“(…) Gli Italiani hanno un grande desiderio di una leadership forte e determinata, e anche per questo hanno votato Giorgia Meloni…”. Cosi Ernesto Galli Della Loggia in uno dei suoi a volte emotivi articoli, pubblicato sul “Corriere della Sera” del 3 gennaio e dedicato a Giorgia Meloni, il cui titolo chiariva meglio le sue idee: Una novità da non sprecare. Al riguardo, mi permetto solo di approfondire per come posso l’ambigua sottolineatura di una novità che egli appunto definisce “da non sprecare”. E intendo farlo da un angolo di visuale diverso, forse complementare, collocando la Meloni come protagonista della vecchia proposta di Almirante relativa a quel presidenzialismo che, in sostanza, parrebbe necessario e indispensabile al futuro dell’Italia.
Intendo però rimanere lontano dalle pur legittime e interessanti discussioni della scienza politica e del diritto costituzionale, comparato o meno, come pure dagli aspetti positivi e negativi di un presidenzialismo che per una democrazia liberale come la nostra tocca questioni serie della nostra attuale Costituzione.
Sono discussioni, queste, che lascio agli studiosi perché, a mio modesto avviso, accanto agli utili chiarimenti sui pro e i contra delle Repubbliche parlamentari e di quelle presidenziali, e quindi sui poteri e contropoteri necessari, come pure sugli equilibri indispensabili per una buona governabilità, occorrerebbe affiancare qualche riflessione di natura culturale e sociologica legata al contesto storico in cui questo presidenzialismo, o semipresidenzialismo che sia, si va a collocare. Non dimenticando le riflessioni relative ai metodi di selezione dei potenziali presidenti, con le loro carature psicologiche e con i loro profili etici e democratici.
Analizzare solo gli aspetti tecnico-giuridici che attengono al funzionamento delle nostre istituzioni democratiche, è una condizione necessaria e tuttavia non sufficiente. Mi spiegherò meglio elencando in questo appunto fatti già noti, ma che servono forse a capire bene il contesto nel quale si andrebbe a collocare a mio avviso il presidenzialismo.
Da tempo siamo alle prese con un grosso e inedito fenomeno di scollamento della partecipazione politica, da cui discende un ricorso abnorme all’astensionismo. In sostanza, per citare Bergoglio, viviamo in una bolla di totale “menefreghismo”, sicché viene da pensare che un presidente potrebbe essere votato ed eletto solo da una minoranza degli italiani aventi diritto al voto, così come in Francia Macron è stato votato al secondo turno solo dal 38% dei francesi, pur avendo incassato il 58,6% dei suffragi espressi nella competizione a due.
Siamo, per giunta, in un momento di grave crisi del partito politico. Una crisi, direi, soprattutto identitaria. Basti pensare alle sigle che cambiano ripetutamente, ai nomi della nostalgia e del passato chiusi sotto chiave, alle periodiche rifondazioni di Carte di valori e Manifesti; partiti, specie quelli personali dello zero virgola, che sono diventati “liquidi” e occasionali, tanto nella loro offerta di programmi e valori che nei flussi mutevoli della domanda e del voto elettorale, avendo irrimediabilmente consegnato al Novecento la figura del “solido” partito di massa.
Prevale, dunque, un diffuso relativismo che non è solo funzione delle trasformazioni culturali, sociali e tecnologiche, tutte destinate ad incidere sulle nostre opinioni e i nostri giudizi; e che non è, pertanto, becero trasformismo, espressione infine di un qualche tornaconto personale, bensì per paradosso un trasformismo etico e responsabile voluto e cercato dalla nostra coscienza, che ci fa sempre ri-pensare e ri-tarare i nostri precedenti convincimenti e i nostri pre-giudizi. E tutto ciò senza mai farci dimenticare i valori portanti e i pilastri di solidarietà ed eguaglianza della nostra democrazia politica partecipata e rappresentativa, assieme allo sforzo rivolto alla ricerca di quel bene comune che non è mai una frase caritatevole, ma che sottende programmi politici.
