La kermesse che si è sviluppata nei giorni immediatamente successivi alla morte di Silvio Berlusconi mi ha profondamente turbato e indignato. Nonostante si sapesse che vi era nel nostro Paese un numero consistente di affezionati al Cavaliere (e non solo tra chi ne aveva ricevuto particolari benefici ma anche tra un’abbondante fetta di appartenenti ai ceti popolari) non mi attendevo una simile apoteosi. Al di là dei funerali di Stato e delle tre giornate a di lutto nazionale – scelte del tutto inaccettabili (soprattutto la seconda) – a meravigliarmi è stata l’esaltazione del personaggio diventato un eroe nazionale, cui venivano tributati onori mai prima riservati a ben più importanti uomini di Stato – da De Gasperi a Pertini, da Moro a Ciampi (per non ricordarne che alcuni particolarmente eminenti) – con una sorta di impressionante servilismo, fino al limite dell’idolatria. Si sono purtroppo ancora una volta distinti in questa corsa alla celebrazione i media – giornali e televisione – che hanno confermato la povertà culturale e il provincialismo del giornalismo italiano: per due giorni tutte le emittenti televisive, quelle della RAI incluse, non hanno mai smesso di parlare. di lui, trascurando notizie ben più importanti di eventi nazionali ed internazionali.
La pesante influenza culturale ed etica
Questo coro di voci non deve, a ben vedere, sorprendere. Si tratta, in realtà, della conferma dell’influenza che Silvio Berlusconi ha esercitato sugli sviluppi di una mentalità e di un costume largamente diffusi; mentalità e costume che rappresentano (forse) il fattore più negativo della sua partecipazione alla vita pubblica. Con una indubbia abilità di provetto attore e sfruttando gli strumenti mediali a sua disposizione (reti televisive in primis) che avevano (e hanno) un potere straordinario di pervasività, egli ha inciso profondamente sulla coscienza dell’italiano medio, contribuendo, in misura determinante, a trasformarne il modo di pensare e gli stili di vita.
Quali i connotati del modello proposto?
Quali sono, dunque, i connotati del modello culturale ed etico che con la sua persona e con la sua azione Berlusconi ha concorso a far crescere – le premesse in realtà già esistevano – e che è tuttora dominante? La domanda a questo fondamentale interrogativo trova anzitutto risposta nel fatto che il Cavaliere, prima ancora di comparire sulla scena politica, è stato il promotore, grazie agli strumenti mediali di cui disponeva, di un ethos culturale all’insegna dell’effimero, della superficialità e della futilità; un ethos che ha coinvolto “privato” e “pubblico” e che ha trovato piena espressione negli spettacoli e nei talk show delle diverse reti di Mediaset.
Al consolidarsi di questo ethos, dal quale è del tutto assente ogni serio riferimento valoriale, ha in seguito concorso la sua condotta privata che presenta aspetti di grave immoralità: basti pensare alla concezione maschilista e strumentale della donna ridotta a semplice oggetto del piacere; concezione che ha messo in pratica con le sue ben note performances, le quali costituiscono una aperta violazione dell’articolo 54, paragrafo 2 della nostra Carta costituzionale in cui si legge: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”.
La presenza sulla scena pubblica
Ma i fattori più rilevanti dell’influenza di Berlusconi riguardano la “vita pubblica”. Qui i criteri ispiratori e valutativi dei comportamenti che emergono in maniera del tutto spudorata nelle sue scelte sono la ricchezza, il potere e il successo raggiunti spesso anche mediante la prevaricazione sugli altri; criteri che non sono soltanto il contrario della logica evangelica ma che rappresentano anche l’antitesi di un autentico umanesimo, in quanto derivanti dagli istinti più bassi inscritti nell’inconscio collettivo. In questo egli è diventato un vero status symbol oggetto di ammirazione e modello da imitare da parte di molti. L’accumulazione della ricchezza e del potere, da lui acquisiti spesso mediante il ricorso a vie illegali tanto nell’esercizio dell’attività imprenditoriale quanto in quella politica, lungi dall’essere dalla maggioranza degli italiani condannati erano piuttosto considerati come il segno di un’abilità e di una furbizia che non pochi gli invidiavano.
