Cento anni fa, il 28 ottobre 1922, la marcia su Roma e l'ascesa del fascismo. Quella che per un ventennio fu pomposamente celebrata come la “rivoluzione delle camicie nere” fu in bilico fino all'ultimo. Sarebbe infatti bastato che il Re, Vittorio Emanuele III, avesse firmato lo stato d'assedio così come propostogli dal Primo ministro, Luigi Facta, e le milizie nero vestite ammassate ai lati della capitale si sarebbero squagliate come neve al sole. Invece il Re non firmò, Facta sentendosi sconfessato presentò le dimissioni e di lì a poco per Benito Mussolini si sarebbe spalancate le porte del potere.
Ancora oggi non sono del tutto chiare le ragioni che spinsero il sovrano a respingere l'appello legalitario di Facta. Forse, con esattezza, non lo sapremo mai. Certo è che qualora liberali, popolari e socialisti riformisti avessero trovato un'intesa per formare un governo di unità nazionale difendendo l'ordine costituzionale e respingendo le violenze delle camicie nere, tutto sarebbe probabilmente rientrato nei binari giusti. L'insipienza degli uni, la titubanza degli altri giocarono invece a favore di Mussolini. E così l'Italia si avviò sul piano inclinato che avrebbe portato alla dittatura. Ovviamente nessuno in quel frangente poteva immaginare cosa sarebbe accaduto ma certamente, sin da quel momento era illusorio pensare di contenere il fascismo in un quadro legalitario, perché da mesi le squadre agli ordini di Mussolini commettevano ogni sorta di violenza.
Tutto precipitò a fine ottobre. A Napoli venne indetta una manifestazione nazionale dove confluirono migliaia di camicie nere da tutta la penisola. Roma era ormai vicina. In attesa degli eventi vennero costituiti le milizie si dislocarono attorno alla capitale. Mussolini lasciò fare ai suoi quadriumviri - Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi – e tornò tranquillamente a Milano. Troppa era l'incertezza e non voleva rischiare. In fondo poteva intravedersi già allora che la sua famosa massima <<meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora>> valeva per tutti gli altri ma non per lui. E d'altronde ventitré anni dopo venne catturato dai partigiani, nascosto in un camion e vestito da tedesco. Aveva mollato i suoi per fuggire in Svizzera.
Quando però comprese che l'esercito non sarebbe intervenuto e, anzi, vi era il via libera per l'incarico alla guida del Paese, il futuro Duce raggiunse in treno la Capitale. Ricevuto al Quirinale dal Re, pare abbia detto <<Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto>>, poi formò un esecutivo con liberali, popolari e nazionalisti. Tre soltanto i ministri fascisti e neppure esponenti di primo piano, perché di quelli diffidava non poco: temendone di alcuni le intemperanze e di altri che potessero fargli ombra. Il giorno successivo le camicie nere, da molte ore in attesa di qualche segnale, vennero fatte entrare a Roma. <<La rivoluzione – come scrisse anni dopo Indro Montanelli – era finita, o meglio non era mai cominciata>>. Il guaio è che stava cominciando una dittatura che sarebbe durata venti anni, tra guerre e leggi razziali, sino alla disfatta finale.
Cosa possono dirci oggi questi eventi lontani? A un secolo di distanza tutto è cambiato e nessuno nell'Italia odierna può immaginare un qualsiasi ritorno di quel passato. Resta però un aspetto su cui riflettere. Si potrebbe cioè ricordare non tanto il fascismo mussoliniano, la cui parabola storica si concluse nel 1945, quanto piuttosto il nostro dopoguerra, costellato dallo stragismo di matrice neo fascista, per lo più coperto da depistaggi, la cui finalità era un'involuzione autoritaria del nostro Paese. Involuzione, questa sì sempre possibile: non con la violenza ma con altre forme, magari semplicemente evocando una maggior efficienza del nostro sistema politico. Esaltando un presunto decisionismo. Ecco allora la perenne necessità di difendere i cardini della nostra vita democratica e soprattutto l'indipendenza della magistratura, partendo dall'obbligatorietà dell'azione penale, e la centralità del Parlamento, rifuggendo dall'attrazione fatale dell'”uomo solo al comando”.
Ancora oggi non sono del tutto chiare le ragioni che spinsero il sovrano a respingere l'appello legalitario di Facta. Forse, con esattezza, non lo sapremo mai. Certo è che qualora liberali, popolari e socialisti riformisti avessero trovato un'intesa per formare un governo di unità nazionale difendendo l'ordine costituzionale e respingendo le violenze delle camicie nere, tutto sarebbe probabilmente rientrato nei binari giusti. L'insipienza degli uni, la titubanza degli altri giocarono invece a favore di Mussolini. E così l'Italia si avviò sul piano inclinato che avrebbe portato alla dittatura. Ovviamente nessuno in quel frangente poteva immaginare cosa sarebbe accaduto ma certamente, sin da quel momento era illusorio pensare di contenere il fascismo in un quadro legalitario, perché da mesi le squadre agli ordini di Mussolini commettevano ogni sorta di violenza.
Tutto precipitò a fine ottobre. A Napoli venne indetta una manifestazione nazionale dove confluirono migliaia di camicie nere da tutta la penisola. Roma era ormai vicina. In attesa degli eventi vennero costituiti le milizie si dislocarono attorno alla capitale. Mussolini lasciò fare ai suoi quadriumviri - Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi – e tornò tranquillamente a Milano. Troppa era l'incertezza e non voleva rischiare. In fondo poteva intravedersi già allora che la sua famosa massima <<meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora>> valeva per tutti gli altri ma non per lui. E d'altronde ventitré anni dopo venne catturato dai partigiani, nascosto in un camion e vestito da tedesco. Aveva mollato i suoi per fuggire in Svizzera.
Quando però comprese che l'esercito non sarebbe intervenuto e, anzi, vi era il via libera per l'incarico alla guida del Paese, il futuro Duce raggiunse in treno la Capitale. Ricevuto al Quirinale dal Re, pare abbia detto <<Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto>>, poi formò un esecutivo con liberali, popolari e nazionalisti. Tre soltanto i ministri fascisti e neppure esponenti di primo piano, perché di quelli diffidava non poco: temendone di alcuni le intemperanze e di altri che potessero fargli ombra. Il giorno successivo le camicie nere, da molte ore in attesa di qualche segnale, vennero fatte entrare a Roma. <<La rivoluzione – come scrisse anni dopo Indro Montanelli – era finita, o meglio non era mai cominciata>>. Il guaio è che stava cominciando una dittatura che sarebbe durata venti anni, tra guerre e leggi razziali, sino alla disfatta finale.
Cosa possono dirci oggi questi eventi lontani? A un secolo di distanza tutto è cambiato e nessuno nell'Italia odierna può immaginare un qualsiasi ritorno di quel passato. Resta però un aspetto su cui riflettere. Si potrebbe cioè ricordare non tanto il fascismo mussoliniano, la cui parabola storica si concluse nel 1945, quanto piuttosto il nostro dopoguerra, costellato dallo stragismo di matrice neo fascista, per lo più coperto da depistaggi, la cui finalità era un'involuzione autoritaria del nostro Paese. Involuzione, questa sì sempre possibile: non con la violenza ma con altre forme, magari semplicemente evocando una maggior efficienza del nostro sistema politico. Esaltando un presunto decisionismo. Ecco allora la perenne necessità di difendere i cardini della nostra vita democratica e soprattutto l'indipendenza della magistratura, partendo dall'obbligatorietà dell'azione penale, e la centralità del Parlamento, rifuggendo dall'attrazione fatale dell'”uomo solo al comando”.
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