Da un anno a questa parte le rilevazioni mensili e trimestrali effettuate dal sistema Excelsior (ministero del Lavoro – Unioncamere) segnalano una crescita continua della quota delle nuove assunzioni previste dal sistema delle imprese che non trovano riscontro nei profili professionali o più semplicemente nell’offerta di lavoro disponibile nel mercato del lavoro italiano (il cosiddetto mismatch).
Nell’ultima indagine relativa al primo trimestre 2023 questa difficoltà viene riscontrata per il 46% della potenziale domanda di lavoro, con un incremento di 14 punti rispetto al medesimo periodo del 2022. Motivata per il 28% dalla carenza di offerta dei profili professionali richiesti e per il rimanente 18% dalle competenze inadeguate dei potenziali candidati. Equivalenti nell’insieme a circa 230 mila potenziali per il solo mese di gennaio 2023 sul totale delle 504mila previste.
La difficile reperibilità supera il 50%, con punte del 60% e oltre, per i profili Tecnici e scientifici e per la vasta gamma degli operai specializzati. Rimane al di sopra del 40% per le professioni qualificate e per gli addetti alle vendite nei comparti dei servizi, e non scende sotto al 30% per le mansioni che non richiedono una particolare qualificazione. Difficoltà che aumentano per le imprese intenzionate ad assumere giovani con meno di 30 anni e per la richiesta di laureati. Il 18% delle nuove assunzioni, in particolare destinate alle mansioni esecutive, risulta finalizzato alla ricerca di lavoratori stranieri per l’impossibilità di trovare personale italiano disponibile.
Un complemento negativo delle criticità evidenziate è l’allungamento dei tempi per il reclutamento di nuovo personale che vengono mediamente stimati su 4 mesi. Speculare anche al tempo medio necessario per trovare una nuova occupazione per le persone che cercano lavoro. L’allungamento dei tempi delle transizioni lavorative ha un impatto negativo rilevante sul funzionamento del mercato del lavoro dato che ogni anno i nuovi avviamenti coinvolgono una quota di lavoratori non inferiore ai 5 milioni, circa un terzo del totale dei lavoratori dipendenti privati.
Nonostante le difficoltà derivanti dallo scenario macroeconomico, le previsioni occupazionali risultano in crescita rispetto ai mesi di gennaio del 2022 (+46 mila) e del 2019 (+62 mila). L’aumento delle nuove opportunità di lavoro, al netto di alcuni comparti, in particolare il tessile e l’abbigliamento, risulta positivo per il complesso dei settori e dei territori, con punte superiori alla media per le attività manifatturiere e per le regioni del nord Italia. Lo scenario di una domanda di lavoro che rimane positivo, rafforzato dalla previsione di una crescita parallela delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni (circa 200 mila nel 2023 che non vengono contemplate nell’indagine Excelsior) e che non trova riscontro nel mercato del lavoro dovrebbe sollecitare risposte adeguate da parte delle Istituzioni e delle rappresentanze del mondo del lavoro.
La riduzione, anche parziale del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro può offrire risposte importanti alle numerose criticità del nostro mercato di lavoro in termini di crescita del tasso di occupazione, di aumento della qualità dei rapporti di lavoro e di riduzione delle disuguaglianze generazionali, di genere e territoriali. D’altro canto se non si riduce il divario tra la domanda e l’offerta di lavoro le conseguenze possono essere letali per la crescita economica e per la sostenibilità della spesa sociale. Senza tener conto dei costi relativi al sottoutilizzo delle risorse umane e alla dispersione degli investimenti formativi.
Il mismatch è il sintomo di una malattia grave del nostro mercato del lavoro per due semplici motivi. Le analisi confermano che la crescita degli investimenti in tecnologie e nelle infrastrutture, e la spinta ad accelerare i tempi della transizione digitale e ambientale, aumentano la domanda di risorse umane qualificate. Gli investimenti tecnologici e le riorganizzazioni produttive comportano in parallelo una rapida obsolescenza delle competenze acquisite e un aumento della mobilità lavorativa. Problemi destinati ad aggravare per l’attesa riduzione della popolazione in età di lavoro, già in corso, e che diventerà esponenziale nei prossimi anni. L’adeguamento delle competenze e dei comportamenti dell’offerta di lavoro diventano pertanto la condizione indispensabile per la crescita dell’economia, della produttività e dell’occupazione.
