Guerra in Ucraina, un anno dopo



Aldo Novellini    25 Febbraio 2023       2

Un anno fa, l’attacco russo dell’Ucraina. Quel mattino del 24 febbraio 2022 i carri armati di Mosca, gli stessi che in anni lontani erano stati simbolo di oppressione a Praga, Budapest e Varsavia, violavano il confine ucraino con l’obiettivo – questa l’intenzione del presidente russo Vladimir Putin - di conquistare l’intero Paese. O meglio di denazificarlo, come recitava, e recita tutt’ora, la propaganda del Cremlino. Non una guerra ma un' “operazione speciale”: rimettere cioè semplicemente ordine in casa propria poiché per la Russia quella ucraina era soltanto una sovranità fittizia. Ben pochi, un anno fa, pensavano che l’Ucraina avrebbe resistito e che sotto la guida di Volodymyr Zelenski - fino a poco prima ritenuto un attore televisivo asceso quasi per caso alla presidenza – tutto un popolo si sarebbe rivoltato contro l’invasore. Così l’Occidente, già pronto a recitare il de profundis sull’indipendenza ucraina, si è dovuto ricredere. Il sostegno organizzativo e militare è stata la logica conseguenza dello scatto di dignità di una nazione che ha innalzato la bandiera giallo-blu contro un nemico che voleva asservirlo.

A un anno di distanza molto è mutato nello scacchiere internazionale. L'ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia, da sempre tenacemente neutrali, è molto significativa di quanto l'aggressione russa abbia cambiato la percezione della propria sicurezza dei due Paesi scandinavi. Scontata, anche se non immediata, l'adesione dell'Ucraina all'Unione europea e in prospettiva probabilmente anche al Patto atlantico, del resto già oggi è come se Kiev facesse parte dell'alleanza.

Sul fronte militare l'inverno ha parzialmente rallentato le operazioni, sebbene i bombardamenti siano comunque proseguiti. Da settimane si attende l'inizio di una nuova offensiva russa per il controllo di alcune zone riconquistate dagli ucraini. Putin ha anche accennato alla Transnistria, regione russofona appartenente alla Moldova dalla quale vorrebbe rendersi indipendente. Un'aspirazione che Mosca non ha mai apertamente sostenuto ma che adesso potrebbe fornire qualche pretesto per fomentare disordini e offrire magari l'alibi per aggredire l'Ucraina da ovest. Difficile che una manovra del genere possa realmente concretizzarsi ma anche solo evocarla rappresenta un ulteriore elemento di tensione.

Chiaro che occorra trovare una via di uscita a questo conflitto assurdo. Già, ma quale? Cedere al ricatto moscovita che vuole annettere il Donbass dopo averlo raso al suolo? Sarebbe un invito a nozze per qualsiasi altro Paese canaglia che in nome di presunte rivendicazioni nazionali si sentirebbe in dovere di colpire l’indipendenza e la sovranità altrui. Qualcosa di inaccettabile.

Con un'escalation sempre dietro l'angolo, occorre comunque puntare ad un cessate del fuoco, il solo realistico passo in avanti nell'attuale insanabile contrapposizione tra i due fronti. La Cina - che appoggia sottotraccia Mosca ma non ha certo in uggia Kiev - ha presentato un piano di dodici punti da analizzarsi a fondo. Pechino si sofferma sul rispetto della sovranità di ogni Paese, su una sicurezza globale da ricercarsi attraverso il dialogo, sulla salvaguardia delle centrali nucleari, sulla necessità di preservare le forniture alimentari e di proteggere civili e prigionieri.

Alcuni punti sono, o dovrebbero essere, condivisi da tutti, per questo pare avventato il giudizio negativo espresso da Stati Uniti ed Unione europea. Si tratta di una prima pista di lavoro non di un documento da accantonare frettolosamente. E' infatti giunta l'ora di provare ad individuare un minimo comune denominatore e da quello imbastire un percorso che porti verso la cessazione del fuoco. Serve però la cooperazione di Europa, Cina e Stati Uniti: solo un'azione congiunta di questa triade può aver successo. Poi si potrebbe immaginare una forza di interposizione Onu nei territori contesi.

Per questo, pur sostenendo con tutti i mezzi la resistenza ucraina, sarebbe opportuno riflettere sull'invio degli aerei richiesti da Zelenski. Essi rappresentano un salto di qualità offensivo che si potrebbe tenere come ulteriore colpo in canna qualora non dovesse in alcun modo decollare l'opzione di una tregua.

