Visto i tempi che corrono, appare ragionevole ritenere che la vittoria al ballottaggio delle presidenziali in Turchia di Recep Tayyip Erdogan possa essere considerata più come un male minore che come un problema.
In questa fase di cambio d’epoca la Turchia è il luogo dove mondi diversi si incontrano e delicatissimi equilibri stanno in piedi nonostante tutto. Il leader turco per il successo di ieri, che lo conferma ininterrottamente al potere dal 2014 come presidente, ha significativamente ricevuto le congratulazioni sia di Zelensky che di Putin, ed è stato il primo all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina a organizzare in Turchia colloqui per tentare la pace.
L’Occidente, o più precisamente determinate élites occidentali, non fanno mistero di nutrire scarsa simpatia per l’ex sindaco di Istanbul ma, a ben vedere, alcuni degli aspetti più criticabili della gestione Erdogan non sono estranei a altrettanto discutibili scelte compiute dall’Occidente. Quasi, quasi si potrebbe dire che abbiamo contribuito noi a costruire quell’Erdogan che non ci piace, pensando di potercene disfare a nostro piacimento. Ma le cose non sono andate così. Intanto, è stata data una valutazione discutibile del processo avviato da Erdogan, a inizio secolo, prima come fondatore dell’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo e successivamente da primo ministro, di valorizzazione della cultura islamica nella sfera pubblica. Questo suo progetto è sempre stato alternativo e contrario a ogni forma di fondamentalismo religioso islamista (con il quale invece ambienti di intelligence occidentali hanno avuto rapporti poco chiari) e faceva esplicito riferimento al modello laico delle democrazie cristiane europee, seppur si discostasse dal tradizionale laicismo su cui è stata fondata la Turchia moderna di Atatürk.
Ma l’Erdogan che conosciamo, che negli anni ha saputo proporsi come indispensabile alla propria patria, risoluto (è un eufemismo) con la minoranza curda, che ha coltivato l’ambizione di fare della Turchia lo stato guida della Fratellanza Musulmana, nonché di paladina dei diritti del popolo palestinese, senza per questo rinunciare a più che buoni rapporti, al di là di qualche incidente, con Israele; che si è mostrato incline a suggestioni neo ottomane anche grazie alla sconsiderata decisione franco-americana di disintegrare la statualità libica nel 2011, che si è accodato all’invasione della Siria; che ha ricattato l’UE sugli ingestibili flussi migratori, ingrossati anche dai disastri che l’Occidente combinava in Iraq, ebbene questo Erdogan sarebbe stato inimmaginabile in assenza di precise scelte adottate in Occidente e non dal governo di Ankara se non come risposta e reazione a uno scenario che altri, non la Turchia, aveva deciso di creare.
Il fatto che ha mutato radicalmente l’atteggiamento di Erdogan verso l’Occidente fu il tentativo di colpo di stato ordito contro di lui nell’estate del 2016. Da allora il presidente turco non dà più nulla per scontato, fa pesare la forza economica (nonostante l’altalena di crisi monetarie) e militare della Turchia, ha mantenuto una posizione di sostanziale equidistanza nel conflitto russo-ucraino, e si è prontamente adeguato ai nuovi equilibri in Medio Oriente, anche ristabilendo le relazioni con la Siria.
Certo, ci sono gli interrogativi sulla qualità della democrazia turca, sulla tendenza all’autocrazia manifestata da Erdogan in questi anni, la questione dell’autonomia curda, quella dei migranti. Sono questioni che devono essere affrontate e sulle quali l’Europa non può sorvolare.
E tuttavia il realismo politico suggerisce che una Turchia interessata a mantenere buoni rapporti fra l’Occidente e le potenze asiatiche, qual è la Turchia di Erdogan, in questa fase di grande incertezza, forse risulta preferibile come fattore di stabilità globale a una Turchia più allineata all’Occidente, che si esporrebbe al rischio della possibile apertura di un nuovo fronte bellico verso la Russia. Perché quell’eventuale fronte, al posto dell’attuale salda amicizia fra Ankara e Mosca, rischierebbe di essere un corridoio verso l’imponderabile.
In questa fase di cambio d’epoca la Turchia è il luogo dove mondi diversi si incontrano e delicatissimi equilibri stanno in piedi nonostante tutto. Il leader turco per il successo di ieri, che lo conferma ininterrottamente al potere dal 2014 come presidente, ha significativamente ricevuto le congratulazioni sia di Zelensky che di Putin, ed è stato il primo all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina a organizzare in Turchia colloqui per tentare la pace.
