La velleità dell’impero americano



Giuseppe Ladetto    13 Ottobre 2022       3

Nella riunione della NATO tenutasi a fine luglio, è stato fissato un nuovo compito per l’alleanza: da strumento disegnato per il teatro europeo, diventare il braccio armato, da estendere al di fuori dei confini originari, a sostegno nel mondo intero della democrazia liberale, la cui più autorevole espressione è rappresentata dagli Stati Uniti d’America.

Oggi, infatti, nella comunicazione dominante, ci viene continuamente riproposta la rappresentazione di una contesa fra liberaldemocrazia e autoritarismo per il dominio del pianeta, una visione radicata in quella élite neoliberale che cerca di plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza. Ma è fuori della realtà l’idea stessa che possa esserci un unico modello politico e sociale in grado di imporsi ovunque perché, come ha scritto Alain Caillé, la democrazia (così come ogni altro modello istituzionale) non si riduce ad una formula astratta da applicare in ogni dove. Viviamo in un mondo caratterizzato da profonde differenze culturali, da storie sempre particolari, differenze che riguardano sia il mondo occidentale, sia quello ritenuto ad esso contrapposto. Inoltre, come ci ricorda Lucio Caracciolo, a determinare le vicende e l’evoluzione dei fatti, sono sempre le istanze geopolitiche che, nel tempo, si impongono sulle motivazioni ideologiche (e il liberalismo è una ideologia).

Si potrebbe quindi più realisticamente dire che assistiamo al tentativo di rivitalizzare l’impero americano, che negli ultimi tempi (presidenza Trump, ritiro dall’Afghanistan) era apparso in ritirata.

Ma, denunciano gli atlantisti, sono i soliti “antiamericani di professione” a parlare di impero, con tutto il bagaglio negativo associato a tale termine che rimanda all’imperialismo. Tuttavia, altri, fra cui convinti sostenitori del primato americano, ci dicono che c’è un diverso significato del termine impero, sorretto da una concezione universalistica, volta ad unificare il mondo e a realizzare la pace universale.

In teoria, tali accezioni del termine “impero” potrebbero essere considerate le due facce (una in luce e l’altra in ombra) di una stessa medaglia. Quale delle due si rivela prevalente?

La natura del potere imperiale viene sicuramente diversamente percepita da quanti (popoli, nazioni, classi sociali, categorie) sono ad esso assoggettati, per i quali pesi e vantaggi di tale condizione non sono parimenti distribuiti. Inoltre, nel tempo, è inevitabile che prevalga l’uno o l’altro aspetto di tale potere in dipendenza di varie circostanze.

Ha scritto Giorgio Ruffolo che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, gli USA, per alcuni decenni, hanno esercitato in modo responsabile il ruolo di potenza dominante nell’area occidentale, aprendo un’era di cooperazione internazionale, grazie alla quale l’Europa si è rimessa in piedi, e dando luogo (con il sistema di Bretton Woods) ad una fase di crescita economica che ha diffuso un clima di fiducia nel futuro.

Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, le cose sono cambiate, e l’egemonia americana si è progressivamente trasformata in dominio, con l’affermarsi di una nuova élite plutocratica tendenzialmente asociale, mentre sul piano internazionale si è venuta a determinare una pericolosa asimmetria tra la superpotenza americana e il resto del mondo.

L’odierna immagine dell’impero è riconducibile in gran parte a quella disegnata da quegli apparati statunitensi che hanno voce prevalente nella definizione della politica di sicurezza e più in generale della politica internazionale del loro Paese. Per essi, (come ha scritto Dario Fabbri) gli USA sono e resteranno a lungo l’unica superpotenza. Pertanto, possono – anzi, devono – continuare a dominare il pianeta in perfetta solitudine, senza scendere a patti con alcuno, limitandosi a contenere e/o ridimensionare le potenze regionali esistenti (Russia e Cina), e ad impedire che ovunque se ne formino altre.

Un obiettivo da sempre perseguito, ma solo ora fattosi più vicino, con il conflitto in Ucraina. La NATO (che solo ieri Trump voleva abolire) è ritornata centrale, anzi si è allargata a Svezia e Finlandia; l’autonoma forza armata europea, paventata in USA, è stata messa da parte; si è dissolta la prospettiva di una UE dotata di una dimensione politica all’altezza del suo peso; la Germania, sempre vista come un potenziale pericolo, è in grave difficoltà per l’alto costo dell’energia, mentre si sta ridimensionano quel patto franco-tedesco detestato dagli americani.

Gli USA hanno quindi ripreso saldamente le redini del carro occidentale. Anzi, con la ridefinizione dei compiti della NATO, estesi a livello globale, hanno fatto un ulteriore passo in avanti per assumere il controllo di una più estesa area di influenza, premessa del tentativo mai abbandonato di arrivare ad essere l’unica potenza planetaria ridimensionando il peso di Russia e Cina.

Di fronte a questo scenario, dobbiamo porci alcune domande.

