Dopo le elezioni di midterm



AMERICANA di Beppe Mila    31 Dicembre 2022       0

Finalmente all’inizio della terza settimana di dicembre, presumibilmente il 12 dicembre, è stato ufficializzato il risultato dello spoglio per l’elezione dell’unico rappresentante al Congresso che ancora mancava per chiudere formalmente le elezioni di metà mandato svoltesi il giorno 8 novembre 2022.

Si tratta della rappresentante del distretto numero 3 del Colorado, Lauren Boebert repubblicana eletta con il 51% delle preferenze. Per la cronaca i rappresentanti del Colorado sono 5 democratici e 3 repubblicani.

Nota importante: a differenza del seggio senatoriale della Georgia andato in ballottaggio il 6 dicembre, il rappresentante del distretto numero 3 doveva essere eletto con le votazioni dell’8 novembre, solo che lo spoglio si è protratto molto a lungo per tanti motivi, alcuni molto difficili da spiegare perché sono tipici ed applicati in una sola contea, mentre il più importante e discusso problema nelle elezioni USA è sempre il tanto contestato voto postale.

Il commento che meglio riassume l’andamento di questa tornata elettorale è stato quello del governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott che il giorno dopo le elezioni ha dichiarato testualmente: “Come mai uno Stato grande come il Texas, dopo sette ore aveva terminato lo spoglio delle schede indicando con sicurezza gli eletti, mentre Stati molto più piccoli sono ancora molto indietro?”.

Una domanda senza risposta ma alla quale in molti, magari sottovoce rispondono dicendo che è così perché si vuole che ci sia questo margine di incertezza che in qualche modo permette, forse, di indirizzare i risultati.

Certo che alcune cose ad occhi esterni appaiono molto strane, e in particolare colpiscono molto noi europei, perché ci viene difficile comprendere come in un Paese moderno, altamente automatizzato certe derive e problematiche ottocentesche si ripetono ad ogni elezione.

In generale, il giorno dopo le elezioni l’80% degli Stati ha comunicati i risultati definitivi, il 20% dei rimanenti Stati invece era fermo più o meno al 75% delle schede scrutinate; quindi era ragionevole pensare che in un paio di giorni anche questi comunicassero il nome degli eletti. Così non è stato, come abbiamo visto, altrettanto strano che candidati in testa con due o tre punti di vantaggio sull’avversario all’ottanta per cento delle schede scrutinate, man mano che passavano i giorni vedevano il distacco assottigliarsi e poi retrocedere osservando infine una vittoria dell’avversario al fotofinish.

Altro fatto, ormai quasi dai gossip, i ritardi e gli sbagli nella contea di Maricopa in Arizona: sì, proprio quella che da diversi anni, ad ogni tornata elettorale, inanella cause per brogli o sbadataggine. Oggi, ad esempio, la candidata repubblicana a governatore Lari Lake non riconosce la sconfitta, e a inizio dicembre ha citato in giudizio i funzionari elettorali locali per chiedere l’annullamento delle elezioni legislative dello Stato. Perché succede questo a Maricopa? Non si sa, ma così è.

I risultati ufficiali di questa elezione che ha visto la più seconda più alta partecipazione al voto degli ultimi 50 anni sono i seguenti: al Congresso (l’equivalente alla nostra Camera dei deputati) i repubblicani hanno la maggioranza con 222 eletti contro 213 democratici; al Senato invece la composizione è di 49 senatori democratici contro 49 repubblicani. La maggioranza è comunque democratica perché i 2 senatori indipendenti ruotano nell’alveo democratico. Si tratta di Bernie Sanders del Vermont, che in molti ricorderanno per le nette vittorie nelle primarie all’inizio della corsa per il mandato presidenziale del 2020, superato poi a metà corsa da Joe Biden. L’altro senatore indipendente è Angus King del Maine. Notizia dell’ultima ora, ad essi si è aggiunta la senatrice dell'Arizona Kyrsten Sinema, ex democratica, ma nulla cambia nella maggioranza.

Nei 36 Stati in cui si votava anche per il governatore il risultato è finito in parità con 18 governatori a testa. Globalmente considerando anche i 14 Stati che non hanno rinnovato il governatore la situazione è: 26 governatori repubblicani e 24 democratici.

Quanto sopra per la nuda cronaca e per riportare i numeri relativi a questo importante appuntamento elettorale degli USA.

Curiosità

La democratica Nancy Pelosi dopo molti anni non sarà più la speaker della camera, l’equivalente del nostro Presidente della Camera ma non con un ruolo nettamente super partes come da noi. In realtà la carica di speaker, che va al partito di maggioranza, è un ruolo visto più come il capo politico del partito che ha vinto le elezioni alla Camera. La poltrona della Pelosi andrà ad a un repubblicano, ma la certezza assoluta sul nome non vi è ancora.

