Chiamato in causa nel bell’articolo di Alberto Ceresoli di domenica 2 aprile, “Desideri e diritti. Cattolici e politica”, intervengo per mettere a fuoco alcuni punti qualificanti dell’impegno dei cattolici in politica. Prendo le mosse da tre affermazioni sul tema di altrettanti Pontefici. “La politica a servizio è una via della Carità: volete amare gli altri? Fate politica?” (Paolo II). “Sogno il ritorno diretto in politica dei Laici cattolici”, (Benedetto XVI, corsivo aggiunto). “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé”, (Francesco). Non v’è bisogno di commenti.
Eppure, nonostante questi e molti altri interventi del genere, nel corso dell’ultimo trentennio, entro il variegato mondo dell’associazionismo cattolico si è andata imponendo una posizione a dir poco ingenua – per tacer d’altro. Quella secondo cui la responsabilità del cittadino cattolico si esaurirebbe nel momento dell’impegno nel “pre-politico”, l’impegno cioè a formare le coscienze e ad illuminare le menti in materia politica. Di qui il triste fenomeno ben descritto dall’adagio: “Cattolici presenti dappertutto, irrilevanti ovunque”, dal momento che per essere rilevanti occorre entrare nei luoghi (Parlamento, governo, Assemblee regionali) deputati a intervenire sulle “strutture di peccato” di cui aveva scritto Giovanni Paolo II nella Sollecitudo Rei Socialis.
Non solo, ma è tale errata concezione che ha contribuito a far accogliere la sfortunata tesi della separazione tra “cattolici della morale e cattolici del sociale”, come ebbe ad esprimersi l’allora presidente delle CEI, cardinal Bassetti. È priva di fondamento la posizione di chi pensa che quando ci si occupa di questioni sociali (lavoro, discriminazioni, diseguaglianze, diritti sociali, ecc.), si può prescindere dalla prospettiva dell’etica cristiana, la quale c’entrerebbe solo con le questioni di bioetica, di biodiritto, familiari, educative. Come si è potuto credere (e far credere) che la cifra dell’impegno politico dei cattolici si dovesse spendere solamente per la salvaguardia di certi valori e non anche di altri?
L’esito infausto di tale grave confusione di pensiero, a sua volta conseguenza della sfortunata tesi della diaspora politica dei cattolici, non ha tardato a manifestarsi. Per un verso, il babelismo (per usare la felice espressione di J. Maritain) del mondo cattolico; per l’altro verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone portatrici di un progetto di trasformazione della società che trae il suo slancio vitale dai principi della Dottrina Sociale della Chiesa. Le lobby – di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi nella anticamera della politica, sono sempre perdenti nelle competizioni elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i canali di trasformazione degli interessi della cittadinanza verso le forze politiche.
In buona sostanza, il mondo cattolico italiano si è autoinflitto, nell’ultimo trentennio, una duplice avvilente illusione: quella di poter essere il lievito che entra nella pasta dei vari partiti per condizionarne, almeno in parte, i programmi; quella di poter esercitare con successo il potere come influenza, a prescindere dal potere come potenza. Davvero pie illusioni, come i fatti si sono poi incaricati di dimostrare.
Di quali trasformazioni – non mere riforme, si badi – il nostro Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione delle quali l’apporto del mondo cattolico non deve mancare?
Ne indico solo alcune per ragioni di spazio.
Primo, il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al modello tripolare Stato, Mercato, Comunità. Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali al principio di sussidiarietà, secondo quanto contemplato dall’art.118 della Carta Costituzionale, dal Codice del Terzo Settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora applicata non è la vera sussidiarietà, ma semplicemente un suo surrogato. Non solo, ma il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato restando entro lo schema Stato-Mercato. Un welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle condizioni di vita, esige la messa al centro della famiglia (e delle reti familiari), vista come soggetto e non come oggetto della benevolenza pubblica.
