La solidarietà tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione europea sul fronte della guerra in Ucraina si sta incrinando di fronte all’impatto economico della crisi delle relazioni geopolitiche per gli aiuti finanziari messi in campo dai singoli Governi nazionali per rafforzare il posizionamento delle imprese nazionali nell’ambito del riposizionamento delle filiere di produzione internazionali.
Per questa finalità è in corso una mobilitazione di risorse finanziarie che non ha precedenti storici, fatti salvi quelli coincidenti con le due guerre mondiali. In effetti, una quota significativa dei nuovi investimenti è per tutelare le informazioni e le reti digitali dalle forme di aggressione e di hackeraggio che stanno diventando una parte integrante delle guerre non dichiarate. Tutto ciò ha provocato un ribaltamento dei paradigmi che hanno orientato le politiche economiche degli ultimi trent’anni per sfruttare i vantaggi economici derivanti dalla liberalizzazione dei mercati, comprovati dalla straordinaria crescita delle economie e degli scambi commerciali, con effetti paralleli destabilizzanti per le relazioni tra gli Stati e per i livelli di coesione al loro interno.
I termini re-shoring, friend shoring, near-shoring, utilizzati nel linguaggio economico recente per significare l’opportunità di riportare alcune delle componenti strategiche della produzione nell’ambito aziendale o nei contesti territoriali privi di rischi, tendono a marcare l’importanza di orientare le scelte di politica industriale dei Governi e quelle degli investimenti delle singole imprese contemperando i vantaggi economici derivanti dai fattori di costo con quelli relativi alla continuità degli approvvigionamenti di materie prime, tecnologie e componenti della produzione e dei servizi. Un’evoluzione che sta portando molti osservatori economici a ipotizzare l’esaurimento del ciclo economico della globalizzazione dei mercati e il ritorno a un sistema di scambi commerciali fondato sui rapporti di forza tra le grandi aree economiche.
I dati a disposizione relativi all’andamento degli scambi commerciali degli ultimi due anni non sembrano confortare queste ipotesi. I rapporti consolidati dalle singole imprese con le reti dei fornitori e l’opportunità di mantenere il posizionamento acquisito sui mercati internazionali in espansione rendono difficile l’abbandono delle precedenti strategie aziendali. Questo vale soprattutto per il sistema delle piccole e medie imprese dove i costi dei disinvestimenti e il riposizionamento delle produzioni sono più difficili da sostenere.
Ma ciò che è vero per il tessuto produttivo esistente lo è assai di meno per le nuove scelte di investimento che devono tener conto delle scelte dei Governi tese a salvaguardare il peso delle proprie economie nazionali nell’ambito della transizione digitale e ambientale destinata a influenzare gli assetti futuri delle produzioni e dei servizi. Tutto ciò è già visibile nelle strategie aziendali delle grandi multinazionali, le cosiddette Big Tech, che con il concorso delle nuove tecnologie hanno accompagnato la diffusione delle produzioni e dei servizi in ambito globale, che attualmente stanno operando dei tagli consistenti del personale.
Lo svantaggio europeo sul terreno dell’approvvigionamento delle materie prime e delle tecnologie essenziali per sviluppare le reti digitali e le energie rinnovabili è molto rilevante rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Il declino demografico comprime le potenzialità di espansione del mercato interno. La complessità degli interessi nazionali e dell’architettura delle istituzioni dell’UE impedisce di assumere le decisioni in tempi rapidi e di mobilitare risorse adeguate per lo scopo.
La costruzione delle politiche industriali europee è stata orientata dalla bussola della liberalizzazione del mercato interno e della riduzione degli aiuti finanziari e normativi da parte dei singoli Stati aderenti verso le imprese nel proprio territorio, per non distorcere le regole della concorrenza.
Il cambio di paradigma imposto dagli eventi è radicale, tanto da indurre la Germania e la Francia a richiedere la sospensione fino al 2025 delle regole che vietano gli aiuti di Stato per ampliare i volumi di intervento a sostegno delle proprie imprese. Con l’effetto immediato di alterare la concorrenza interna del mercato europeo con un aumento degli incentivi per l’attrazione degli investimenti e per ridurre i costi delle imprese che si insediano nel loro territorio. Cosa in via di fatto impedita per gli Stati più indebitati verso i quali viene imposto un limite per l’espansione del debito pubblico.