Siamo in una fase che assegna alla classe politica un carattere di occasionalità e improvvisazione, poiché arriva in Parlamento senza nessun background e senza nessuna formazione prepolitica. Senza esperienze. Forse esagero, ma siamo anche di fronte ad una classe politica non esente da “deliri di potenza” e “disturbi della personalità”, tanto da risultare incline all’arbitrio e all’autoritarismo: Donald Trump, a tutti gli effetti, ne è un esempio lampante. E siamo nella cosiddetta Era del singolo, come Francesca Rigotti definisce molto bene lo spirito del tempo che viviamo, tutto fondato sull’individuo, “singolarista” sin nel cibo. Appare evidente, infatti, come l’individuo sia prigioniero dei suoi interessi personali ed esclusivi. Così come siamo nel tempo della “Democrazia del Narcisio”, stando a ciò che Giovanni Orsina racconta altrettanto bene nella Storia dell’antipolitica. Per inciso, i due libri sono da leggere e meditare anche per capire l’hybris del presidenzialismo. Sta di fatto che l’ultimo rapporto Censis scommette sul post-populismo, ma il populismo ahimé continua a vivere in silenzio sotto forma di retorica, menzogna e demagogia, insulti e attacchi offensivi e violenti al nemico… politico.
Siamo a uno stadio di sviluppo del partito in cui il leader assume un atteggiamento di superiorità da non discutere, con il suo carisma mediatico e il dito indice della mano destra puntato, che nel linguaggio gestuale indica “il proprio potere e il proprio controllo”. Un capo partito segretario che lancia ad alta voce continue promesse, finendo per sussumere il partito nel suo complesso, vista la vocazione a rappresentare integralmente il partito sin nelle sue dimensioni comunali e territoriali. Anche i circoli e le sezioni – in molti partiti tra le altre cose inesistenti – si riducono ad articolazioni simboliche della volontà del Capo. Eppure le “realtà locali” ancora oggi e nonostante tutto rappresentano le dimensioni più veraci delle comunità e dei mondi vitali.
Siamo ad uno stadio in cui le classi sociali e i ceti, sino alla stessa borghesia, come dice De Rita, vanno sociologicamente ridefiniti, così come andrebbero ridefinite le categorie geometriche e orizzontali che abbiamo ereditato dalla storia politica passata, e che ancora insistiamo a specificare come destra, centro e sinistra. Alla fine siamo anche al cospetto di un passaggio culturale in cui la perdita dei fondamentali valori cattolici fa registrare, per contro, l’emergere di valori alternativi di tipo protestante relativi all’individuo singolo “prescelto” e “all’eletto” per grazia ricevuta, con un effetto di pervasività sull’economia e e la finanzia. Uno stadio in cui, insomma, la secolarizzazione prende piede, con le Chiese e i seminari vuoti, i matrimoni religiosi in calo, l’associazionismo cattolico in crisi, FUCI e AC in testa; una secolarizzazione che poi si ripercuote sulle buone intenzioni o sulle speranze di comporre (o ricomporre) partiti a denominazione cattolica non avendo più il prepolitico dove attingere. E non avendo scuole di formazione diffuse.
Un tempo, il nostro, in cui peraltro la politica-spettacolo è ormai irreversibile e la comunicazione a distanza dei vecchi e nuovi social media la fa da padrona, annullando quella dei rapporti interpersonali faccia a faccia, quella di territorio e di vicinato. Così, con maggiore o minore consapevolezza, rimuoviamo i diversi corpi intermedi che comunque sono o dovrebbero essere chiamati ad esercitare il loro ruolo essenziale, quand’anche mutasse il modello istituzionale.
Ecco, ma con tutti questi segnali ben evidenti e che sperimentiamo ogni santo giorno, è veramente assurdo e apocalittico, di sapore complottista, pensare ai rischi che si corrono una volta imboccata la strada del presidenzialismo o del semipresidenzialismo? Ed è veramente una “leadership forte e determinata”quella che si attendono gli italiani, come sostiene Galli della Loggia?