Il riferimento ideale cui si ispirava la sua visione del modo – visione che ha trasferito anche nella sua azione politica – è rappresentato dal modello di un capitalismo selvaggio e libertario, che ha promosso l’accentuarsi delle diseguaglianze tra le classi sociali – diseguaglianze da lui giustificate in nome di una forma esasperata di meritocrazia – e che si è distinto per la totale assenza di considerazione nei confronti della cosiddetta “lotteria naturale”, di cui ha, al contrario, accentuato le ricadute negative, come è avvenuto con l’eliminazione della tassa di successione. Logica conseguenza di queste opzioni è stato il sostegno offerto alle spinte individualiste e neocorporative che, a partire dagli anni Ottanta-Novanta, sono venute via via crescendo nella società italiana (e non solo), in seguito alla caduta della tensione sociale e politica propria del decennio precedente. Il fenomeno del riflusso è stato da Berlusconi cavalcato come una grande opportunità per scendere in politica e proporre il suo progetto di governo del Paese.
Lo scarso senso dello Stato e il disprezzo per la politica
È proprio su quest’ultimo terreno che il suo modello culturale ha provocato i danni maggiori, a causa soprattutto della concezione che egli aveva dello Stato e della politica; concezione che ha contrassegnato la sua attività governativa e legislativa. Nei confronti dello Stato egli nutriva un senso di diffidenza preconcetta, che giungeva fino a considerarlo nemico: emblematico è, a questo proposito, l’atteggiamento verso le tasse che considerava un latrocinio pubblico, contribuendo così ad accentuare la tendenza all’evasione fiscale, uno dei più gravi mali endemici del nostro Paese.
Analoghi pregiudizi egli aveva nei confronti della politica verso la quale non mancava di manifestare un vero e proprio disprezzo, rifiutandosi di considerarla come un’arte, che esige competenza ed esperienza, e fornendo, di conseguenza, un importante supporto a quel qualunquismo populista, che ha trovato in seguito piena espressione nel movimento di Grillo – si pensi all’uno vale uno – con il risultato di alimentare l’astensionismo che ha assunto nell’ultimo decennio proporzioni sempre più ampie e allarmanti. Altro fattore negativo da lui introdotto (strettamente legato a quello precedente) è stata la personalizzazione dei partiti, pratica che si è in seguito largamente diffusa, cioè la loro identificazione con un personaggio carismatico, che per Berlusconi non poteva che essere un imprenditore. Personalizzazione che ha finito per vanificare ogni forma di rappresentanza e per annullare quel processo partecipativo che faceva dei partiti la sede ideale di elaborazione dei progetti politici.
Quale eredità?
L’eredità di Berlusconi è purtroppo destinata a durare nel tempo. La ricaduta più immediata del processo da lui avviato è l’attuale governo, che in realtà si ispira a un modello culturale reazionario e autoritario, quello neofascista, diverso da quello di Forza Italia, ispirato piuttosto a logiche populiste e consumiste. Rimane tuttavia la sua responsabilità nell’avere, a suo tempo, sdoganato il Movimento Sociale, creando le premesse per la attuale ascesa di Fratelli d’Italia.
Ma il lascito più rilevante e preoccupante del suo patrimonio ereditario va ascritto – come si è già con insistenza messo in evidenza – all’influenza esercitata sul terreno culturale, dove grazie alle sue capacità di affabulatore coinvolgente e di grande corruttore, ha saputo interpretare e avallare, rafforzandole, le pulsioni meno nobili di una larga area della popolazione italiana. È questa la ragione principale e più inquietante del suo successo, che è venuto pienamente in luce – come ho rilevato fin dall’inizio – in occasione delle sua morte e dell’apoteosi celebrativa dei giorni che l’hanno seguita.
(Tratto da “Rocca”, rivista della Pro Civitate Christiana Assisi)
BERLUSCONI
cosa dire di lui?
Raniero
La Valle
Silvio Berlusconi è stato oggetto in morte di servo encomio e di indignata critica. Si è molto discusso sull’opportunità che venisse indetto per lui il lutto nazionale, mentre è stato legittimo per l’Università senese averlo negato e averne rivendicato le ragioni. Si è anche detto che «a cadavere caldo» ci si dovesse astenere dal giudizio e che l’urgenza della cronaca comprometterebbe l’obiettività dell’analisi, e non è vero, perché altrimenti i «coccodrilli», che nel gergo giornalistico sono la rievocazione del personaggio, non si dovrebbero neanche scrivere. Ma in tutto questo, che cosa è vero di ciò che è stato detto di lui?