1. Nel periodo di presidenza Trump, molti in Europa si chiedevano se fosse ancora opportuno mantenere con l’America un comune cammino, o quanto meno si proponevano di trovare percorsi autonomi in alcuni settori. Nemmeno un anno fa, Macron ci diceva che noi europei abbiamo con gli americani alcuni valori comuni, ma ci distinguiamo da loro su altri (eguaglianza, importanza della cultura, ruolo dello Stato, ecc.), e inoltre guardiamo con altri occhi al Vicino e Medio Oriente, all’Africa e alla Russia. Pertanto, dobbiamo avere una nostra politica estera non schiacciata sulla loro, e dotarci di una autonoma forza militare, strumento indispensabile per aver voce nel mondo. Perfino Mattarella e Von der Layen, sia pure con parole prudenti, ritenevano che fosse venuto il momento di dare alla UE una dimensione politica e una autonoma capacità di difesa che ne riflettessero le potenzialità.

Sono richieste non legate a un momento politico particolare, ma rispondenti a esigenze profonde alla base della possibile creazione di uno Stato unitario europeo. Ebbene, dobbiamo considerarle cose ormai superate dai fatti, cose da mettere in soffitta?

Certo al momento tali richieste non sono proponibili per i mutati rapporti di forza tra l’America e un’Europa fortemente indebolita, e tanto meno lo saranno quanto più durerà questa guerra in Ucraina. Chi la vuole protrarre a lungo, accantonando ogni soluzione di compromesso, è chiaro che lavora contro l’Europa.

2. In ogni caso, ci troviamo di fronte a un periodo, probabilmente lungo, durante il quale saremo parte di quel mondo a salda egemonia americana, con tutto quanto comporta per i suoi membri. Pertanto, oltre alla sfera militare e alla politica estera, anche negli altri ambiti si potrà far sentire, ben più di quanto non accada attualmente, la voce condizionante del Paese leader.

Tuttavia, nel sentire della gente, la concezione sociale europea è ritenuta lontana da quella americana. L’America privilegia la libertà individuale e la responsabilità personale, pratica il culto del capitalismo, esalta il successo individuale, legittima le diseguaglianze anche molto rilevanti, e invoca forti limiti al potere statale, sempre ritenuto oppressivo. In Europa, i cittadini pongono al centro delle loro preoccupazioni la sicurezza sociale, e riconoscono allo Stato, nelle sue articolazioni, e al settore pubblico un ruolo importante non solo negli spazi propri di tali enti, ma esteso ad altri ambiti, come, ad esempio, sanità e istruzione (negli USA in mano ai privati).

Domandiamoci che cosa accadrà domani quando si farà più pressante la spinta ad omologarsi al sistema americano se già oggi, il modello di capitalismo deregolato anglosassone, importato in Europa e fatto proprio dai vertici comunitari, non sta dando buona prova di sé: provoca crescenti fratture nella società, mette a rischio la stabilità sociale, suscita la protesta popolare e alimenta le istanze populiste.

3. Secondo molti, gli USA resteranno a lungo (per l’intero secolo in corso) l’unica superpotenza. Forse sarà così, ma ci sono numerosi ostacoli su tale cammino. Ne ho già scritto in un precedente articolo, “L’Occidente e la fine della storia” (CLICCA QUI). Riprendo quanto ritengo più significativo in materia.

Il primato americano, per mantenersi, necessita delle risorse garantite da quella rendita finanziaria assicurata dalla posizione di dominio del dollaro che consente alla grande potenza di indebitarsi sempre più verso il resto del mondo drenandone la ricchezza per alimentare i propri consumi. Una situazione che non potrà mantenersi indefinitamente.

L’affacciarsi alla ribalta planetaria di sempre nuovi popolosi Paesi con culture lontane da quella anglosassone rende sempre più arduo il mantenimento di un’egemonia da parte di una singola nazione la cui way of life non è più riconosciuta come un modello valido per tutti.

Per affrontare le criticità (il riscaldamento climatico in primis) prodotte dall’attuale tipologia di sviluppo, è indispensabile cambiare strada, ponendo freni alla globalizzazione e all’incontrollato sviluppo capitalistico tipico del modello statunitense.

Inoltre, come ci ha detto padre Gael Giraud (vedi “Nubi sulla transizione energetica” CLICCA QUI), c’è uno stretto rapporto fra le fonti energetiche utilizzate nel corso della storia (carbone, petrolio, metano, nucleare, ed ora fonti energetiche rinnovabili) e gli assetti di ordine economico, sociale e politico. Il passaggio alle energie rinnovabili muterà l’attuale assetto fondato su petrolio e gas, e gli stessi equilibri internazionali ne saranno coinvolti, e forse sconvolti.

Quindi ci vorrà del tempo, ma inevitabilmente – pur tra difficoltà, momenti di tensione internazionale e rischi di guerra, e malgrado la velleità statunitense di rappresentare l’unico polo mondiale – si giungerà ad un mondo multipolare. L’interrogativo è che cosa resterà del progetto europeo, se tale traguardo si farà attendere troppo a lungo. Parlo di uno Stato federale europeo non subalterno ad alcuno, coerente con la storia e con la ricchezza di sorgenti culturali che hanno definito l’identità del continente, una identità plurale su un fondamento comune.