Un cambio di rotta che può comportare effetti nefasti per la tenuta delle relazioni interne all’UE, dato che la contemporanea promessa di istituire un fondo europeo per gli investimenti finalizzato ad accelerare la transizione energetica e digitale e a rafforzare la competitività delle aziende europee non riscontra un consenso unanime tra i Paesi aderenti.
La debolezza dell’impianto delle politiche industriali europee risulta aggravata dalla tentazione di supplire portando all’esasperazione il vizio storico di imporre il raggiungimento degli obiettivi, nel caso specifico per la sostenibilità ambientale (le auto elettriche e la classificazione energetica delle abitazioni), a colpi di regolamenti che comportano investimenti costosi, in particolare per l’Italia.
In questo contesto è importante focalizzare l’interesse nazionale per l’obiettivo di rendere attrattivo il nostro Paese per i nuovi investimenti per volumi e intensità che non hanno precedenti.
La nostra industria manifatturiera, e in generale le aziende che esportano, hanno dimostrato una capacità di resilienza e di espansione del fatturato decisamente superiore a quella di molti grandi Paesi sviluppati grazie a una forte diversificazione delle produzioni e dei Paesi che le acquistano, ma rimane contenuta la capacità di attrarre nuovi investimenti; di mobilitare le risorse disponibili da parte delle pubbliche amministrazioni; e stanno aumentando gli squilibri interni tra settori, territori e nel mercato del lavoro. Questi ultimi destinati ad aggravare ulteriormente per via dell’invecchiamento e della riduzione delle persone in età di lavoro.
Di fronte a questi ritardi, e in particolare all’evidente difficoltà di utilizzare i fondi già disponibili del Next Generation EU, il nostro Governo ha messo le mani avanti ipotizzando la possibilità di utilizzare in modo flessibile questi fondi per rafforzare il tiraggio degli investimenti verso il sistema delle imprese. Ma ingranare la giusta marcia rischia di non essere sufficiente per aumentare la velocità di un’automobile con il motore imballato. La metafora richiama la perenne incapacità della nostra classe dirigente di focalizzare e convergere su un nucleo di riforme in grado di mobilitare risorse ed energie per questo scopo.
(Tratto da www.ilussidiario.net)
Per questa finalità è in corso una mobilitazione di risorse finanziarie che non ha precedenti storici, fatti salvi quelli coincidenti con le due guerre mondiali. In effetti, una quota significativa dei nuovi investimenti è per tutelare le informazioni e le reti digitali dalle forme di aggressione e di hackeraggio che stanno diventando una parte integrante delle guerre non dichiarate. Tutto ciò ha provocato un ribaltamento dei paradigmi che hanno orientato le politiche economiche degli ultimi trent’anni per sfruttare i vantaggi economici derivanti dalla liberalizzazione dei mercati, comprovati dalla straordinaria crescita delle economie e degli scambi commerciali, con effetti paralleli destabilizzanti per le relazioni tra gli Stati e per i livelli di coesione al loro interno.
I termini re-shoring, friend shoring, near-shoring, utilizzati nel linguaggio economico recente per significare l’opportunità di riportare alcune delle componenti strategiche della produzione nell’ambito aziendale o nei contesti territoriali privi di rischi, tendono a marcare l’importanza di orientare le scelte di politica industriale dei Governi e quelle degli investimenti delle singole imprese contemperando i vantaggi economici derivanti dai fattori di costo con quelli relativi alla continuità degli approvvigionamenti di materie prime, tecnologie e componenti della produzione e dei servizi. Un’evoluzione che sta portando molti osservatori economici a ipotizzare l’esaurimento del ciclo economico della globalizzazione dei mercati e il ritorno a un sistema di scambi commerciali fondato sui rapporti di forza tra le grandi aree economiche.
I dati a disposizione relativi all’andamento degli scambi commerciali degli ultimi due anni non sembrano confortare queste ipotesi. I rapporti consolidati dalle singole imprese con le reti dei fornitori e l’opportunità di mantenere il posizionamento acquisito sui mercati internazionali in espansione rendono difficile l’abbandono delle precedenti strategie aziendali. Questo vale soprattutto per il sistema delle piccole e medie imprese dove i costi dei disinvestimenti e il riposizionamento delle produzioni sono più difficili da sostenere.