Non è vero che ha cambiato l’Italia. Non tutti siamo cambiati, molte cose sono cambiate ma non per causa sua, forse perfino la deriva politica di cui soffriamo sarebbe la stessa anche se lui non ci fosse stato.
Nemmeno è vero che con le televisioni commerciali più di ogni altro ha dato un’impronta alla cultura popolare del Paese; molto di più lo ha fatto Ettore Bernabei che ha dato vita alla televisione in Italia, ha creato il Servizio Pubblico, si è inventato il linguaggio televisivo, né sciatto né colto, ha intuito e mostrato il ruolo politico che nella democrazia nascente poteva esercitare quell’«elettrodomestico» come, demitizzando, chiamava la Tv.
Nemmeno è vero che Berlusconi sia stato l’«arcitaliano», cioè assimilato alla nuova identità dell’italiano medio, Interno agli umori e alle mode dei più. Omogeneo al prevalente carattere della nazione o dell’etnia, come oggi si dice. In realtà Berlusconi a questa identità prevalente è stato ed è rimasto estraneo e difforme, nessuno si è sentito paragonabile a lui per le ricchezze, nessuno per le ville e i palazzi che abitava, e se nessuno ha pagato tante tasse quanto lui, come insiste a dire il panegirico più improbabile su di lui, la grande maggioranza degli italiani le ha pagate e se le è fatte detrarre in proporzione ben più di lui, e non le ha evase come lui.
Nemmeno i maschi italiani hanno coltivato una concezione della donna come la sua, né hanno pensato le donne come godimento e come gioco, né ne hanno preservato e rilanciato lo stereotipo come lui.
La maggioranza poi della classe politica, dei parlamentari, dei pubblici ufficiali, non ha fatto ricorso, come lui, allo strumento della concussione, riconoscibile o meno che fosse come reato.
È vero invece che nella percezione della situazione internazionale egli è stato molto più perspicace, intelligente e anche patriottico dei suoi amici ed avversari; non è stato né un simil-americano, né un atlantista cieco anche se alla Nato è rimasto obbediente; ha tentato di mettere insieme Putin e l’America, Erdogan e l’Europa, ha capito l’errore della gestione di Zelensky in Ucraina e, se pure in telefonate private, ha espresso fino alla fine la sua contrarietà alle politiche che attizzano questa guerra.
È stato detto che su tutto questo il giudizio va lasciato alla storia. Ma se tutto ciò che accade fosse lasciato alla storia, non ci sarebbe nemmeno un presente da giudicare, mentre è proprio il presente che ci è dato in custodia.
Dunque in morte di Berlusconi si è aperta l’ultima partita, è restata l’ultima domanda: chi veramente egli è stato? Angelo o fiera, come dell’uomo dicevano i medioevali? Ed ecco che sulla scena è arrivata la risposta inattesa, una parola di verità e uno sprazzo di luce. Nelle esequie in duomo, l’arcivescovo di Milano ha passato la pratica a Dio. Lo ha messo nelle sue mani. il Vangelo dice di non giudicare, forse vuol dire che il giudizio è di Dio. Se poi è davvero un giudizio: la novità annunciata da papa Francesco è che in Dio c’è solo misericordia, non appare il Dio del contrappasso, bene per bene, male per male: la retribuzione. E tuttavia nell’omelia dell’arcivescovo, tutta giocata sul desiderio di vita, di amore, di felicità di qualunque uomo sulla terra, hanno fatto irruzione – non nello scritto ma nel parlato, quando l’ispirazione non è a freno – due lampi di realtà e di giudizio su quell’uomo lì, nella bara, e sul tempo storico che stiamo vivendo. Mentre il discorso evocava, in astratto, l’uomo d’affari, che «deve fare affari, ha clienti e concorrenti, si arrischia in imprese spericolate, guarda ai numeri e non ai criteri» (che nel nostro linguaggio vuol dire pensare ai profitti, anche a costo delle ingiustizie più gravi) ha corretto la frase dicendo dell’uomo d’affari: «forse si dimentica dei criteri», a significare che non è detto che l’affarista debba essere proprio così, e che non si può senz’altro affermare («forse»!) che Berlusconi fosse così. Allo stesso modo parlando dell’«uomo politico» che «cerca di vincere, ha sostenitori e oppositori, è sempre un uomo di parte», ha integrato la frase dicendo: «nei nostri tempi», a significare che se oggi accade così, non è detto che la politica debba essere così, ma che c’è un altro concetto, un’altra possibilità della politica, che non è di parte, che cerca il bene comune, nella quale non c’è il nemico, ma solo il prossimo, i cittadini, i fratelli, e che non stava a lui dire che politico fosse stato Berlusconi, ma poteva solo dire di Silvio Berlusconi: «è un uomo e ora incontra Dio».