Quanto sono adeguate le politiche del lavoro, a partire da quelle attive, ad affrontare questi problemi? I tratti essenziali di queste politiche – l’aumento costante dei sostegni al reddito; gli incentivi per le nuove assunzioni; la sequenza di provvedimenti legislativi tesi a introdurre nuovi vincoli sulle imprese per la gestione dei rapporti di lavoro; l’utilizzo della leva dei pensionamenti anticipati – sono stati fallimentari. Interventi che hanno impegnato una mole di risorse rilevantissime, non meno di 300 miliardi nel secondo decennio degli anni 2000, per finanziare: gli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato; le risorse aggiuntive per i sostegni al reddito; due intere agende di fondi europei e nazionali per finanziare la formazione e le politiche attive del lavoro regionali e tre programmi nazionali (Garanzia giovani, assegno di ricollocazione, Reddito di cittadinanza); il potenziamento dei servizi per l’impiego pubblici. Non è azzardato affermare che buona parte di questi interventi, soprattutto le misure di natura assistenziale, anziché ridurre le criticità abbiano contribuito ad aumentarle.
Tutto il dibattito sulle misure di politica del lavoro continua a risentire delle letture costruite negli anni 2000 sulla retorica del precariato, che si è consolidata nel corso della pandemia sull’onda di un presunto disastro occupazionale in uscita dal blocco dei licenziamenti che è stato smentito nella realtà. A distanza di un anno la crescita dell’occupazione, e con essa il numero dei contratti a tempo indeterminato, hanno raggiunto il massimo storico e le imprese faticano a trovare personale. L’esempio è quanto mai calzante per comprendere la distanza che esiste tra i problemi reali e buona parte della nostra classe dirigente, se tiene conto che il principale fautore di queste politiche era l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando.
Fatte le dovute considerazioni, si tratta ora di comprendere quali attori e con quali politiche si può cercare di invertire la tendenza. L’esigenza di qualificare le risorse umane per rendere sostenibile la crescita degli investimenti e dell’occupazione dovrebbe diventare l’obiettivo primario del dialogo sociale tra le rappresentanze del mondo del lavoro e le istituzioni. La condizione di base per aumentare le risorse da redistribuire con la contrattazione collettiva.
Nel breve periodo un contributo alla riduzione del mismatch si può ottenere triplicando l’attuale coinvolgimento dei lavoratori occupati nei programmi di formazione continua (12% rispetto all’obiettivo del 40% fissato dalle istituzioni Ue) e semplificando le modalità di inserimento delle persone che cercano lavoro con l’accompagnamento di percorsi formativi in ambito lavorativo. Circa un terzo della domanda di lavoro mantiene queste caratteristiche che sono del tutto complementari a quelle di una buona parte degli attuali disoccupati che cercano lavoro. Le misure di sostegno al reddito devono essere ripensate per favorire le transizioni lavorative e rese parzialmente compatibili con il salario nel caso di offerte di lavoro a termine che comportino una perdita parziale del salario rispetto al precedente rapporto di lavoro.
Sul medio e lungo periodo solo la costruzione di un rapporto organico tra i percorsi formativi e lavorativi, e un’estensione dell’utilizzo dello strumento dell’apprendistato, possono offrire risposte strutturali.
Per contribuire alla realizzazione di questi obiettivi le parti sociali hanno a disposizione circa 50 fondi interprofessionali per la formazione continua promossi dalla contrattazione collettiva e 16 fondi di solidarietà che concorrono alla gestione delle crisi aziendali e al ricollocamento dei lavoratori. Strumenti che dovrebbero essere pienamente coinvolti nella governance delle politiche attive del lavoro che oggi viene delegata alle regioni e all’utilizzo prioritario dei Centri per l’impiego pubblici per il collocamento dei disoccupati.
