L’anniversario della marcia su Roma ha lasciato indifferente la Meloni, convinta che il biasimo da lei riservato alle leggi razziali, unitamente al rifiuto di qualsiasi regime totalitario, costituiscano il palinsesto della giusta narrazione della destra di governo, esaurendo con ciò il debito di deferenza verso le ragioni dell’antifascismo. In realtà, una chiara posizione sulla presa del potere di Mussolini, convenzionalmente legata al 28 ottobre del 1922, andava pure assunta. Certe distrazioni, se palesate da donne e uomini appartenenti alla tradizione del Msi, non sono ammesse. Come pure è suonata avventata ed ambigua, e dunque ben lontana da un canone di ammissibilità, l’uscita di La Russa sulle celebrazioni del 25 aprile: quali che siano le smentite e le correzioni a quanto riportato nell’intervista su “La Stampa”, resta il dovere per il Presidente del Senato di misurare attentamente le parole per il carico di responsabilità che grava sull’ufficio ricoperto, il più alto nell’ordinamento costituzionale dopo quello della Presidenza della Repubblica.
A queste forme di intemperanza, in esordio di legislatura, ha reagito con fermezza tutto l’arco delle opposizioni. Da parte sua il PD ha reso omaggio alla memoria di Giacomo Matteotti, martire antifascista. Un gesto dal forte significato simbolico, oggi più denso che mai di valore e significato in quanto espressione della piena fedeltà costituzionale alla Repubblica nata dalla lotta di Resistenza, alla quale soccorreva nel biennio ‘43-‘45 il ricordo esemplare di coloro che al regime dittatoriale non si piegarono, pagando a caro prezzo la lotta per la libertà. Il socialista Matteotti non fu il solo, ma basta lui, da solo, a fissare nella mente collettiva l’eroismo degli oppositori della prima ora. Sotto questo profilo si comprende perfettamente il gesto compiuto dalla dirigenza del PD, sebbene appaia esclusivamente ricompreso nell’iconografia di una delle tradizioni, quella socialista appunto, dell’antifascismo.
L’occasione, in ogni caso, doveva propiziare un riesame critico delle cause che portarono al successo del fascismo. Pierluigi Castagnetti, sforzandosi di cogliere il fattore scatenante della crisi, alla quale fece seguito il repentino sfaldamento del quadro politico-istituzionale, lo ha voluto rintracciare nella divisione tra i socialisti (a loro volta divisi tra massimalisti e riformisti, entrambi poi diversamente contrapposti ai comunisti), i popolari e i liberal-giolittiani. Ancora oggi si discute sulla maggiore o minore responsabilità attribuibile alla condotta politica delle forze in campo.
In effetti Sturzo, anni dopo l’avvento del fascismo, lamentò la refrattarietà delle altre forze democratiche, e in specie dei socialisti, a stringere un’intesa contro l’ascesa di Mussolini. “Chi scrive – ed è proprio Sturzo a scrivere – tentò parecchie volte di realizzare un fronte unico fra democratici sociali, socialisti e popolari con la formazione di un governo al quale i socialisti volessero partecipare. Ma dopo varie discussioni, i capi socialisti preferirono starne fuori, e alla fine appoggiarono lo sciopero generale del luglio-agosto 1922. La borghesia italiana ne fu spaventata e si decise per il fascismo” (La chiesa cattolica e la democrazia cristiana, Edizioni SELI, Roma 1944 p. 41). In sostanza, il fondatore del PPI declinava l’accusa di essere stato troppo severo nei confronti degli altri partiti, in primo luogo dei socialisti. Lo ribadì più volte, anche rifiutando l’addebito circa il cosiddetto “veto a Giolitti” che lo avrebbe visto protagonista contro il ritorno al potere dello statista di Dronero, prima che tutto si consumasse nell’impotenza del secondo governo Facta (fino alla marcia su Roma).