L'Italia si sta muovendo sulla linea europea di pieno sostegno militare a Kiev. E' però insensato tarpare le ali a qualsiasi tentativo di ragionamento che si discosti dal clima generale. Che un ex presidente del Consiglio come Silvio Berlusconi evochi i tempi di Pratica di Mare quando Russia e Stati Uniti dialogavano pacificamente sugli assetti mondiali, merita una riflessione. Non significa abbassare la guardia – l'Ucraina resta la vittima, la Russia rimane l'aggressore – ma soltanto aver presente che la guerra non è ineluttabile. Larga parte della nostra classe politica sembra averlo dimenticato: bene fa il Cavaliere a squarciare il velo di questa pericolosa amnesia collettiva.


2 Commenti

  1. Il piano presentato dalla Cina muove da valutazioni pragmatiche, dettate da interessi economici e geopolitici.
    La pandemia e la guerra russo-ucraina hanno causato un forzato rallentamento del commercio estero cinese verso i ricchi mercati americani ed europei, e un’imprevista stasi nella prosecuzione del progetto della nuova via della seta.
    Inoltre, la Federazione Russa, con “l’operazione speciale ucraina”, sta mostrando tutti i suoi grandi limiti di grande potenza, a tutto vantaggio della Cina che vede davanti a sé campo libero, nella contesa con gli Usa, per la conquista della leadership mondiale.
    Nel solco della realpolitik sarebbe auspicabile, pertanto, sviluppare quegli aspetti del piano cinese potenzialmente capaci di incrinare la rigidità delle contrapposte posizioni russo-ucraine.