Nelle condizioni attuali non è lecito attendere miracoli, ma l’insostenibilità delle attuali politiche del lavoro, confermata dai numeri, dovrebbe riportare il dialogo tra le Istituzioni e le parti sociali a confrontarsi con il principio di realtà.
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
Nell’ultima indagine relativa al primo trimestre 2023 questa difficoltà viene riscontrata per il 46% della potenziale domanda di lavoro, con un incremento di 14 punti rispetto al medesimo periodo del 2022. Motivata per il 28% dalla carenza di offerta dei profili professionali richiesti e per il rimanente 18% dalle competenze inadeguate dei potenziali candidati. Equivalenti nell’insieme a circa 230 mila potenziali per il solo mese di gennaio 2023 sul totale delle 504mila previste.
La difficile reperibilità supera il 50%, con punte del 60% e oltre, per i profili Tecnici e scientifici e per la vasta gamma degli operai specializzati. Rimane al di sopra del 40% per le professioni qualificate e per gli addetti alle vendite nei comparti dei servizi, e non scende sotto al 30% per le mansioni che non richiedono una particolare qualificazione. Difficoltà che aumentano per le imprese intenzionate ad assumere giovani con meno di 30 anni e per la richiesta di laureati. Il 18% delle nuove assunzioni, in particolare destinate alle mansioni esecutive, risulta finalizzato alla ricerca di lavoratori stranieri per l’impossibilità di trovare personale italiano disponibile.
Un complemento negativo delle criticità evidenziate è l’allungamento dei tempi per il reclutamento di nuovo personale che vengono mediamente stimati su 4 mesi. Speculare anche al tempo medio necessario per trovare una nuova occupazione per le persone che cercano lavoro. L’allungamento dei tempi delle transizioni lavorative ha un impatto negativo rilevante sul funzionamento del mercato del lavoro dato che ogni anno i nuovi avviamenti coinvolgono una quota di lavoratori non inferiore ai 5 milioni, circa un terzo del totale dei lavoratori dipendenti privati.
Nonostante le difficoltà derivanti dallo scenario macroeconomico, le previsioni occupazionali risultano in crescita rispetto ai mesi di gennaio del 2022 (+46 mila) e del 2019 (+62 mila). L’aumento delle nuove opportunità di lavoro, al netto di alcuni comparti, in particolare il tessile e l’abbigliamento, risulta positivo per il complesso dei settori e dei territori, con punte superiori alla media per le attività manifatturiere e per le regioni del nord Italia. Lo scenario di una domanda di lavoro che rimane positivo, rafforzato dalla previsione di una crescita parallela delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni (circa 200 mila nel 2023 che non vengono contemplate nell’indagine Excelsior) e che non trova riscontro nel mercato del lavoro dovrebbe sollecitare risposte adeguate da parte delle Istituzioni e delle rappresentanze del mondo del lavoro.
La riduzione, anche parziale del mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro può offrire risposte importanti alle numerose criticità del nostro mercato di lavoro in termini di crescita del tasso di occupazione, di aumento della qualità dei rapporti di lavoro e di riduzione delle disuguaglianze generazionali, di genere e territoriali. D’altro canto se non si riduce il divario tra la domanda e l’offerta di lavoro le conseguenze possono essere letali per la crescita economica e per la sostenibilità della spesa sociale. Senza tener conto dei costi relativi al sottoutilizzo delle risorse umane e alla dispersione degli investimenti formativi.
Il mismatch è il sintomo di una malattia grave del nostro mercato del lavoro per due semplici motivi. Le analisi confermano che la crescita degli investimenti in tecnologie e nelle infrastrutture, e la spinta ad accelerare i tempi della transizione digitale e ambientale, aumentano la domanda di risorse umane qualificate. Gli investimenti tecnologici e le riorganizzazioni produttive comportano in parallelo una rapida obsolescenza delle competenze acquisite e un aumento della mobilità lavorativa. Problemi destinati ad aggravare per l’attesa riduzione della popolazione in età di lavoro, già in corso, e che diventerà esponenziale nei prossimi anni. L’adeguamento delle competenze e dei comportamenti dell’offerta di lavoro diventano pertanto la condizione indispensabile per la crescita dell’economia, della produttività e dell’occupazione.