È però vero che i Popolari, giunti in Parlamento nel 1919, mostrarono tutto il vigore della loro autonomia, non sentendosi omologhi al liberalismo e non accettando di essere subalterni ai socialisti. Di fatto, a rovescio di quanto avvenne con il Patto Gentiloni nel 2013, la loro opera non si risolse nel sostegno ai liberali contro la sinistra, per arginare cioè le spinte popolari a mo’ di strumento delle forze di conservazione. Tuttavia, Sturzo tenne ferma la barra al centro e rifiutò, del pari, di assecondare i socialisti nel programma anti-sistema. Tale atteggiamento, ancorché alimentato da un pensiero politico rigoroso e da una visione etica responsabile, innescò il crollo dell’Italia liberale.
In effetti, De Gasperi scrisse a Sturzo nell’estate del 1950 – era in discussione la riforma agraria e non mancavano le critiche del sempre battagliero don Luigi – che l’intransigenza dei popolari molto probabilmente doveva essere più calibrata, evitando la catastrofe. Le sue parole, riproposte da Luigi Giorgi nella sua relazione a Modena sui 100 anni dalla marcia su Roma, sono molto eloquenti: “Se nel 1922 avessimo previsto il totalitarismo fascista, non credi che saremmo stati più cauti nell’attaccare lo stato liberale?”. Un’affermazione, questa, che lambiva il rimprovero per i rilievi troppo severi mossi al governo dal nume tutelare del popolarismo, ma anche una valutazione di più ampia portata sulla necessità di un abbraccio storico tra democrazia cristiana e liberalismo, intendendo con ciò la convergenza di valori e pratiche nell’orizzonte del progresso e dell’emancipazione dei ceti popolari.
In fondo la nascita della Margherita doveva corrispondere a questo processo di integrazione virtuosa di tipo liberal-popolare e il PD rappresentare, nel prosieguo dell’azione rigeneratrice di una politica autenticamente democratica, l’ulteriore sviluppo di un disegno di unità tra le forze riformatrici del Paese. Oggi si tratta di ritessere i fili di una politica – intransigente ma… in che senso? – di unità delle forze riformiste. Orbene, se il PD retrocede a strumento di sperimentazione continua di una sinistra imperlata di radicalismo, senza più l’afflato della concezione religiosa della democrazia, qualsiasi intransigenza nel tempo della destra di governo perde di potenza e significato, ossidando il filo conduttore di una generosa intuizione di cambiamento. E anche l’intransigenza nel nome di Matteotti, e non di altri e non di altro, manca del carattere e della forza di mobilitazione delle migliori energie del Paese. Grava sul PD il rischio d’implosione. In questo quadro diventa improrogabile rimettere a fuoco il compito che spetta al piccolo firmamento, ancora identificabile malgrado la secolarizzazione, del cattolicesimo democratico italiano.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
A queste forme di intemperanza, in esordio di legislatura, ha reagito con fermezza tutto l’arco delle opposizioni. Da parte sua il PD ha reso omaggio alla memoria di Giacomo Matteotti, martire antifascista. Un gesto dal forte significato simbolico, oggi più denso che mai di valore e significato in quanto espressione della piena fedeltà costituzionale alla Repubblica nata dalla lotta di Resistenza, alla quale soccorreva nel biennio ‘43-‘45 il ricordo esemplare di coloro che al regime dittatoriale non si piegarono, pagando a caro prezzo la lotta per la libertà. Il socialista Matteotti non fu il solo, ma basta lui, da solo, a fissare nella mente collettiva l’eroismo degli oppositori della prima ora. Sotto questo profilo si comprende perfettamente il gesto compiuto dalla dirigenza del PD, sebbene appaia esclusivamente ricompreso nell’iconografia di una delle tradizioni, quella socialista appunto, dell’antifascismo.
L’occasione, in ogni caso, doveva propiziare un riesame critico delle cause che portarono al successo del fascismo. Pierluigi Castagnetti, sforzandosi di cogliere il fattore scatenante della crisi, alla quale fece seguito il repentino sfaldamento del quadro politico-istituzionale, lo ha voluto rintracciare nella divisione tra i socialisti (a loro volta divisi tra massimalisti e riformisti, entrambi poi diversamente contrapposti ai comunisti), i popolari e i liberal-giolittiani. Ancora oggi si discute sulla maggiore o minore responsabilità attribuibile alla condotta politica delle forze in campo.