In campo repubblicano si è confermato come politico più popolare e capace, vero e proprio astro dei conservatori, il governatore della Florida Ron DeSantis che ha acquisito molta popolarità e consensi per la sua gestione del Covid, evitando di imporre molte delle restrizioni in atto in altri Stati. Al di fuori di Ron DeSantis, tolto ovviamente Donald Trump non vi sono altre figure così di prestigio elevato a livello federale.

I candidati trumpiani sono andati bene, ma con (per alcuni troppe) defaillance inaspettate, in alcuni Stati hanno vinto candidati contrari alla politica trumpiana come ad esempio in Alaska con la vittoria di Lisa Murkowski favorevole addirittura all’impeachment di Trump.

In campo democratico dalle urne non è emerso nessun nuovo astro nascente. Nello Stato di New York ha fatto scandalo che i repubblicani abbiamo guadagnato 4 seggi in più alla camera rispetto all’elezione precedente portando il risultato finale a 15 dem e 11 repubblicani. La sorpresa deriva dal fatto che lo Stato di New York da sempre è uno dei più progressisti degli USA dove vi sono mediamente 7 elettori democratici per ogni elettore repubblicano.

Le ragioni sono da imputarsi principalmente all’uso smoderato del gerrymandering, la pratica di ridisegnare i collegi in modo che siano più favorevoli ad un partito piuttosto che ad un altro, Ad esempio da noi a Torino sarebbe come se il PD creasse un unico collegio che raggruppi la Crocetta, Piazza Castello e la collina, ovvio che il suo candidato non avrebbe rivali. A New York i repubblicani hanno esagerato, prima facendosi bloccare le modifiche da un giudice poi per aver disorientato gli elettori con i nuovi confini dei distretti. Ma la dirigenza locale è anche sotto accusa per un cattivo uso dei fondi elettorali federali.

Analisi

Quello che emerge in modo incontrovertibile e conferma una tendenza in corso da qualche anno è che l’America rimane un Paese diviso, molto diviso. La visione grafica (vedi foto) con i due colori rosso e blu illustra meglio di qualsiasi articolo qual è la situazione. Le due ali, ovvero le coste sono blu (dem), tutto il resto del Paese da nord a sud è rosso, salvo poche eccezioni. L’America profonda, alcuni direbbero quella vera, vota conservatore e repubblicano. Approfondendo si può dire che votano per i democratici giovani e donne di istruzione superiore che vivono negli Stati dell’aristocratico New England e tutti coloro che si sono arricchiti e lavorano nei nuovi impieghi creati dalle aziende tecnologiche, le famose bigh tech. Queste aziende si trovano principalmente sulla costa ovest in California e nello Stato di Washington, quello che confina con il Canada. Votano principalmente per i dem, liberi professionisti, avvocati e naturalmente la maggior parte di coloro che lavorano nel mondo finanziario, i cui centri direzionali si trovano nella costa East nella striscia che collega New York alla capitale Washington D.C. (District of Columbia).

Nel giro di un ventennio la composizione del voto USA è completamente cambiata, se fino al 2000 il partito repubblicano era considerato il partito dei petrolieri e dei miliardari, oggi è l’esatto opposto.

Votano repubblicano i lavoratori dipendenti che hanno pagato molto le crisi causate dalla globalizzazione in termini di perdita del potere di acquisto e spesso dello stesso lavoro, i farmers delle sterminate pianure del mid-west, gli ispanici e anche ormai una parte rilevante dell’elettorato afroamericano. Si, certo quello dei piccoli proprietari di negozi o titolari di piccole imprese che raggiunta una minima soglia di benessere a forza di duro lavoro, non vogliono vederselo portar via a causa del degrado e della delinquenza urbana. Semplificando, i repubblicani sono il partito dei blue collars, gli operai (dal colore blue delle tute), e i democratici quello dei white collars, il ceto impiegatizio e coloro che esercitano libera professione.

Non si tratta solo di una divisione economica, la frattura tra i due schieramenti è profonda proprio su temi etici e sociali, sui valori classici del sogno americano, una divisione che negli ultimi due anni si è accentuata ancor di più con la celebrazione entusiastica sui mass media di correnti di pensiero destabilizzanti quali la cancel culture, black live matters e me-too.

Diversi analisti concordano che se l’acuirsi della contrapposizione tra queste opposte visioni fosse continuata, lo spettro della seconda guerra civile americana non sarebbe più solo una ipotesi fantasiosa ma potrebbe avvicinarsi alla realtà. Sembra invece fortunatamente che oggi questi movimenti siano un po’ meno aggressivi e meno ascoltati. Ad esempio una svolta significativa la si è avuta con il processo vinto da Johnny Depp contro la sua ex moglie, processo che ha ridimensionato in maniera drastica il me-too e che è stato a lungo sulle prime pagine dei giornali d’oltreoceano. Ma, a parte questa nota di colore, occorreranno anni per far sì che si raggiunga una reale pace sociale. L’importante è che gli estremismi, come sembra sia accaduto in queste ultime elezioni, non prendano il sopravvento e vengano ridimensionati.


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