Secondo, l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò di cui l’Italia ha bisogno, se si vuole ridurre significativamente l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a danno del profitto e del salario. La stanchezza della cultura imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che è il lavoro, nella duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistiche, cooperative, imprese sociali, società benefit. Va respinta sia la prosperità senza inclusione sia l’inclusività senza prosperità.
Terzo, va trasformato il sistema Scuola-Università. Cosa c’è da trasformare? Il fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare ad essere luoghi di educazione e non solamente di istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono, nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di conazione – parola che viene dalla crasi di conoscenza e azione – ed il cui significato è quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che l’azione abbia luogo se non su una base di conoscenza. Le nostre scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani ad inserirsi “nella realtà totale”. Di qui il triste fenomeno degli abbandoni, della fuga dei cervelli e altro ancora.
Infine, occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. In breve, si tratta di questo. Il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica comune. Al tempo stesso, la vita associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su principi etici se non vuole ridursi a mero proceduralismo. Ci si rifugia così nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere compresa da tutti perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si fa, né fa mai domande: da cui il relativismo oggi dilagante.
Ebbene, la ricerca di una via attenta al rispetto del pluralismo etico e al tempo stesso capace di suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può certo essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare ad una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa vita pubblica. Invero, la comunanza che si cerca non può essere né quella propria di una comunità culturale, né quella propria di una comunità religiosa – mai si dimentichi che è con il Cristianesimo che si afferma il principio di laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è solamente concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di sistema. La intrinseca politicità della società civile deve essere riconosciuta in quanto tale e non meramente tollerata o rispettata. È in ciò il cuore del principio di sussidiarietà circolare la cui prima formulazione risale a Bonaventura da Bagnoregio, alla fine del XIII secolo.
È culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione del genere? Penso proprio di sì, purché lo si voglia, e a condizione che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né solo origine, né solo inizio. Origine e inizio si possono dimenticare con il passare del tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché da essa lo zampillo d’acqua fuoriesce in modo continuo!
Eppure, nonostante questi e molti altri interventi del genere, nel corso dell’ultimo trentennio, entro il variegato mondo dell’associazionismo cattolico si è andata imponendo una posizione a dir poco ingenua – per tacer d’altro. Quella secondo cui la responsabilità del cittadino cattolico si esaurirebbe nel momento dell’impegno nel “pre-politico”, l’impegno cioè a formare le coscienze e ad illuminare le menti in materia politica. Di qui il triste fenomeno ben descritto dall’adagio: “Cattolici presenti dappertutto, irrilevanti ovunque”, dal momento che per essere rilevanti occorre entrare nei luoghi (Parlamento, governo, Assemblee regionali) deputati a intervenire sulle “strutture di peccato” di cui aveva scritto Giovanni Paolo II nella Sollecitudo Rei Socialis.
Non solo, ma è tale errata concezione che ha contribuito a far accogliere la sfortunata tesi della separazione tra “cattolici della morale e cattolici del sociale”, come ebbe ad esprimersi l’allora presidente delle CEI, cardinal Bassetti. È priva di fondamento la posizione di chi pensa che quando ci si occupa di questioni sociali (lavoro, discriminazioni, diseguaglianze, diritti sociali, ecc.), si può prescindere dalla prospettiva dell’etica cristiana, la quale c’entrerebbe solo con le questioni di bioetica, di biodiritto, familiari, educative. Come si è potuto credere (e far credere) che la cifra dell’impegno politico dei cattolici si dovesse spendere solamente per la salvaguardia di certi valori e non anche di altri?