In effetti Sturzo, anni dopo l’avvento del fascismo, lamentò la refrattarietà delle altre forze democratiche, e in specie dei socialisti, a stringere un’intesa contro l’ascesa di Mussolini. “Chi scrive – ed è proprio Sturzo a scrivere – tentò parecchie volte di realizzare un fronte unico fra democratici sociali, socialisti e popolari con la formazione di un governo al quale i socialisti volessero partecipare. Ma dopo varie discussioni, i capi socialisti preferirono starne fuori, e alla fine appoggiarono lo sciopero generale del luglio-agosto 1922. La borghesia italiana ne fu spaventata e si decise per il fascismo” (La chiesa cattolica e la democrazia cristiana, Edizioni SELI, Roma 1944 p. 41). In sostanza, il fondatore del PPI declinava l’accusa di essere stato troppo severo nei confronti degli altri partiti, in primo luogo dei socialisti. Lo ribadì più volte, anche rifiutando l’addebito circa il cosiddetto “veto a Giolitti” che lo avrebbe visto protagonista contro il ritorno al potere dello statista di Dronero, prima che tutto si consumasse nell’impotenza del secondo governo Facta (fino alla marcia su Roma).
È però vero che i Popolari, giunti in Parlamento nel 1919, mostrarono tutto il vigore della loro autonomia, non sentendosi omologhi al liberalismo e non accettando di essere subalterni ai socialisti. Di fatto, a rovescio di quanto avvenne con il Patto Gentiloni nel 2013, la loro opera non si risolse nel sostegno ai liberali contro la sinistra, per arginare cioè le spinte popolari a mo’ di strumento delle forze di conservazione. Tuttavia, Sturzo tenne ferma la barra al centro e rifiutò, del pari, di assecondare i socialisti nel programma anti-sistema. Tale atteggiamento, ancorché alimentato da un pensiero politico rigoroso e da una visione etica responsabile, innescò il crollo dell’Italia liberale.
In effetti, De Gasperi scrisse a Sturzo nell’estate del 1950 – era in discussione la riforma agraria e non mancavano le critiche del sempre battagliero don Luigi – che l’intransigenza dei popolari molto probabilmente doveva essere più calibrata, evitando la catastrofe. Le sue parole, riproposte da Luigi Giorgi nella sua relazione a Modena sui 100 anni dalla marcia su Roma, sono molto eloquenti: “Se nel 1922 avessimo previsto il totalitarismo fascista, non credi che saremmo stati più cauti nell’attaccare lo stato liberale?”. Un’affermazione, questa, che lambiva il rimprovero per i rilievi troppo severi mossi al governo dal nume tutelare del popolarismo, ma anche una valutazione di più ampia portata sulla necessità di un abbraccio storico tra democrazia cristiana e liberalismo, intendendo con ciò la convergenza di valori e pratiche nell’orizzonte del progresso e dell’emancipazione dei ceti popolari.
In fondo la nascita della Margherita doveva corrispondere a questo processo di integrazione virtuosa di tipo liberal-popolare e il PD rappresentare, nel prosieguo dell’azione rigeneratrice di una politica autenticamente democratica, l’ulteriore sviluppo di un disegno di unità tra le forze riformatrici del Paese. Oggi si tratta di ritessere i fili di una politica – intransigente ma… in che senso? – di unità delle forze riformiste. Orbene, se il PD retrocede a strumento di sperimentazione continua di una sinistra imperlata di radicalismo, senza più l’afflato della concezione religiosa della democrazia, qualsiasi intransigenza nel tempo della destra di governo perde di potenza e significato, ossidando il filo conduttore di una generosa intuizione di cambiamento. E anche l’intransigenza nel nome di Matteotti, e non di altri e non di altro, manca del carattere e della forza di mobilitazione delle migliori energie del Paese. Grava sul PD il rischio d’implosione. In questo quadro diventa improrogabile rimettere a fuoco il compito che spetta al piccolo firmamento, ancora identificabile malgrado la secolarizzazione, del cattolicesimo democratico italiano.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
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