Mi sbaglierò, ma rimango convinto che spesso la riuscita di un buon viaggio dipenda dall’ambiente che ci circonda e da quello che incontriamo lungo la strada, nonché dagli amici con cui camminiamo.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Intendo però rimanere lontano dalle pur legittime e interessanti discussioni della scienza politica e del diritto costituzionale, comparato o meno, come pure dagli aspetti positivi e negativi di un presidenzialismo che per una democrazia liberale come la nostra tocca questioni serie della nostra attuale Costituzione.
Sono discussioni, queste, che lascio agli studiosi perché, a mio modesto avviso, accanto agli utili chiarimenti sui pro e i contra delle Repubbliche parlamentari e di quelle presidenziali, e quindi sui poteri e contropoteri necessari, come pure sugli equilibri indispensabili per una buona governabilità, occorrerebbe affiancare qualche riflessione di natura culturale e sociologica legata al contesto storico in cui questo presidenzialismo, o semipresidenzialismo che sia, si va a collocare. Non dimenticando le riflessioni relative ai metodi di selezione dei potenziali presidenti, con le loro carature psicologiche e con i loro profili etici e democratici.
Analizzare solo gli aspetti tecnico-giuridici che attengono al funzionamento delle nostre istituzioni democratiche, è una condizione necessaria e tuttavia non sufficiente. Mi spiegherò meglio elencando in questo appunto fatti già noti, ma che servono forse a capire bene il contesto nel quale si andrebbe a collocare a mio avviso il presidenzialismo.
Da tempo siamo alle prese con un grosso e inedito fenomeno di scollamento della partecipazione politica, da cui discende un ricorso abnorme all’astensionismo. In sostanza, per citare Bergoglio, viviamo in una bolla di totale “menefreghismo”, sicché viene da pensare che un presidente potrebbe essere votato ed eletto solo da una minoranza degli italiani aventi diritto al voto, così come in Francia Macron è stato votato al secondo turno solo dal 38% dei francesi, pur avendo incassato il 58,6% dei suffragi espressi nella competizione a due.
Siamo, per giunta, in un momento di grave crisi del partito politico. Una crisi, direi, soprattutto identitaria. Basti pensare alle sigle che cambiano ripetutamente, ai nomi della nostalgia e del passato chiusi sotto chiave, alle periodiche rifondazioni di Carte di valori e Manifesti; partiti, specie quelli personali dello zero virgola, che sono diventati “liquidi” e occasionali, tanto nella loro offerta di programmi e valori che nei flussi mutevoli della domanda e del voto elettorale, avendo irrimediabilmente consegnato al Novecento la figura del “solido” partito di massa.
Prevale, dunque, un diffuso relativismo che non è solo funzione delle trasformazioni culturali, sociali e tecnologiche, tutte destinate ad incidere sulle nostre opinioni e i nostri giudizi; e che non è, pertanto, becero trasformismo, espressione infine di un qualche tornaconto personale, bensì per paradosso un trasformismo etico e responsabile voluto e cercato dalla nostra coscienza, che ci fa sempre ri-pensare e ri-tarare i nostri precedenti convincimenti e i nostri pre-giudizi. E tutto ciò senza mai farci dimenticare i valori portanti e i pilastri di solidarietà ed eguaglianza della nostra democrazia politica partecipata e rappresentativa, assieme allo sforzo rivolto alla ricerca di quel bene comune che non è mai una frase caritatevole, ma che sottende programmi politici.