E in tal modo a ognuno è stato lasciato alla libertà di dire la sua.
La pesante influenza culturale ed etica
Questo coro di voci non deve, a ben vedere, sorprendere. Si tratta, in realtà, della conferma dell’influenza che Silvio Berlusconi ha esercitato sugli sviluppi di una mentalità e di un costume largamente diffusi; mentalità e costume che rappresentano (forse) il fattore più negativo della sua partecipazione alla vita pubblica. Con una indubbia abilità di provetto attore e sfruttando gli strumenti mediali a sua disposizione (reti televisive in primis) che avevano (e hanno) un potere straordinario di pervasività, egli ha inciso profondamente sulla coscienza dell’italiano medio, contribuendo, in misura determinante, a trasformarne il modo di pensare e gli stili di vita.
Quali i connotati del modello proposto?
Quali sono, dunque, i connotati del modello culturale ed etico che con la sua persona e con la sua azione Berlusconi ha concorso a far crescere – le premesse in realtà già esistevano – e che è tuttora dominante? La domanda a questo fondamentale interrogativo trova anzitutto risposta nel fatto che il Cavaliere, prima ancora di comparire sulla scena politica, è stato il promotore, grazie agli strumenti mediali di cui disponeva, di un ethos culturale all’insegna dell’effimero, della superficialità e della futilità; un ethos che ha coinvolto “privato” e “pubblico” e che ha trovato piena espressione negli spettacoli e nei talk show delle diverse reti di Mediaset.
Al consolidarsi di questo ethos, dal quale è del tutto assente ogni serio riferimento valoriale, ha in seguito concorso la sua condotta privata che presenta aspetti di grave immoralità: basti pensare alla concezione maschilista e strumentale della donna ridotta a semplice oggetto del piacere; concezione che ha messo in pratica con le sue ben note performances, le quali costituiscono una aperta violazione dell’articolo 54, paragrafo 2 della nostra Carta costituzionale in cui si legge: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”.
La presenza sulla scena pubblica
Ma i fattori più rilevanti dell’influenza di Berlusconi riguardano la “vita pubblica”. Qui i criteri ispiratori e valutativi dei comportamenti che emergono in maniera del tutto spudorata nelle sue scelte sono la ricchezza, il potere e il successo raggiunti spesso anche mediante la prevaricazione sugli altri; criteri che non sono soltanto il contrario della logica evangelica ma che rappresentano anche l’antitesi di un autentico umanesimo, in quanto derivanti dagli istinti più bassi inscritti nell’inconscio collettivo. In questo egli è diventato un vero status symbol oggetto di ammirazione e modello da imitare da parte di molti. L’accumulazione della ricchezza e del potere, da lui acquisiti spesso mediante il ricorso a vie illegali tanto nell’esercizio dell’attività imprenditoriale quanto in quella politica, lungi dall’essere dalla maggioranza degli italiani condannati erano piuttosto considerati come il segno di un’abilità e di una furbizia che non pochi gli invidiavano.
Il riferimento ideale cui si ispirava la sua visione del modo – visione che ha trasferito anche nella sua azione politica – è rappresentato dal modello di un capitalismo selvaggio e libertario, che ha promosso l’accentuarsi delle diseguaglianze tra le classi sociali – diseguaglianze da lui giustificate in nome di una forma esasperata di meritocrazia – e che si è distinto per la totale assenza di considerazione nei confronti della cosiddetta “lotteria naturale”, di cui ha, al contrario, accentuato le ricadute negative, come è avvenuto con l’eliminazione della tassa di successione. Logica conseguenza di queste opzioni è stato il sostegno offerto alle spinte individualiste e neocorporative che, a partire dagli anni Ottanta-Novanta, sono venute via via crescendo nella società italiana (e non solo), in seguito alla caduta della tensione sociale e politica propria del decennio precedente. Il fenomeno del riflusso è stato da Berlusconi cavalcato come una grande opportunità per scendere in politica e proporre il suo progetto di governo del Paese.