Rispondere a questi interrogativi è difficile perché molte sono le incognite, ma chi ha a cuore l’Europa non può evitare di impegnarsi in questa impresa.


3 Commenti

  1. Sottoscrivo parola per parola l’analisi dei fatti e le valutazioni fatte, con la sua solita lucidità, da Ladetto.

    Un’unica osservazione, culturale più che politica. Macron ha fatto una giusta osservazione sui fatti. La Francia però non è il Regno di Sardegna del nostro Risorgimento, quale obiettivamente sarebbe necessario che fosse per giungere ad una nazione europea (anche la trilingue Svizzera è, a modo suo, una nazione pur nelle diversità etniche). E questo purtroppo è il retaggio della storia Europea moderna che fa sì, come disse un giorno Dario Fabbri, che la Francia percepisca l’Europa come una sua appendice, e non come una potenziale nuova nazione in costruzione che percepisca in modo unitario il suo destino politico e, prima ancora, culturale.
    L’astrattezza illuministica statunitense ha portato al delirante piano della civltà unica mondiale (neppure il saguinario Stalin concepì ciò e fece uccidere il sognatore Trosky che ciò sognava sotto l’egida del comunismo sovietico).
    Ma il senso della storia europeo non mi sembra che oggi sia in grado, fondando una nuova cultura storicizzata attenta allo hic et nunc (si veda la critica romantica all’astrattezza illuministica che la cultura USA ignora totalmente), di dare alla cultura occidentale, universalizzata ormai dal suo momento tecnologico.
    La cultura occidentale odierna e ormai orientata ad adattare l’uomo alle macchine, e non le macchine all’uomo al fine di ridurre il guasto psicologico che la loro sempre maggiore eccessiva invasività comporta (si veda il delirio cibernetico), rinunciando a dissertare di antropologia, come secoli di cultura occidentale pretecnolatrica, ci avevano insegnato.
    L’umo occidentale odierno (e, in verità, non solo più lui), guidato anche culturalmente, prima ancora che politicamente, militarmente ed economicamente, dagli USA, dotati di scarsa sensibilità storica in nome dell’astrattezza razionale scientista, non comprende più la necessità di “conoscere se stesso” ma è unicamente teso a conoscere il modo di adattarsi al dominio delle macchine (con tutto ciò che di concezione egemonica dell’economia, con la sua concezione forzatamente e ossessivamente innovativa, sulla politica comporta). E lo spirito che anima tale atteggiamento ha la forza di una vera e propria religione salvifica.
    Se non si reagisce a ciò (e sinceramente non so proprio come lo si possa fare) è tutto vano.

  2. L’ineccepibile analisi dell’ amico Ladetto non può non essere messa a confronto con il comportamento complessivo di chi negli ultimi tempi ha detenuto il potere nei vari stati della cosiddetta Unione Europea. Senza fare di ogni erba fascio, non vi è dubbio che, a parte lo stato di necessità durante la fase acuta della pandemia, per l’ obiettivo dell’ unità i governi europei sono paragonabili ad un sistema di vettori a risultante nulla.
    Ci chiediamo: a chi giova ? Certamente a chi ad ogni livello orienta il suo agire sul brevissimo termine, come se tutti in Europa fossero in perenne campagna elettorale. In questa situazione diventa illusorio sperare che l’Europa possa porsi a capo di iniziative di pace che mostrino all’ aggressore, ma anche all’ aggredito, che la pace conviene, e non solo alle popolazioni (ovvio), ma anche ai capi delle nazioni ed al loro entourage.
    In questa situazione è arduo sperare che l’ Europa non sia costretta ad un lungo periodo di sudditanza, salvo discutere vanamente di chi sia meglio essere sudditi e accontentarsi del diritto di “mugugno” (leggi: discorsi e manifestazioni pro pace).

  3. Astrattezza illuministica sì, spinta delle élites capitalistiche sviluppatesi a partire dagli anni’80 e concimate dalle ideologie neoliberiste friedmaniane anche ma il basso continuo dell’atteggiamento statunitense è segnato, come Max Weber già ci insegnava all’inizio del XX secolo, dalla spiritualità puritana tutta imperniata sull’idea biblica dell’elezione e filtrata attraverso un’esegesi sostanzialmente fondamentalista del testo sacro. Quanto all’Europa (quell’Europa la cui Corte dei diritti dell’uomo, istituzione non direttamente collegata alla UE ma pur sempre incardinata nella Convenzione del 1950 siglata molto tempo prima che i Trattati vedessero la luce, ha condannato la Francia rea di aver sanzionato una Femen protagonista di atti osceni e blasfemi nella Chiesa della Madeleine a Parigi) chi sa se riuscirà a intuire quale grande opportunità rappresenterebbe la crescita di uno schema multipolare entro il quale giocare con abilità le proprie carte e ambire a (ri)costituirsi un’identità e una dignità?

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