  2. Mi intrometto sommessamente nel dibattito cercando di proporre all’attenzione ulteriori elementi di riflessione. Ben consapevole della estrema complessità e delicatezza delle questioni trattate. Muovo da alcuni punti fermi: l’aggressore russo, l’aggredito ucraino, l’inerme pleiade europea, i cinici provvidenziali Stati Uniti d’America, la pragmatica Cina, i terzi interessati. Tutti costoro sono stati protagonisti o succubi della prima Rivoluzione Industriale (Termo-Vapore), della seconda (Energia Elettrica) e sono protagonisti consapevoli o loro malgrado della terza, la Rivoluzione Informatica (nel tempo della globalizzazione). Il percorso del transito dalla seconda alla terza, contemporanea, temporalmente definito nel XX secolo, il “secolo breve”, possiamo riassumerlo nell’era “fordista”. Rappresentata dalla “catena di montaggio” dell’industria meccanica, automobilistica (Tempi Moderni di Chaplin docet), principale vettore di crescita sociale e economica delle classi lavoratrici. L’incipit furono gli accordi di Bretton Woods nel 1943, dove gli USA, adottando il modello di sviluppo proposto da John Maynard Keynes, si intestarono il ruolo di traino del mondo occidentale. Lo sviluppo economico e sociale dei paesi aderenti che portò alle società del benessere, divenne in un trentennio fattore di competizione con la locomotiva. Possiamo rappresentarlo, in estrema sintesi, dall’acceso confronto Ford statunitense Vs Ferrari Europea (e italiana…), espressi nella più importante corsa automobilistica mondiale del tempo: la ventiquattr’ore di Le Mans. Dominata nella prima metà degli anni sessanta dalla Ferrari 250 nei vari allestimenti sviluppati, nella seconda metà dalla Ford GT 40. Tale confronto costò a Henry Ford III l’assunzione a peso d’oro dei migliori preparatori, progettisti e piloti americani e la totalità degli investimenti, a scapito della produzione di serie. Golia contro Davide. Tutto ciò dopo aver tentato invano l’acquisizione della Ferrari, poi entrata nell’orbita Fiat ma questa è un’altra storia. Il resto del mondo assisteva disarmato alla supremazia tecnologica del mondo occidentale. Con l’eccezione dell’Unione Sovietica che affrontava gli USA sui piani degli armamenti nucleari e delle tecnologie spaziali, affamando e sottomettendo i popoli che la componevano. Arrivarono poi i giapponesi e successivamente le “tigri asiatiche”. Il costo dell’operazione per la Ford come per gli Stati Uniti (ecco l’analogia) si rivelò insostenibile. La volontà suprematista della Ford (al costo di subire la stra-vittoria di quattro Ferrari P4 arrivate al traguardo in parata a Sebring nel 1967) fù pari a quella degli Stati Uniti nel mondo. La inedita competizione economica tra locomotiva e vagoni indusse Richard Nixon a prendere una decisione drastica: il 15 agosto del 1971 deliberò unilateralmente di interrompere i Trattati di Bretton Woods firmati nel 1943, motore regolamentato dello sviluppo socio-economico del mondo occidentale, locomotiva a trazione globale. Tecnicamente sospese la convertibilità del dollaro in oro, rompendo la stabilità dei cambi monetari che si basavano su tale accordo. Il resto è noto, tempeste valutarie, monete sull’ottovolante, il “serpente monetario”, la crisi petrolifera, la crisi della grande industria, lo SME… la fine dell’era “Fordista”. Quel giorno nacque la globalizzazione. Intesa come un grande caos dove gli USA immaginavano di avere saldo in mano il timone. Tanto da riconoscere la Cina comunista di Mao in luogo della Cina nazionalista firmataria dei Patti di YALTA. La storia insegna che le grandi decisioni trascinano sempre dietro di loro conseguenze imprevedibili. Se Nixon pensò di limitare lo sviluppo dei paesi europei consolidando il primato USA e fagocitando la Cina del Ping-Pong, ottenne l’effetto contrario. Un po’ come Putin oggi, in contesto diverso. I capitalismi anglosassone, renano e i modelli francese e italiano reagirono in maniera diversa ma feconda, ognuno con le proprie specificità. Idem fece il Giappone. E nel 1991 fu istituita in quel di Maastricht l’Unione Monetaria, madrina dell’Euro e prodromo degli eventi politici europei odierni (firmatario per l’Italia il compianto Guido Carli ministro del Tesoro dell’ultimo governo Andreotti). Nel frattempo la caduta del muro di Berlino, lo sviluppo dell’area asiatica, la restituzione di Hong-Kong alla Cina e il suo ingresso nel WTO presieduto da Renato Ruggero (senza contropartita in merito ai diritti internazionalmente riconosciuti), la guerra delle Falkland-Malvinas, lo “Scudo Spaziale”, il fermo confronto Usa-Italia sui terroristi libici, gli accordi di pace Arafat-Rabin auspice Bill Clinton, l’Afghanistan, la Cecenia, le “Torri gemelle”, “the Desert Storm” in Iraq, le atrocità commesse da Assad in Siria, la “primavera araba”, l’abbattimento di Gheddafi e Bin Laden, i Curdi ripetutamente usati e abbandonati, la Brexit. La storia è maestra di vita ma paradossalmente non insegna nulla. Così gli Usa ci riprovano con la crisi dei “Prime rate” nel 2007, innescando una profonda crisi finanziaria europea e mondiale. Probabilmente confidando nella mediocrità delle classi dirigenti europee. Invece i paesi europei, all’epoca a guida tedesca, non si scompongono e nonostante i disaccordi tra paesi latini, nordici e mitteleuropei, sotto la sapiente guida del presidente della BCE Mario Draghi e il suo ”Whatever it takes” reagiscono difendendosi anche stavolta. Nel frattempo, Putin comincia il suo espansionismo e occupa l’Ossezia in Georgia. In parallelo agli eventi susseguitisi la “rivoluzione informatica” si è consolidata e ha definito inesorabilmente i propri contorni. Nutre di tecnologie avanzate i sistemi militari, la green economy, i dispositivi tecnologici come i magneti permanenti, le batterie ricaricabili, gli smartphone, le fotocamére digitali, le luci a led. Per alimentare il sistema industriale Hi-Tech mondiale occorrono terre rare e metalli preziosi. Silicio, berillio, litio, tantalio, niobio, neon, zirconio, titanio, uranio, grafite, manganese. La concentrazione più importante dei quali si trova a Taiwan e nel Donbass. Guarda che combinazione! Si potrebbe quasi pensare che l’allargamento a est della Nato sia solo un pretesto per la “operazione militare speciale”. Così come la presenza della flotta Statunitense nel Pacifico relativa alle imponenti esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan. Probabilmente il nuovo Ordine Mondiale Multipolare che dovrà sostituire necessariamente quello uscito da YALTA, ha bisogno di attori protagonisti compresi della situazione, protesi verso la Pace e capaci di delineare “società del benessere” interdipendenti, non più solo dedite a depredare quelle più povere come l’Africa o invadere i territori ricchi di risorse minerarie pregiate. Gli ambigui dodici punti cinesi non vanno rigettati a prescindere e nemmeno accettati aprioristicamente, si potrebbe utilizzare il clima che ne è derivato per proporre un piano alternativo, magari come Unione Europea. Potrebbe essere finalmente un punto di svolta per aprire una complicata ma ineludibile trattativa. E assumere un ruolo politico. Autonomo e autorevole. Utopie? Chissà!
    E gli ex “POPOLARI”? Hanno voglia di ritornare a essere protagonisti del “centro politico” nel mondo che cambia e da ridefinire nei propri contorni o sono troppo distratti dalla Schlein che ha riposizionato il suo partito nell’alveo naturale della sinistra massimalista e relativista contingentando gli strapuntini disponibili?
    Maurizio Trinchitella
    Socio Fondatore Associazione i Popolari del Piemonte nello Studio Tavolaccini a Biella

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