“La Repubblica” dà conto di uno dei due fenomeni nuovi del quadro politico italiano. Si tratta della progressiva sovrapposizione tra il Pd ed il Movimento 5 Stelle, ormai in fase avanzata di trasformazione nei partiti personali di Elly Schlein e di Giuseppe Conte.
Spiega l’autore della ricerca, Antonio Noto, che “è cambiato un pezzo del dna del Pd” (confermando la personale lettura data dal sottoscritto nelle sue scelte, ma questo non rileva ai fini del ragionamento politico): rispetto alle elezioni del 2022, un quarto degli elettori che allora si espressero a favore dei Dem oggi non conferma più quella preferenza causa la svolta a sinistra del partito (evidentemente proprio da solo non sono…). Defezione compensata da un ritorno di elettorato da 5 stelle e sinistra radicale, che riporta il Pd a “quota periscopio” spostandone però significativamente l’asse politico.
Infatti, dall’analisi di Noto c’è una parte di elettorato (6/7% del Pd, 5/6% dei 5 stelle) che potrebbe votare sia l’uno che l’altro.
Siamo quindi ai prodromi del sogno di un certo “milieu” politico, culturale, mediatico e finanziario: la progressiva sovrapposizione e integrazione dei due partiti, premessa per una loro fusione in prospettiva. Una deriva che riapre la questione al centro. Quanto potranno resistere in queste condizioni i riformisti del Pd è un tema loro – su cui ho già dato – ma è certo che il loro destino è quello di trasformarsi da elementi strutturali a mosche cocchiere e spettatori del duello finale per la leadership della nuova “izquierda unida” italiana tra la Schlein, Conte e – forse – Landini.
Ma appare sempre più evidente che a fronte di questa prospettiva, il lavoro per ridare uno spazio di rappresentanza a centristi, riformisti e innovatori in Italia è indispensabile. A cominciare dalle prossime elezioni europee. Perché – ed è il secondo elemento strutturale – l’era della cosiddetta “Seconda Repubblica” dove i centristi si sparpagliavano tra destra e sinistra per assumerne egemonia e leadership è finita.
Oggi non esistono più né il centrodestra né il centrosinistra.
C’è la destra di Giorgia Meloni, insediata nella leadership da un Salvini che punta a scavalcarla ancora più a destra. E c’è la futura crasi a sinistra tra Pd e 5 Stelle, in omaggio alla “cancel culture” che pretende di archiviare le stagioni del riformismo italiano come ammuffite anticaglie del passato.
In mezzo, c’è una domanda di rappresentanza. Che dobbiamo cogliere e dobbiamo ricostruire.
(Tratto dal profilo Fb dell’Autore)
Spiega l’autore della ricerca, Antonio Noto, che “è cambiato un pezzo del dna del Pd” (confermando la personale lettura data dal sottoscritto nelle sue scelte, ma questo non rileva ai fini del ragionamento politico): rispetto alle elezioni del 2022, un quarto degli elettori che allora si espressero a favore dei Dem oggi non conferma più quella preferenza causa la svolta a sinistra del partito (evidentemente proprio da solo non sono…). Defezione compensata da un ritorno di elettorato da 5 stelle e sinistra radicale, che riporta il Pd a “quota periscopio” spostandone però significativamente l’asse politico.
Infatti, dall’analisi di Noto c’è una parte di elettorato (6/7% del Pd, 5/6% dei 5 stelle) che potrebbe votare sia l’uno che l’altro.
Siamo quindi ai prodromi del sogno di un certo “milieu” politico, culturale, mediatico e finanziario: la progressiva sovrapposizione e integrazione dei due partiti, premessa per una loro fusione in prospettiva. Una deriva che riapre la questione al centro. Quanto potranno resistere in queste condizioni i riformisti del Pd è un tema loro – su cui ho già dato – ma è certo che il loro destino è quello di trasformarsi da elementi strutturali a mosche cocchiere e spettatori del duello finale per la leadership della nuova “izquierda unida” italiana tra la Schlein, Conte e – forse – Landini.
Ma appare sempre più evidente che a fronte di questa prospettiva, il lavoro per ridare uno spazio di rappresentanza a centristi, riformisti e innovatori in Italia è indispensabile. A cominciare dalle prossime elezioni europee. Perché – ed è il secondo elemento strutturale – l’era della cosiddetta “Seconda Repubblica” dove i centristi si sparpagliavano tra destra e sinistra per assumerne egemonia e leadership è finita.
Oggi non esistono più né il centrodestra né il centrosinistra.
C’è la destra di Giorgia Meloni, insediata nella leadership da un Salvini che punta a scavalcarla ancora più a destra. E c’è la futura crasi a sinistra tra Pd e 5 Stelle, in omaggio alla “cancel culture” che pretende di archiviare le stagioni del riformismo italiano come ammuffite anticaglie del passato.
In mezzo, c’è una domanda di rappresentanza. Che dobbiamo cogliere e dobbiamo ricostruire.
(Tratto dal profilo Fb dell’Autore)
In un panorama del genere ci sarebbe bisogno di tornare ad una politica “vera” che non ceda ai populismi. E qui il popolarismo può dare un contributo fondamentale. Bisognerebbe però ripartire dalla base, da coloro che sono impegnati negli enti locali per creare un movimento radicato. Le operazioni di vertice, senza seguito, hanno il respiro corto.