L’Occidente, o più precisamente determinate élites occidentali, non fanno mistero di nutrire scarsa simpatia per l’ex sindaco di Istanbul ma, a ben vedere, alcuni degli aspetti più criticabili della gestione Erdogan non sono estranei a altrettanto discutibili scelte compiute dall’Occidente. Quasi, quasi si potrebbe dire che abbiamo contribuito noi a costruire quell’Erdogan che non ci piace, pensando di potercene disfare a nostro piacimento. Ma le cose non sono andate così. Intanto, è stata data una valutazione discutibile del processo avviato da Erdogan, a inizio secolo, prima come fondatore dell’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo e successivamente da primo ministro, di valorizzazione della cultura islamica nella sfera pubblica. Questo suo progetto è sempre stato alternativo e contrario a ogni forma di fondamentalismo religioso islamista (con il quale invece ambienti di intelligence occidentali hanno avuto rapporti poco chiari) e faceva esplicito riferimento al modello laico delle democrazie cristiane europee, seppur si discostasse dal tradizionale laicismo su cui è stata fondata la Turchia moderna di Atatürk.
Ma l’Erdogan che conosciamo, che negli anni ha saputo proporsi come indispensabile alla propria patria, risoluto (è un eufemismo) con la minoranza curda, che ha coltivato l’ambizione di fare della Turchia lo stato guida della Fratellanza Musulmana, nonché di paladina dei diritti del popolo palestinese, senza per questo rinunciare a più che buoni rapporti, al di là di qualche incidente, con Israele; che si è mostrato incline a suggestioni neo ottomane anche grazie alla sconsiderata decisione franco-americana di disintegrare la statualità libica nel 2011, che si è accodato all’invasione della Siria; che ha ricattato l’UE sugli ingestibili flussi migratori, ingrossati anche dai disastri che l’Occidente combinava in Iraq, ebbene questo Erdogan sarebbe stato inimmaginabile in assenza di precise scelte adottate in Occidente e non dal governo di Ankara se non come risposta e reazione a uno scenario che altri, non la Turchia, aveva deciso di creare.
Il fatto che ha mutato radicalmente l’atteggiamento di Erdogan verso l’Occidente fu il tentativo di colpo di stato ordito contro di lui nell’estate del 2016. Da allora il presidente turco non dà più nulla per scontato, fa pesare la forza economica (nonostante l’altalena di crisi monetarie) e militare della Turchia, ha mantenuto una posizione di sostanziale equidistanza nel conflitto russo-ucraino, e si è prontamente adeguato ai nuovi equilibri in Medio Oriente, anche ristabilendo le relazioni con la Siria.
Certo, ci sono gli interrogativi sulla qualità della democrazia turca, sulla tendenza all’autocrazia manifestata da Erdogan in questi anni, la questione dell’autonomia curda, quella dei migranti. Sono questioni che devono essere affrontate e sulle quali l’Europa non può sorvolare.
E tuttavia il realismo politico suggerisce che una Turchia interessata a mantenere buoni rapporti fra l’Occidente e le potenze asiatiche, qual è la Turchia di Erdogan, in questa fase di grande incertezza, forse risulta preferibile come fattore di stabilità globale a una Turchia più allineata all’Occidente, che si esporrebbe al rischio della possibile apertura di un nuovo fronte bellico verso la Russia. Perché quell’eventuale fronte, al posto dell’attuale salda amicizia fra Ankara e Mosca, rischierebbe di essere un corridoio verso l’imponderabile.
Sono pienamente d’accordo con quanto scrive l’amico Giuseppe Davicino. Tra l’altro, Erdogan ci mostra come si possa stare nella Nato mantenendo una autonomia di giudizio senza uniformarsi sempre ad ogni disposizione dettata d’oltreoceano. Tempo fa, Andrea Griseri, in un commento ad un articolo su Rinascita popolare, ha scritto che “dovremmo riuscire a spiegare agli amici americani che nel concerto atlantico-occidentale possono legittimamente ed utilmente coesistere più voci, e che una voce diversa non è una voce stonata”. Aggiungo che, entro un patto politico-militare, è proprio la possibilità di esprimere una propria voce, ancorché dissonante, che distingue la condizione di alleato da quella di satellite.