Lo scarso senso dello Stato e il disprezzo per la politica
È proprio su quest’ultimo terreno che il suo modello culturale ha provocato i danni maggiori, a causa soprattutto della concezione che egli aveva dello Stato e della politica; concezione che ha contrassegnato la sua attività governativa e legislativa. Nei confronti dello Stato egli nutriva un senso di diffidenza preconcetta, che giungeva fino a considerarlo nemico: emblematico è, a questo proposito, l’atteggiamento verso le tasse che considerava un latrocinio pubblico, contribuendo così ad accentuare la tendenza all’evasione fiscale, uno dei più gravi mali endemici del nostro Paese.
Analoghi pregiudizi egli aveva nei confronti della politica verso la quale non mancava di manifestare un vero e proprio disprezzo, rifiutandosi di considerarla come un’arte, che esige competenza ed esperienza, e fornendo, di conseguenza, un importante supporto a quel qualunquismo populista, che ha trovato in seguito piena espressione nel movimento di Grillo – si pensi all’uno vale uno – con il risultato di alimentare l’astensionismo che ha assunto nell’ultimo decennio proporzioni sempre più ampie e allarmanti. Altro fattore negativo da lui introdotto (strettamente legato a quello precedente) è stata la personalizzazione dei partiti, pratica che si è in seguito largamente diffusa, cioè la loro identificazione con un personaggio carismatico, che per Berlusconi non poteva che essere un imprenditore. Personalizzazione che ha finito per vanificare ogni forma di rappresentanza e per annullare quel processo partecipativo che faceva dei partiti la sede ideale di elaborazione dei progetti politici.
Quale eredità?
L’eredità di Berlusconi è purtroppo destinata a durare nel tempo. La ricaduta più immediata del processo da lui avviato è l’attuale governo, che in realtà si ispira a un modello culturale reazionario e autoritario, quello neofascista, diverso da quello di Forza Italia, ispirato piuttosto a logiche populiste e consumiste. Rimane tuttavia la sua responsabilità nell’avere, a suo tempo, sdoganato il Movimento Sociale, creando le premesse per la attuale ascesa di Fratelli d’Italia.
Ma il lascito più rilevante e preoccupante del suo patrimonio ereditario va ascritto – come si è già con insistenza messo in evidenza – all’influenza esercitata sul terreno culturale, dove grazie alle sue capacità di affabulatore coinvolgente e di grande corruttore, ha saputo interpretare e avallare, rafforzandole, le pulsioni meno nobili di una larga area della popolazione italiana. È questa la ragione principale e più inquietante del suo successo, che è venuto pienamente in luce – come ho rilevato fin dall’inizio – in occasione delle sua morte e dell’apoteosi celebrativa dei giorni che l’hanno seguita.
(Tratto da “Rocca”, rivista della Pro Civitate Christiana Assisi)
BERLUSCONI
cosa dire di lui?
Raniero
La Valle
Silvio Berlusconi è stato oggetto in morte di servo encomio e di indignata critica. Si è molto discusso sull’opportunità che venisse indetto per lui il lutto nazionale, mentre è stato legittimo per l’Università senese averlo negato e averne rivendicato le ragioni. Si è anche detto che «a cadavere caldo» ci si dovesse astenere dal giudizio e che l’urgenza della cronaca comprometterebbe l’obiettività dell’analisi, e non è vero, perché altrimenti i «coccodrilli», che nel gergo giornalistico sono la rievocazione del personaggio, non si dovrebbero neanche scrivere. Ma in tutto questo, che cosa è vero di ciò che è stato detto di lui?
Non è vero che ha cambiato l’Italia. Non tutti siamo cambiati, molte cose sono cambiate ma non per causa sua, forse perfino la deriva politica di cui soffriamo sarebbe la stessa anche se lui non ci fosse stato.
Nemmeno è vero che con le televisioni commerciali più di ogni altro ha dato un’impronta alla cultura popolare del Paese; molto di più lo ha fatto Ettore Bernabei che ha dato vita alla televisione in Italia, ha creato il Servizio Pubblico, si è inventato il linguaggio televisivo, né sciatto né colto, ha intuito e mostrato il ruolo politico che nella democrazia nascente poteva esercitare quell’«elettrodomestico» come, demitizzando, chiamava la Tv.
