Dopo le ultime elezioni in Lombardia e Lazio, lasciando i commenti più propriamente politici, credo si possano fare due considerazioni generali.
La prima considerazione deve riguardare l’astensionismo sempre più in aumento.
Non è un dato nuovo, ma come certe malattie che sono latenti o tenute a bada con farmaci per un certo tempo, di colpo è esploso. A Roma città ha votato solo il 35%, nell’intero Lazio il 37%. In Lombardia si è recato alle urne il 41,6%: Il record negativo risaliva al 2010, quando votò il 64,6% dei lombardi.
Già alle ultime comunali l’astensionismo si era manifestato chiaramente, sia al primo turno e ancor più ai ballottaggi. Ma il record storico negativo è stato per ora toccato il 16 gennaio 2021 alle elezioni suppletive per la Camera nel collegio di Roma 1, lasciato libero da Gualtieri eletto sindaco. Alle urne si reca solo l’11,3% degli elettori: vale a dire poco più di 21 mila su oltre 185 mila aventi diritto. Elezioni vinte da Cecilia D’Elia (PD) con il 59,43% dei consensi. Entusiastico il commento del segretario del PD Letta: «Il successo di Cecilia D’Elia è un gran bel segnale, ottimo viatico per una settimana importante. #VivaCecilia». E quello di Nicola Zingaretti «Felice per la vittoria del centrosinistra nel cuore di Roma. Complimenti, buon lavoro e un grande abbraccio a @ceciliadelia e un immenso grazie alle volontarie e ai volontari che in queste settimane controcorrente hanno combattuto per questa bella vittoria».
Solo Calenda, pur felicitandosi per “lo straordinario risultato”, sottolineava che “il dato vero è l’affluenza tragica”. Non era andata molto meglio nelle elezioni precedenti (marzo 2020) quando nello stesso collegio, vinto da Gualtieri, aveva votato appena il 17,66 per cento. Vota quindi una élite, un po’ come succedeva nell’800 quando il diritto di voto era dato per censo?
L’astensionismo andrebbe preso un po’ più sul serio non solo da chi di volta in volta perde ma anche da chi vince. Così alla lunga si logora la democrazia di massa.
Perché la grande maggioranza non va più a votare? Chi se lo chiede seriamente?
Abbozzo un mio parere. Limitandomi a una sola considerazione che ritengo la principale (ce ne sono ovviamente anche altre): metterei al primo posto un problema culturale, di valori. Se, come ho già scritto, il “culto” del nostro tempo è “il culto di noi stessi”, un individualismo accentuato ed edonista, non si è certo attratti da tutto ciò che è impegno sociale, condivisione di un ideale.
Le persone, mi si dirà, sono sempre state in fondo egoiste: è vero ma se ieri era considerato un vizio oggi è considerata quasi una virtù.
E qui vengo al secondo argomento di riflessione su un evento di spettacolo che è stato fatto diventare un guazzabuglio, quasi la caricatura di un grande convegno culturale e politico. Una manifestazione che qualcuno potrebbe pensare sfruttata da decisori occulti, come succede per gli eventi di massa nei regimi totalitari, per fare propaganda, per affermare l’ideologia di regime: al di là della buona o cattiva fede del popolare conduttore di turno, al quale, poi, infine interessa solo fare audience, come a un disinvolto commerciante cui interessa solo vendere il cacao anche se dentro ci ha messo i fondi del caffè.
Naturalmente mi riferisco al Festival di Sanremo, oggetto, non per nulla subito dopo il voto, degli attacchi del centrodestra che minaccia di “fare pulizia in Rai”.
L’azienda pubblica avrebbe dovuto avere più rispetto, oltre che delle idee di tutti, anche del Presidente della Repubblica Mattarella, il quale viene fatto presenziare a una kermesse di dubbio gusto e confusionaria: basti pensare al previsto messaggio video di di Zelensky, poi retrocesso alle 2 di notte, e ridotto a uno scritto letto da un imbarazzato conduttore. Conduttore che per tutta la manifestazione è sembrato una via di mezzo fra Alice nel Paese delle meraviglie e un signorotto medioevale circondato da “una corte di nani e ballerine”, come avrebbe detto l’ex ministro Rino Formica.
I risultati elettorali vengono subito dopo questo evento di grande seguito popolare che ha cercato anche, in modo evidente, di occupare uno spazio politico.