L’esito infausto di tale grave confusione di pensiero, a sua volta conseguenza della sfortunata tesi della diaspora politica dei cattolici, non ha tardato a manifestarsi. Per un verso, il babelismo (per usare la felice espressione di J. Maritain) del mondo cattolico; per l’altro verso, il fatto che i cattolici sono spesso percepiti come una sorta di lobby a difesa di determinati obiettivi, e non invece come una comunità di persone portatrici di un progetto di trasformazione della società che trae il suo slancio vitale dai principi della Dottrina Sociale della Chiesa. Le lobby – di “destra” o di “sinistra” che siano – se possono ottenere vantaggi nella anticamera della politica, sono sempre perdenti nelle competizioni elettorali, per la semplice ragione che non sono in grado di organizzare i canali di trasformazione degli interessi della cittadinanza verso le forze politiche.
In buona sostanza, il mondo cattolico italiano si è autoinflitto, nell’ultimo trentennio, una duplice avvilente illusione: quella di poter essere il lievito che entra nella pasta dei vari partiti per condizionarne, almeno in parte, i programmi; quella di poter esercitare con successo il potere come influenza, a prescindere dal potere come potenza. Davvero pie illusioni, come i fatti si sono poi incaricati di dimostrare.
Di quali trasformazioni – non mere riforme, si badi – il nostro Paese ha oggi grandemente bisogno, trasformazioni per l’attuazione delle quali l’apporto del mondo cattolico non deve mancare?
Ne indico solo alcune per ragioni di spazio.
Primo, il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e Mercato, e quindi sulle due categorie del pubblico e del privato, al modello tripolare Stato, Mercato, Comunità. Solamente attuando una tale trasformazione è possibile dare ali al principio di sussidiarietà, secondo quanto contemplato dall’art.118 della Carta Costituzionale, dal Codice del Terzo Settore (D. Lgs. 117/2017) e della innovativa sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale. Quella finora applicata non è la vera sussidiarietà, ma semplicemente un suo surrogato. Non solo, ma il passaggio, da tutti invocato, dall’obsoleto modello di Welfare State a quello di Welfare Society mai potrà essere realizzato restando entro lo schema Stato-Mercato. Un welfare delle capacità di vita, in sostituzione dell’attuale welfare delle condizioni di vita, esige la messa al centro della famiglia (e delle reti familiari), vista come soggetto e non come oggetto della benevolenza pubblica.
Secondo, l’impianto del nostro assetto economico-istituzionale è ancora prevalentemente di tipo estrattivo. È di istituzioni economiche inclusive ciò di cui l’Italia ha bisogno, se si vuole ridurre significativamente l’area della rendita che, nell’ultimo quarantennio, si è andata espandendo a danno del profitto e del salario. La stanchezza della cultura imprenditoriale (e il declino dei livelli di produttività), oltre che il nanismo del sistema di impresa, trovano in questo la loro causa principale. Lo stesso dicasi della condizione di sofferenza delle famiglie, soprattutto di quelle numerose, ingiustamente penalizzate. Se si crede che è il lavoro, nella duplice dimensione acquisitiva ed espressiva, è fattore decisivo di libertà, oltre che di benessere, allora occorre dire che è l’impresa che crea lavoro. Ma l’impresa nella molteplicità delle sue forme: capitalistiche, cooperative, imprese sociali, società benefit. Va respinta sia la prosperità senza inclusione sia l’inclusività senza prosperità.
Terzo, va trasformato il sistema Scuola-Università. Cosa c’è da trasformare? Il fondamento stesso del sistema: scuola e università devono tornare ad essere luoghi di educazione e non solamente di istruzione. All’origine della crisi della scuola vi è l’abbandono, nel corso dell’ultimo secolo, del concetto aristotelico di conazione – parola che viene dalla crasi di conoscenza e azione – ed il cui significato è quello di porre la conoscenza al servizio dell’azione e di non consentire che l’azione abbia luogo se non su una base di conoscenza. Le nostre scuole e università veicolano bensì conoscenza, pure di buon livello, grazie alle riforme dell’istruzione dei passati decenni, ma non aiutano i giovani ad inserirsi “nella realtà totale”. Di qui il triste fenomeno degli abbandoni, della fuga dei cervelli e altro ancora.
