Gerardo Bianco: i Popolari mai a destra



Aldo Novellini    3 Dicembre 2022       2

Gerardo Bianco, scomparso nei giorni scorsi a 91 anni, non era uno dei leader di punta della Dc. Nello scudo crociato non era, tanto per capirci, un Aldo Moro o un Amintore Fanfani e nemmeno un Giulio Andreotti. Era invece uno di quegli esponenti della seconda fila, la cui qualità politica (e la cosa vale anche per le terze file e pure oltre) superava però, e decisamente di gran lunga, quella degli attuali capi partito.

Irpino come Ciriaco De Mita e come lui appartenente alla covata di Fiorentino Sullo (padre di una coraggiosa, e mancata, riforma urbanistica), Bianco, dopo aver inizialmente abbracciato la carriera universitaria, fu eletto alla Camera nel 1968. Nel corso dei decenni mantenne sempre un forte legame con il proprio territorio che gli rinnovò a fiducia per altre otto legislature. Quelli della Prima repubblica erano del resto tempi assai diversi da quelli attuali e il legame con il territorio contava eccome. Nessuno, a qualsiasi partito appartenesse, si sarebbe fatto catapultare col paracadute in circoscrizioni elettorali diverse da quella in cui aveva mosso i primi passi nell'amministrazione locale per giungere poi a livello nazionale.

Capogruppo Dc a Montecitorio negli anni Ottanta, Bianco fece valere le sue doti di mediatore sia con gli alleati di governo sia tra le correnti interne al partito. L'incarico ministeriale, il solo nella sua carriera politica, giunse nel 1990 come titolare della Pubblica istruzione nel penultimo governo Andreotti.

Il momento della ribalta, con la conquista del grande palcoscenico della politica, arrivò nel 1995 quando fu tra gli oppositori della svolta a destra del Partito popolare decisa da Rocco Buttiglione. Si trattò di uno strappo in piena regola: una vera e propria forzatura. La sinistra interna fece allora di Bianco il proprio capofila per contrastare la deriva conservatrice verso il polo berlusconiano. Dalla contesa politica – cui si aggiunse lo scontro sul simbolo - ne derivò una scissione e la nascita sul versante destro della Cdu. Il Ppi rimase però fedele alla propria identità riformista che d'altronde era quella della Dc: linea anticomunista ma nessuna alleanza con la destra neofascista.

Poco dopo arrivarono le elezioni del 1996 con la vittoria dell'Ulivo di Romano Prodi e il primo governo con la partecipazione della sinistra dal dopoguerra in poi. Bianco fu tra quelli che più lavorò per dar vita all'alleanza tra il centro e la sinistra e l'Ulivo vinse a mostrare che – e la cosa vale anche oggi – quando si realizzano le giuste intese e vi è un progetto politico credibile il centro-sinistra riesce a convincere gli elettori. Quella stagione fu poi affossata dal massimalismo di Rifondazione comunista, ansiosa di tornare al suo tipico movimentismo. Bianco aveva intanto lasciato la segreteria del Ppi, continuando a far politica alla sua maniera.

Una politica mai demagogica e mai urlata. Gli strepiti erano davvero estranei non solo al suo bagaglio culturale ma financo al suo carattere. Negli anni successivi cercò di contribuire al rafforzamento di un'area cattolico-democratica anche dopo lo scioglimento del Ppi e la nascita della Margherita prima e del Partito democratico poi. L'idea era di valorizzare una presenza politica e culturale che - a ragione – riteneva non potersi considerare conclusa con la fine della Dc.

Un impegno dal quale non ha mai deflesso, interrogandosi su quali strade dovessero venir intraprese per ricostruire un terreno politico propizio ad un ritrovato ruolo per un'ispirazione cristiana e solidaristica nell'arena pubblica. Ma non c'era solo questo. Ad inquietarlo era anche l'emergere di una spinta contraria alla politica stessa e alle sue istituzioni, a rischio di travolgere la democrazia rappresentativa in nome di una democrazia diretta che poi finisce soltanto per affidarsi al primo leader di turno.

Bianco è stato tutto questo: un intellettuale prestato alla politica, capace di entrare con la massima concretezza nel dibattito politico per difendere il patrimonio ideale nel quale credeva. Un'idealità politica che, c'è da credere, magari in forme aggiornate tornerà nuovamente utile al Paese come lo fu in altre lontane stagioni.


2 Commenti

  1. Gerardo Bianco è stato un uomo della transizione in uno dei momenti più travagliati della politica italiana.
    Va ascritto a suo merito l’aver saputo preservare, con coerenza e tenacia, lo spirito popolare della DC, evitandone il tradimento e lo snaturamento, insiti nella deriva beusconiana, e guidandolo alla confluenza nel nuovo soggetto politico prodiano, ricco di potenzialità ma anche di incomprensibili e assurde lotte intestine.
    E su quella linea siamo giunti fino ai nostri giorni.

  2. In tempi di magra del fiume della politica,la dipartita di Gerardo Bianco lascia un vuoto e il rimpianto per persone di una tempra a cui non siamo più abituati.
    È stato un personaggio quasi circonfuso di un’aura eroica, dopo aver traghettato sulle sponde prodiane i superstiti del genuino spirito popolare DC salvando dalla deriva berlusconiana.

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