Ma quel tal cantante può stracciare tutte le foto di un vice ministro, attaccare un ministro, baciare quante volte vuole un collega “fluido”, dal palco si possono lanciare messaggi ambigui o espliciti e poi l’unico risultato che si ottiene è forse l’astensionismo crescente, figlio di un riferimento culturale incompatibile con ogni serio e onesto impegno politico volto al bene comune.
Come fa dire Dante a Beatrice “dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte l’ali”.
E non voglio qui parlare dei messaggi lanciati alle giovani generazioni: i giovani più scolarizzati della storia d’Italia che sembrano essere assai poco interessati alle cose culturali, spirituali, sociali e politiche.
Il PD sembra sguazzare in queste acque limacciose. Un partito che dà alla gente la sensazione di essere quello che difende i rave party (…chi vorrebbe avere una figlia/o che ci va?), la droga libera (chi spera di avere una figlia/o che spinella tutto il giorno?) il gender fluido (chi si augura di avere una figlia/o con questi problemi?). Problemi trattati con incosciente superficialità e leggerezza da maitre a penser che alla fine appaiono essere l’avanguardia culturale di una certa sinistra italiana.
La storia dovrebbe insegnare qualcosa.
Senza paragoni troppo stretti, però bisognerebbe riandare con la memoria alla Berlino dei primi anni Trenta, capitale mondiale della “trasgressione”. Attorno ai nuovi ricchi, che costruivano magnifiche ville a Grunewald, c’erano le “avanguardie” artistiche e intellettuali che vivevano in uno sfrenato edonismo: una immagine di decadenza, vizio, sfrenatezza, spreco e lusso, che contribuì a far perdere credibilità all’opposizione al nazismo dei circoli intellettuali e dei partiti cui queste “avanguardie” facevano riferimento. Per la grande maggioranza dell’opinione pubblica, che viveva la grave crisi economica (contraccolpo della grande depressione USA del ’29) era un mondo sconcertante, e probabilmente terrificante che scomparve alla luce delle fiaccole naziste, nell’alba della terribile catastrofe. La repubblica di Weimar fu spazzata via, e non da un golpe militare.
La prima considerazione deve riguardare l’astensionismo sempre più in aumento.
Non è un dato nuovo, ma come certe malattie che sono latenti o tenute a bada con farmaci per un certo tempo, di colpo è esploso. A Roma città ha votato solo il 35%, nell’intero Lazio il 37%. In Lombardia si è recato alle urne il 41,6%: Il record negativo risaliva al 2010, quando votò il 64,6% dei lombardi.
Già alle ultime comunali l’astensionismo si era manifestato chiaramente, sia al primo turno e ancor più ai ballottaggi. Ma il record storico negativo è stato per ora toccato il 16 gennaio 2021 alle elezioni suppletive per la Camera nel collegio di Roma 1, lasciato libero da Gualtieri eletto sindaco. Alle urne si reca solo l’11,3% degli elettori: vale a dire poco più di 21 mila su oltre 185 mila aventi diritto. Elezioni vinte da Cecilia D’Elia (PD) con il 59,43% dei consensi. Entusiastico il commento del segretario del PD Letta: «Il successo di Cecilia D’Elia è un gran bel segnale, ottimo viatico per una settimana importante. #VivaCecilia». E quello di Nicola Zingaretti «Felice per la vittoria del centrosinistra nel cuore di Roma. Complimenti, buon lavoro e un grande abbraccio a @ceciliadelia e un immenso grazie alle volontarie e ai volontari che in queste settimane controcorrente hanno combattuto per questa bella vittoria».
Solo Calenda, pur felicitandosi per “lo straordinario risultato”, sottolineava che “il dato vero è l’affluenza tragica”. Non era andata molto meglio nelle elezioni precedenti (marzo 2020) quando nello stesso collegio, vinto da Gualtieri, aveva votato appena il 17,66 per cento. Vota quindi una élite, un po’ come succedeva nell’800 quando il diritto di voto era dato per censo?
L’astensionismo andrebbe preso un po’ più sul serio non solo da chi di volta in volta perde ma anche da chi vince. Così alla lunga si logora la democrazia di massa.
Perché la grande maggioranza non va più a votare? Chi se lo chiede seriamente?
Abbozzo un mio parere. Limitandomi a una sola considerazione che ritengo la principale (ce ne sono ovviamente anche altre): metterei al primo posto un problema culturale, di valori. Se, come ho già scritto, il “culto” del nostro tempo è “il culto di noi stessi”, un individualismo accentuato ed edonista, non si è certo attratti da tutto ciò che è impegno sociale, condivisione di un ideale.