Nemmeno è vero che Berlusconi sia stato l’«arcitaliano», cioè assimilato alla nuova identità dell’italiano medio, Interno agli umori e alle mode dei più. Omogeneo al prevalente carattere della nazione o dell’etnia, come oggi si dice. In realtà Berlusconi a questa identità prevalente è stato ed è rimasto estraneo e difforme, nessuno si è sentito paragonabile a lui per le ricchezze, nessuno per le ville e i palazzi che abitava, e se nessuno ha pagato tante tasse quanto lui, come insiste a dire il panegirico più improbabile su di lui, la grande maggioranza degli italiani le ha pagate e se le è fatte detrarre in proporzione ben più di lui, e non le ha evase come lui.
Nemmeno i maschi italiani hanno coltivato una concezione della donna come la sua, né hanno pensato le donne come godimento e come gioco, né ne hanno preservato e rilanciato lo stereotipo come lui.
La maggioranza poi della classe politica, dei parlamentari, dei pubblici ufficiali, non ha fatto ricorso, come lui, allo strumento della concussione, riconoscibile o meno che fosse come reato.
È vero invece che nella percezione della situazione internazionale egli è stato molto più perspicace, intelligente e anche patriottico dei suoi amici ed avversari; non è stato né un simil-americano, né un atlantista cieco anche se alla Nato è rimasto obbediente; ha tentato di mettere insieme Putin e l’America, Erdogan e l’Europa, ha capito l’errore della gestione di Zelensky in Ucraina e, se pure in telefonate private, ha espresso fino alla fine la sua contrarietà alle politiche che attizzano questa guerra.
È stato detto che su tutto questo il giudizio va lasciato alla storia. Ma se tutto ciò che accade fosse lasciato alla storia, non ci sarebbe nemmeno un presente da giudicare, mentre è proprio il presente che ci è dato in custodia.
Dunque in morte di Berlusconi si è aperta l’ultima partita, è restata l’ultima domanda: chi veramente egli è stato? Angelo o fiera, come dell’uomo dicevano i medioevali? Ed ecco che sulla scena è arrivata la risposta inattesa, una parola di verità e uno sprazzo di luce. Nelle esequie in duomo, l’arcivescovo di Milano ha passato la pratica a Dio. Lo ha messo nelle sue mani. il Vangelo dice di non giudicare, forse vuol dire che il giudizio è di Dio. Se poi è davvero un giudizio: la novità annunciata da papa Francesco è che in Dio c’è solo misericordia, non appare il Dio del contrappasso, bene per bene, male per male: la retribuzione. E tuttavia nell’omelia dell’arcivescovo, tutta giocata sul desiderio di vita, di amore, di felicità di qualunque uomo sulla terra, hanno fatto irruzione – non nello scritto ma nel parlato, quando l’ispirazione non è a freno – due lampi di realtà e di giudizio su quell’uomo lì, nella bara, e sul tempo storico che stiamo vivendo. Mentre il discorso evocava, in astratto, l’uomo d’affari, che «deve fare affari, ha clienti e concorrenti, si arrischia in imprese spericolate, guarda ai numeri e non ai criteri» (che nel nostro linguaggio vuol dire pensare ai profitti, anche a costo delle ingiustizie più gravi) ha corretto la frase dicendo dell’uomo d’affari: «forse si dimentica dei criteri», a significare che non è detto che l’affarista debba essere proprio così, e che non si può senz’altro affermare («forse»!) che Berlusconi fosse così. Allo stesso modo parlando dell’«uomo politico» che «cerca di vincere, ha sostenitori e oppositori, è sempre un uomo di parte», ha integrato la frase dicendo: «nei nostri tempi», a significare che se oggi accade così, non è detto che la politica debba essere così, ma che c’è un altro concetto, un’altra possibilità della politica, che non è di parte, che cerca il bene comune, nella quale non c’è il nemico, ma solo il prossimo, i cittadini, i fratelli, e che non stava a lui dire che politico fosse stato Berlusconi, ma poteva solo dire di Silvio Berlusconi: «è un uomo e ora incontra Dio».
E in tal modo a ognuno è stato lasciato alla libertà di dire la sua.
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