Le due strategie intorno alla ricomposizione dei Popolari, quella che mira a ribadire una peculiare presenza dentro al travaglio del Partito Democratico, e quella che punta a concorrere alla riorganizzazione dell’area di centro, si devono misurare con i medesimi problemi di fondo, se, come suol dirsi, intendono riuscire a cavare il ragno dal buco, ovvero riuscire a costruire una proposta di governo alternativa alla destra, in grado di recuperare il consenso perduto fra i ceti popolari e in grado di contrastare efficacemente involuzioni sempre possibili, come ci avverte Guido Bodrato, nelle fasi di grandi cambiamenti e di vertiginoso aumento delle disuguaglianze.
Credo quindi che il confronto fra queste due prospettive di impegno debba avvenire più sulle proposte che sulle critiche alle scelte altrui.
È sperabile che si sia superato lo stadio nel quale la risposta che veniva data alla perdita di consenso del centrosinistra fra i ceti popolari, era di dire che questi ultimi non avevano capito la proposta, erano stati disorientati dalle fake news, dalla propaganda russa o da chissà quale altro agente.
Ma, a mio modo di vedere, occorre superare anche lo stadio successivo, quello, per dirla con Cuperlo, “Houston abbiamo un problema!”, lo stadio in cui l’aristocrazia della sinistra realizza finalmente di avere un problema con il popolo ma osserva e analizza quello che era il suo elettorato tradizionale che ha cambiato orientamento o si è massicciamente rifugiato nell’astensione, con la distanza e la spocchia con cui si osserva una specie di animale raro, e comunque, dall’esterno.
Occorre, a mio avviso, riuscire a superare anche questo stadio per ritornare finalmente a sentirsi parte del popolo, se si vuole tornare a rappresentarlo. Il popolarismo, e il cattolicesimo sociale, è stato innanzitutto una grande forma di autoorganizzazione dei ceti popolari. E mai come oggi vi sono realtà (sociali, territoriali e amministrative, culturali) che stentano a trovare rappresentanza negli attuali partiti, alle quali si deve cercare di offrire delle proposte di partecipazione politica dal basso.
Una missione realizzabile, e qui sta il punto decisivo, solo se si è disposti a rimettere in discussione la scala di priorità seguita dalla sinistra, il modello di società imposto dai miliardari, dal nuovo capitalismo della sorveglianza, e fatto proprio dal PD oltreché, in un modo più subdolo, dal M5S.
Le narrazioni sui principali dossier (come guerra, ambiente, energia, famiglia, pluralismo dell’informazione, salute, debito, moneta, uso delle nuove tecnologie) stanno cambiando, in un senso forse più favorevole alle ragioni della pace, degli interessi della classe media, del riconoscimento del diritto naturale, di una democrazia non solo formale ma effettiva. Per questo si avverte la necessità di costruire una politica non asservita ai canoni del dogmatismo asfissiante e totalitario del politicamente corretto (che molti elettori avvertono ormai come una forma di nuovo stalinismo, una minaccia diretta al cuore del genere umano oltre che al loro concreto tenore di vita e alla libertà), ma più adeguata a gestire i cambiamenti epocali secondo il criterio del bene comune.
Visto il grado di ideologizzazione estrema presente nella sinistra, temo che un simile percorso risulti assai più ostico in un PD che da partito plurale, che forse non è mai stato effettivamente, diventa partito della sola sinistra, che nell’area di centro, dove certo non mancano i personalismi ma dove sembra rimanere una maggiore apertura al pluralismo delle culture politiche. Quello che però più conta, è che la ricomposizione del cattolicesimo democratico, sociale e popolare può dare i suoi frutti migliori se non si riduce a effimera occupazione di spazi ma se diventa solida costruzione di una politica adeguata ai nostri tempi.
Credo quindi che il confronto fra queste due prospettive di impegno debba avvenire più sulle proposte che sulle critiche alle scelte altrui.
È sperabile che si sia superato lo stadio nel quale la risposta che veniva data alla perdita di consenso del centrosinistra fra i ceti popolari, era di dire che questi ultimi non avevano capito la proposta, erano stati disorientati dalle fake news, dalla propaganda russa o da chissà quale altro agente.
Ma, a mio modo di vedere, occorre superare anche lo stadio successivo, quello, per dirla con Cuperlo, “Houston abbiamo un problema!”, lo stadio in cui l’aristocrazia della sinistra realizza finalmente di avere un problema con il popolo ma osserva e analizza quello che era il suo elettorato tradizionale che ha cambiato orientamento o si è massicciamente rifugiato nell’astensione, con la distanza e la spocchia con cui si osserva una specie di animale raro, e comunque, dall’esterno.
Occorre, a mio avviso, riuscire a superare anche questo stadio per ritornare finalmente a sentirsi parte del popolo, se si vuole tornare a rappresentarlo. Il popolarismo, e il cattolicesimo sociale, è stato innanzitutto una grande forma di autoorganizzazione dei ceti popolari. E mai come oggi vi sono realtà (sociali, territoriali e amministrative, culturali) che stentano a trovare rappresentanza negli attuali partiti, alle quali si deve cercare di offrire delle proposte di partecipazione politica dal basso.
