistico, il valore aggiunto ricade sul bene venduto (o sull’esperienza venduta) non certo sulla “forza lavoro” che di solito è un “bene comprimibile” (la famigerata “efficienza produttiva”, altrimenti nota con “lotta agli sprechi e alle inefficienze”), specie nei cicli economici caratterizzati da modesta espansione.

All’interno di questa situazione che vede convergere le aspettative

- dei cittadini che aspirano a una continua e illimitata disponibilità di “oggetti per la salute”, sempre più compulsiva e naturalmente incapace – spesso – di rispondere ai bisogni di benessere che la generano;

- dell’industria della salute che ha trovato un mercato particolarmente profittevole e legittimamente punta ad ampliarlo e con esso i propri profitti;

- degli operatori socio-sanitari che rivendicano – legittimamente – migliori condizioni economiche e di lavoro,

all’interno dei vincoli economici sistemici che determinano il nostro modello capitalistico, quali sono le soluzioni proposte dai vari partiti italiani?

Il mantra più gettonato è quello di aumentare le risorse economiche al nostro sistema sanitario, così da dare più soldi agli operatori socio-sanitari, abbattere le liste d’attesa, aumentare la disponibilità quantitativa e qualitativa degli oggetti per la salute a disposizione dei cittadini, possibilmente gratuitamente: tutti felici e contenti!

Con una dinamica incrementale continua e praticamente illimitata (salute = benessere = felicità: chi mai la raggiunge la felicità?) sostenuta dal convergere di più fattori, all’interno di risorse rese scarse dalle logiche economiche e finanziarie del nostro modello di sviluppo, aggravate dall’alto debito pubblico italiano, come può essere effettivamente realizzata la soluzione proposta?

Si stanno così strutturando tre macro-derivate per fronteggiare le ovvie difficoltà realizzative, evidenti anche a chi non è un esperto, di un simile programma differenziate in relazione agli “orientamenti ideologici” soggiacenti:

> difesa strenua del sistema pubblico, sostanziale criminalizzazione della sanità privata e del malgoverno politico sanitario visti come i responsabili unici del problema (in sottofondo qualche borbottio anche verso la grande industria della salute e la tentazione di definire e imporre “erga omnes” – sempre su base scientifica, ci mancherebbe… – quali devono essere gli standard di salute da perseguire e gli “oggetti per la salute” da dispensare secondo una pre-definita e dirigistica programmazione top-down [ancora in lontananza qualche possibile sovra-tassa per i più abbienti o per punire comportamenti giudicati non adeguati a mantenere la salute])

> difesa del sistema pubblico, ma differenziato a livello regionale o locale, in base alla efficienza produttiva e alla ricchezza dei diversi territori: anche in questo caso il malgoverno politico è comunque un fattore di grave responsabilità da correggere senza indugio e clemenza con “la differenziazione regionale” (in sottofondo qualche minaccia verso gli operatori socio-sanitari se non collaboreranno pro-attivamente agli obiettivi aziendali prestabiliti: come ad esempio, per superare le attuali penurie di personale, anche proseguendo a lavorare ben oltre i 70 anni di età [Zaia docet]) nel convincimento che la “autonomia differenziata” si accompagnerà poi anche ad una più convinta e virtuosa adesione dei cittadini alle linee programmatorie che verranno date (o imposte) per mantenere l’equilibrio economico necessario, eventualmente escludendo i “non aventi diritto” (ossia “gli abusivi”, categoria dai confini incerta…)

> apertura – limitata e vigilata – verso un sistema sanitario “misto”: pubblico e privato (di solito, nei sistemi misti capitalistici si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite) puntando su sinergie e stimoli concorrenziali, radicando sempre più il modello aziendale produttivo nel sistema della salute: sanità integrativa, welfare aziendale… migliore capacità dei cittadini di scegliere ciò che meglio serve, anche pagando quote crescenti, sempre per “libera scelta” e nel pieno rispetto del libero mercato.

In ogni modello esiste un pericoloso “bias” di fondo che è la mancata definizione di cosa sia la “salute”, oggetto finale di ogni progettualità (in realtà nel primo modello, esiste la tentazione di definire a priori cosa sia la salute, cui tutti dovranno adeguarsi [in forme arcaiche si manifesta con lo scientismo proibizionista, in quelle più evolute con forme che ricalcheranno la “cancel culture” o il “politically correct”; nel terzo modello la salute è espressione del “libero” convincimento individuale definito dalla personale capacità di spesa; nel secondo modello si oscilla tra le due tendenze, in relazione agli equilibri contingenti, con una certa naturale predilezione verso un concetto di salute pre-definito a priori).

Esiste poi una clamorosa dimenticanza in tutti: i fragili (anziani non autosufficienti, i malati psichici, le disabilità mentali e cognitive, le patologie genetiche disabiliitanti ad insorgenza neonatale, le fasi terminali delle malattie, le patologie neurodegenerative) e i “poveri” (nel senso ampio del termine), ossia gli “scarti”, pari almeno al 20% della attuale popolazione.

Del resto, in una logica aziendale, chi mai si occupa di questi “problemi collaterali”?

E INSIEME quale modello intende perseguire? Una sapienziale integrazione (altrimenti definibile come “moderata mediazione”) tra le derivate prima esposte così da mediarne e smussarne gli eccessi? O un coraggioso e rivoluzionario ripensamento complessivo, anche a costo di non essere capiti dai cittadini (ossia gli elettori) e anche sfidando i legittimi interessi delle varie “lobbies”?

(Tratto da www.politicainsieme.com)


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