Infine, occorre porre mano alla vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. In breve, si tratta di questo. Il pluralismo contemporaneo per definizione rifiuta l’idea di un’etica comune. Al tempo stesso, la vita associata – e soprattutto la politica – esige una comunanza (la koinotes di Aristotele) fondata su principi etici se non vuole ridursi a mero proceduralismo. Ci si rifugia così nel relativismo nella convinzione che il metodo dello svincolo (avoidance) sia l’unica strada percorribile per evitare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale. Che si tratti di beffarda illusione dovrebbe essere compresa da tutti perché chi crede di sapere, non sapendo di credere, non si fa, né fa mai domande: da cui il relativismo oggi dilagante.
Ebbene, la ricerca di una via attenta al rispetto del pluralismo etico e al tempo stesso capace di suggerire una comunanza etica significativa è la grande missione del mondo cattolico in questo tempo. Una società del pluralismo non può certo essere sorretta da un’etica univoca, ma può aspirare ad una inter-etica generata dall’incontro di quelle varietà culturali che abitano la stessa vita pubblica. Invero, la comunanza che si cerca non può essere né quella propria di una comunità culturale, né quella propria di una comunità religiosa – mai si dimentichi che è con il Cristianesimo che si afferma il principio di laicità – ma quella di una comunità politica che rifiuta decisamente l’orizzonte hobbesiano (tuttora in auge) secondo cui l’agire politico è solamente concentrato dentro le istituzioni rappresentative. Il modello hobbesiano non funziona più, ma continua a produrre ruoli di sistema. La intrinseca politicità della società civile deve essere riconosciuta in quanto tale e non meramente tollerata o rispettata. È in ciò il cuore del principio di sussidiarietà circolare la cui prima formulazione risale a Bonaventura da Bagnoregio, alla fine del XIII secolo.
È culturalmente attrezzato il nostro mondo cattolico per una missione del genere? Penso proprio di sì, purché lo si voglia, e a condizione che mai ci si dimentichi della sorgente. La quale è né solo origine, né solo inizio. Origine e inizio si possono dimenticare con il passare del tempo, ma non ci si può dimenticare della sorgente, perché da essa lo zampillo d’acqua fuoriesce in modo continuo!
Parlare di “cattolici della morale e cattolici del sociale” è una contraddizione: infatti, la Dottrina Sociale della Chiesa è parte della Teologia morale. Concordo, quindi, con quanto ribadito dal prof. Zamagni. Vorrei integrare sostenendo che, come insegnato da Sturzo, un partito non può essere cattolico (cattolico significa universale, non parte), ma formato da cattolici, ricchi della fede e dei valori conseguenti, e da uomini di buona volontà. Il nodo di questo partito saranno le alleanze e la collocazione europea (il Partito Popolare Europeo è di centrodestra, rappresentato in Italia da Forza Italia…). Per quanto riguarda il nome, che non è poco importante, poiché la dicitura Partito Popolare Italiano è, a quanto pare, soggetta a copyright, proporrei Partito Democratico Popolare.
Egr. S. Zamagni,
per me resta di difficile risoluzione ed attuazione una comunanza etica che comprenda cattolici e altri movimenti che rifiutano l’etica cattolica, giudicata retriva, opprimente, anti libertà. Non potrei e non ho mai potuto collaborare con chi per esempio ammette l’aborto come diritto e l’eutanasia e la droga libera e non solo per il mio credo, ma anche perché questi atti sono contro il diritto naturale. Vorrebbe per me dire non solo rinunciare alla mia Fede, ma anche alla ragione per consegnarmi interamente ad uno spietato relativismo. Da cattolico come potrei contemplare un Crocefisso sul quale si sono concentrati l’avarizia, l’orgoglio, l’odio, l’ingratitudine, l’ambizione di tutto l’umanità passata e presente e anche quella che verrà? Come avrei il coraggio di chiedergli perdono? Dove si situerebbe il pluralismo etico da Lei invocato?