Una missione realizzabile, e qui sta il punto decisivo, solo se si è disposti a rimettere in discussione la scala di priorità seguita dalla sinistra, il modello di società imposto dai miliardari, dal nuovo capitalismo della sorveglianza, e fatto proprio dal PD oltreché, in un modo più subdolo, dal M5S.
Le narrazioni sui principali dossier (come guerra, ambiente, energia, famiglia, pluralismo dell’informazione, salute, debito, moneta, uso delle nuove tecnologie) stanno cambiando, in un senso forse più favorevole alle ragioni della pace, degli interessi della classe media, del riconoscimento del diritto naturale, di una democrazia non solo formale ma effettiva. Per questo si avverte la necessità di costruire una politica non asservita ai canoni del dogmatismo asfissiante e totalitario del politicamente corretto (che molti elettori avvertono ormai come una forma di nuovo stalinismo, una minaccia diretta al cuore del genere umano oltre che al loro concreto tenore di vita e alla libertà), ma più adeguata a gestire i cambiamenti epocali secondo il criterio del bene comune.
Visto il grado di ideologizzazione estrema presente nella sinistra, temo che un simile percorso risulti assai più ostico in un PD che da partito plurale, che forse non è mai stato effettivamente, diventa partito della sola sinistra, che nell’area di centro, dove certo non mancano i personalismi ma dove sembra rimanere una maggiore apertura al pluralismo delle culture politiche. Quello che però più conta, è che la ricomposizione del cattolicesimo democratico, sociale e popolare può dare i suoi frutti migliori se non si riduce a effimera occupazione di spazi ma se diventa solida costruzione di una politica adeguata ai nostri tempi.
Con qualche giorno di riflessione in più, aggiungo che non è necessario esser acuti come Freud, per capire che quel “destra e sinistra” stabiliti oltre due secoli orsono nella sala della pallacorda, pur costituendo un momento di liberazione del diritto di espressione, furono fondamento di una ennesima riduzione di obiettivo.
Non a caso “destra”, mano che sa muoversi con abilità, per coloro che, pur innovando, adottavano moderazione e riduzione del meglio al possibile e “sinistra” per i più avventurosi, considerati più malevoli e, quindi, pericolosi.
Poi il declino e l’assemblea ridotta da luogo di confronto e scelta, ad area di competizione quotidiananell’azione di governo.
Questo limite ce lo portiamo dietro ormai da troppo tempo e cercare di superarlo significa riuscire, o meno, ad andare oltre lo stallo in cui viviamo tutti, democrazie e totalitarismi: nelle prime i Parlamenti sono diventati luoghi di dialettica conflittuale, alimentando la voglia di scontro, fino alla antipatica vicenda USA dell’invasione dei luoghi di governo, mentre nei secondi sono rassegnata accettazione (bastano le immagini del “parlamento” cinese, massa di consenso?)
I limiti dell’esperienza partitica furono già il motivo del fallito tentativo di Dossetti e Balbo – risaliamo ai primi anni ’50 – volto a riassettare la base elettorale democristiana; poi ci fu il secondo fallimento, dove cattolici e marxisti (Moro e Berlinguer) furono violentemente bloccati dal terrorismo.
Adesso siamo alla “aristocrazia della sinistra” e alla spocchia di chi guarda e non muove un dito, come scrive Giuseppe Davicino.
Derivando da Felice Balbo, Ernesto Baroni scrisse sul periodico “Confronto” che “dove si è d’accordo si governa e su quanto non si concorda si continua a ricercare” individuando nel Governo e nel Palamento i due organi in grado di assumersi i due compiti, tenendoli non separati, ma ben distinti.
Ciò non avviene.
Il Parlamento è luogo di allarme quotidiano, dialettica partitica e scontro, con il Governo ridotto alle rincorse altrettanto quotidiane: insomma, si vive alla giornata, con i riferimenti di lungo periodo ridotti a “ideologia”.
Ricomporre i Popolari.
Dio lo volesse! Ma vedo troppe persone interessate solo a rifare il partito, pur dichiarando candidamente di aspirare a qualche punto percentuale del consenso elettorale: i più coraggiosi (o fantasiosi!) dicono “per adesso, per cominciare”, come se le esperienze degli ultimi trent’anni, sia di area cattolica che di sinistra estrema, non confermassero il permanere di rimanere piccolo, per chi piccolo nasce.
Se i vent’anni di mancanza di democrazia, collassati nella guerra permisero comunque una lunga elaborazione che si tradusse – a partire dalla Liberazione – per l‘area cattolica, nella riorganizzazione di un ambito educativo (con l’Azione Cattolica, fino a Mario Rossi e poco più), di una forte incidenza nel sociale e di confronto con i il potere economico (Cisl , Acli, Movimento cooperativo) cosa dobbiamo proporre di equivalente, oggi, non credendo che basti solo creare il partito?