Ma ciò che è vero per il tessuto produttivo esistente lo è assai di meno per le nuove scelte di investimento che devono tener conto delle scelte dei Governi tese a salvaguardare il peso delle proprie economie nazionali nell’ambito della transizione digitale e ambientale destinata a influenzare gli assetti futuri delle produzioni e dei servizi. Tutto ciò è già visibile nelle strategie aziendali delle grandi multinazionali, le cosiddette Big Tech, che con il concorso delle nuove tecnologie hanno accompagnato la diffusione delle produzioni e dei servizi in ambito globale, che attualmente stanno operando dei tagli consistenti del personale.
Lo svantaggio europeo sul terreno dell’approvvigionamento delle materie prime e delle tecnologie essenziali per sviluppare le reti digitali e le energie rinnovabili è molto rilevante rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Il declino demografico comprime le potenzialità di espansione del mercato interno. La complessità degli interessi nazionali e dell’architettura delle istituzioni dell’UE impedisce di assumere le decisioni in tempi rapidi e di mobilitare risorse adeguate per lo scopo.
La costruzione delle politiche industriali europee è stata orientata dalla bussola della liberalizzazione del mercato interno e della riduzione degli aiuti finanziari e normativi da parte dei singoli Stati aderenti verso le imprese nel proprio territorio, per non distorcere le regole della concorrenza.
Il cambio di paradigma imposto dagli eventi è radicale, tanto da indurre la Germania e la Francia a richiedere la sospensione fino al 2025 delle regole che vietano gli aiuti di Stato per ampliare i volumi di intervento a sostegno delle proprie imprese. Con l’effetto immediato di alterare la concorrenza interna del mercato europeo con un aumento degli incentivi per l’attrazione degli investimenti e per ridurre i costi delle imprese che si insediano nel loro territorio. Cosa in via di fatto impedita per gli Stati più indebitati verso i quali viene imposto un limite per l’espansione del debito pubblico.
Un cambio di rotta che può comportare effetti nefasti per la tenuta delle relazioni interne all’UE, dato che la contemporanea promessa di istituire un fondo europeo per gli investimenti finalizzato ad accelerare la transizione energetica e digitale e a rafforzare la competitività delle aziende europee non riscontra un consenso unanime tra i Paesi aderenti.
La debolezza dell’impianto delle politiche industriali europee risulta aggravata dalla tentazione di supplire portando all’esasperazione il vizio storico di imporre il raggiungimento degli obiettivi, nel caso specifico per la sostenibilità ambientale (le auto elettriche e la classificazione energetica delle abitazioni), a colpi di regolamenti che comportano investimenti costosi, in particolare per l’Italia.
In questo contesto è importante focalizzare l’interesse nazionale per l’obiettivo di rendere attrattivo il nostro Paese per i nuovi investimenti per volumi e intensità che non hanno precedenti.
La nostra industria manifatturiera, e in generale le aziende che esportano, hanno dimostrato una capacità di resilienza e di espansione del fatturato decisamente superiore a quella di molti grandi Paesi sviluppati grazie a una forte diversificazione delle produzioni e dei Paesi che le acquistano, ma rimane contenuta la capacità di attrarre nuovi investimenti; di mobilitare le risorse disponibili da parte delle pubbliche amministrazioni; e stanno aumentando gli squilibri interni tra settori, territori e nel mercato del lavoro. Questi ultimi destinati ad aggravare ulteriormente per via dell’invecchiamento e della riduzione delle persone in età di lavoro.
Di fronte a questi ritardi, e in particolare all’evidente difficoltà di utilizzare i fondi già disponibili del Next Generation EU, il nostro Governo ha messo le mani avanti ipotizzando la possibilità di utilizzare in modo flessibile questi fondi per rafforzare il tiraggio degli investimenti verso il sistema delle imprese. Ma ingranare la giusta marcia rischia di non essere sufficiente per aumentare la velocità di un’automobile con il motore imballato. La metafora richiama la perenne incapacità della nostra classe dirigente di focalizzare e convergere su un nucleo di riforme in grado di mobilitare risorse ed energie per questo scopo.
(Tratto da www.ilussidiario.net)
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