Quanto sono adeguate le politiche del lavoro, a partire da quelle attive, ad affrontare questi problemi? I tratti essenziali di queste politiche – l’aumento costante dei sostegni al reddito; gli incentivi per le nuove assunzioni; la sequenza di provvedimenti legislativi tesi a introdurre nuovi vincoli sulle imprese per la gestione dei rapporti di lavoro; l’utilizzo della leva dei pensionamenti anticipati – sono stati fallimentari. Interventi che hanno impegnato una mole di risorse rilevantissime, non meno di 300 miliardi nel secondo decennio degli anni 2000, per finanziare: gli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato; le risorse aggiuntive per i sostegni al reddito; due intere agende di fondi europei e nazionali per finanziare la formazione e le politiche attive del lavoro regionali e tre programmi nazionali (Garanzia giovani, assegno di ricollocazione, Reddito di cittadinanza); il potenziamento dei servizi per l’impiego pubblici. Non è azzardato affermare che buona parte di questi interventi, soprattutto le misure di natura assistenziale, anziché ridurre le criticità abbiano contribuito ad aumentarle.
Tutto il dibattito sulle misure di politica del lavoro continua a risentire delle letture costruite negli anni 2000 sulla retorica del precariato, che si è consolidata nel corso della pandemia sull’onda di un presunto disastro occupazionale in uscita dal blocco dei licenziamenti che è stato smentito nella realtà. A distanza di un anno la crescita dell’occupazione, e con essa il numero dei contratti a tempo indeterminato, hanno raggiunto il massimo storico e le imprese faticano a trovare personale. L’esempio è quanto mai calzante per comprendere la distanza che esiste tra i problemi reali e buona parte della nostra classe dirigente, se tiene conto che il principale fautore di queste politiche era l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando.
Fatte le dovute considerazioni, si tratta ora di comprendere quali attori e con quali politiche si può cercare di invertire la tendenza. L’esigenza di qualificare le risorse umane per rendere sostenibile la crescita degli investimenti e dell’occupazione dovrebbe diventare l’obiettivo primario del dialogo sociale tra le rappresentanze del mondo del lavoro e le istituzioni. La condizione di base per aumentare le risorse da redistribuire con la contrattazione collettiva.
Nel breve periodo un contributo alla riduzione del mismatch si può ottenere triplicando l’attuale coinvolgimento dei lavoratori occupati nei programmi di formazione continua (12% rispetto all’obiettivo del 40% fissato dalle istituzioni Ue) e semplificando le modalità di inserimento delle persone che cercano lavoro con l’accompagnamento di percorsi formativi in ambito lavorativo. Circa un terzo della domanda di lavoro mantiene queste caratteristiche che sono del tutto complementari a quelle di una buona parte degli attuali disoccupati che cercano lavoro. Le misure di sostegno al reddito devono essere ripensate per favorire le transizioni lavorative e rese parzialmente compatibili con il salario nel caso di offerte di lavoro a termine che comportino una perdita parziale del salario rispetto al precedente rapporto di lavoro.
Sul medio e lungo periodo solo la costruzione di un rapporto organico tra i percorsi formativi e lavorativi, e un’estensione dell’utilizzo dello strumento dell’apprendistato, possono offrire risposte strutturali.
Per contribuire alla realizzazione di questi obiettivi le parti sociali hanno a disposizione circa 50 fondi interprofessionali per la formazione continua promossi dalla contrattazione collettiva e 16 fondi di solidarietà che concorrono alla gestione delle crisi aziendali e al ricollocamento dei lavoratori. Strumenti che dovrebbero essere pienamente coinvolti nella governance delle politiche attive del lavoro che oggi viene delegata alle regioni e all’utilizzo prioritario dei Centri per l’impiego pubblici per il collocamento dei disoccupati.
Nelle condizioni attuali non è lecito attendere miracoli, ma l’insostenibilità delle attuali politiche del lavoro, confermata dai numeri, dovrebbe riportare il dialogo tra le Istituzioni e le parti sociali a confrontarsi con il principio di realtà.
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
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