Siamo in una fase che assegna alla classe politica un carattere di occasionalità e improvvisazione, poiché arriva in Parlamento senza nessun background e senza nessuna formazione prepolitica. Senza esperienze. Forse esagero, ma siamo anche di fronte ad una classe politica non esente da “deliri di potenza” e “disturbi della personalità”, tanto da risultare incline all’arbitrio e all’autoritarismo: Donald Trump, a tutti gli effetti, ne è un esempio lampante. E siamo nella cosiddetta Era del singolo, come Francesca Rigotti definisce molto bene lo spirito del tempo che viviamo, tutto fondato sull’individuo, “singolarista” sin nel cibo. Appare evidente, infatti, come l’individuo sia prigioniero dei suoi interessi personali ed esclusivi. Così come siamo nel tempo della “Democrazia del Narcisio”, stando a ciò che Giovanni Orsina racconta altrettanto bene nella Storia dell’antipolitica. Per inciso, i due libri sono da leggere e meditare anche per capire l’hybris del presidenzialismo. Sta di fatto che l’ultimo rapporto Censis scommette sul post-populismo, ma il populismo ahimé continua a vivere in silenzio sotto forma di retorica, menzogna e demagogia, insulti e attacchi offensivi e violenti al nemico… politico.
Siamo a uno stadio di sviluppo del partito in cui il leader assume un atteggiamento di superiorità da non discutere, con il suo carisma mediatico e il dito indice della mano destra puntato, che nel linguaggio gestuale indica “il proprio potere e il proprio controllo”. Un capo partito segretario che lancia ad alta voce continue promesse, finendo per sussumere il partito nel suo complesso, vista la vocazione a rappresentare integralmente il partito sin nelle sue dimensioni comunali e territoriali. Anche i circoli e le sezioni – in molti partiti tra le altre cose inesistenti – si riducono ad articolazioni simboliche della volontà del Capo. Eppure le “realtà locali” ancora oggi e nonostante tutto rappresentano le dimensioni più veraci delle comunità e dei mondi vitali.
Siamo ad uno stadio in cui le classi sociali e i ceti, sino alla stessa borghesia, come dice De Rita, vanno sociologicamente ridefiniti, così come andrebbero ridefinite le categorie geometriche e orizzontali che abbiamo ereditato dalla storia politica passata, e che ancora insistiamo a specificare come destra, centro e sinistra. Alla fine siamo anche al cospetto di un passaggio culturale in cui la perdita dei fondamentali valori cattolici fa registrare, per contro, l’emergere di valori alternativi di tipo protestante relativi all’individuo singolo “prescelto” e “all’eletto” per grazia ricevuta, con un effetto di pervasività sull’economia e e la finanzia. Uno stadio in cui, insomma, la secolarizzazione prende piede, con le Chiese e i seminari vuoti, i matrimoni religiosi in calo, l’associazionismo cattolico in crisi, FUCI e AC in testa; una secolarizzazione che poi si ripercuote sulle buone intenzioni o sulle speranze di comporre (o ricomporre) partiti a denominazione cattolica non avendo più il prepolitico dove attingere. E non avendo scuole di formazione diffuse.
Un tempo, il nostro, in cui peraltro la politica-spettacolo è ormai irreversibile e la comunicazione a distanza dei vecchi e nuovi social media la fa da padrona, annullando quella dei rapporti interpersonali faccia a faccia, quella di territorio e di vicinato. Così, con maggiore o minore consapevolezza, rimuoviamo i diversi corpi intermedi che comunque sono o dovrebbero essere chiamati ad esercitare il loro ruolo essenziale, quand’anche mutasse il modello istituzionale.
Ecco, ma con tutti questi segnali ben evidenti e che sperimentiamo ogni santo giorno, è veramente assurdo e apocalittico, di sapore complottista, pensare ai rischi che si corrono una volta imboccata la strada del presidenzialismo o del semipresidenzialismo? Ed è veramente una “leadership forte e determinata”quella che si attendono gli italiani, come sostiene Galli della Loggia?
Mi sbaglierò, ma rimango convinto che spesso la riuscita di un buon viaggio dipenda dall’ambiente che ci circonda e da quello che incontriamo lungo la strada, nonché dagli amici con cui camminiamo.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
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