Le persone, mi si dirà, sono sempre state in fondo egoiste: è vero ma se ieri era considerato un vizio oggi è considerata quasi una virtù.
E qui vengo al secondo argomento di riflessione su un evento di spettacolo che è stato fatto diventare un guazzabuglio, quasi la caricatura di un grande convegno culturale e politico. Una manifestazione che qualcuno potrebbe pensare sfruttata da decisori occulti, come succede per gli eventi di massa nei regimi totalitari, per fare propaganda, per affermare l’ideologia di regime: al di là della buona o cattiva fede del popolare conduttore di turno, al quale, poi, infine interessa solo fare audience, come a un disinvolto commerciante cui interessa solo vendere il cacao anche se dentro ci ha messo i fondi del caffè.
Naturalmente mi riferisco al Festival di Sanremo, oggetto, non per nulla subito dopo il voto, degli attacchi del centrodestra che minaccia di “fare pulizia in Rai”.
L’azienda pubblica avrebbe dovuto avere più rispetto, oltre che delle idee di tutti, anche del Presidente della Repubblica Mattarella, il quale viene fatto presenziare a una kermesse di dubbio gusto e confusionaria: basti pensare al previsto messaggio video di di Zelensky, poi retrocesso alle 2 di notte, e ridotto a uno scritto letto da un imbarazzato conduttore. Conduttore che per tutta la manifestazione è sembrato una via di mezzo fra Alice nel Paese delle meraviglie e un signorotto medioevale circondato da “una corte di nani e ballerine”, come avrebbe detto l’ex ministro Rino Formica.
I risultati elettorali vengono subito dopo questo evento di grande seguito popolare che ha cercato anche, in modo evidente, di occupare uno spazio politico.
Ma quel tal cantante può stracciare tutte le foto di un vice ministro, attaccare un ministro, baciare quante volte vuole un collega “fluido”, dal palco si possono lanciare messaggi ambigui o espliciti e poi l’unico risultato che si ottiene è forse l’astensionismo crescente, figlio di un riferimento culturale incompatibile con ogni serio e onesto impegno politico volto al bene comune.
Come fa dire Dante a Beatrice “dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte l’ali”.
E non voglio qui parlare dei messaggi lanciati alle giovani generazioni: i giovani più scolarizzati della storia d’Italia che sembrano essere assai poco interessati alle cose culturali, spirituali, sociali e politiche.
Il PD sembra sguazzare in queste acque limacciose. Un partito che dà alla gente la sensazione di essere quello che difende i rave party (…chi vorrebbe avere una figlia/o che ci va?), la droga libera (chi spera di avere una figlia/o che spinella tutto il giorno?) il gender fluido (chi si augura di avere una figlia/o con questi problemi?). Problemi trattati con incosciente superficialità e leggerezza da maitre a penser che alla fine appaiono essere l’avanguardia culturale di una certa sinistra italiana.
La storia dovrebbe insegnare qualcosa.
Senza paragoni troppo stretti, però bisognerebbe riandare con la memoria alla Berlino dei primi anni Trenta, capitale mondiale della “trasgressione”. Attorno ai nuovi ricchi, che costruivano magnifiche ville a Grunewald, c’erano le “avanguardie” artistiche e intellettuali che vivevano in uno sfrenato edonismo: una immagine di decadenza, vizio, sfrenatezza, spreco e lusso, che contribuì a far perdere credibilità all’opposizione al nazismo dei circoli intellettuali e dei partiti cui queste “avanguardie” facevano riferimento. Per la grande maggioranza dell’opinione pubblica, che viveva la grave crisi economica (contraccolpo della grande depressione USA del ’29) era un mondo sconcertante, e probabilmente terrificante che scomparve alla luce delle fiaccole naziste, nell’alba della terribile catastrofe. La repubblica di Weimar fu spazzata via, e non da un golpe militare.
L’idea proposta nell’articolo di Paolo Girola, che un mondo intento a celebrare i propri disvalori, abbia influito nel determinare una così forte astensione al voto regionale, credo vada attentamente considerata. Il popolo dell’astensione costituisce un mondo che, nel bene e nel male, ha sempre meno cose in comune con la narrazione del politicamente corretto. Compito dei Popolari dovrebbe esser quello di interrogarsi su come ricomporre una frattura tanto netta prima che possa degenerare in un qualcosa di politicamente non più gestibile.