L'esito delle elezioni italiane ha creato qualche preoccupazione nel mondo per una ragione oggettiva, le indelebili radici post fasciste del partito di maggioranza relativa. Una reazione che presto verrà superata dal pragmatismo degli affari e dal realismo delle diplomazie ma che reca comunque qualche imbarazzo agli italiani e ci ricorda, dopo ottant'anni, e per i prossimi secoli, chi siamo stati, un alleato della Germania nazista.
La vittoria conseguita dalla coalizione di centrodestra lo scorso 25 settembre permetterà, forse, se il quadro finanziario e bellico non si aggraverà ulteriormente nelle prossime settimane, di evitare un nuovo governo di emergenza, disponendo il centrodestra della maggioranza dei seggi in entrambi i rami del parlamento, per governare ma non per cambiare da solo la Costituzione.
I numeri di queste elezioni sembrano dirci anche tante altre cose.
Il centrodestra ha fatto appena il minimo sindacale per vincere. Ha riproposto l'alleanza al completo, nella quale si è assistito a un travaso di voti dalla Lega a Fratelli d'Italia. Non si è dimostrato capace di erodere voti al centro e soprattutto di frenare l'uscita nel non voto di circa quattro milioni di elettori (corrispondenti a quel 9% di votanti in meno rispetto al 2018) delusi dai populisti. Il centrodestra ha conseguito il consenso di appena un avente diritto al voto su quattro ed ha riportato meno voti (12 milioni) di quelli ottenuti dalle liste del centrosinistra (13 milioni), che però si sono presentate divise.
La coalizione riformatrice deve ripartire dagli errori compiuti. I più evidenti, anche se non i più gravi, sono gli errori tattici, quelli che hanno impedito la formazione di una larga alleanza. E prim'ancora la decisione di Conte, non si sa quanto condizionata da soli fattori interni, di far cadere il governo Draghi. Nella sostanza però è parso mancare quello che avrebbe dovuto essere l'anima del centrosinistra, il Partito Democratico, più che uno zombie un partito mai realmente nato, che negli anni si è diviso tra la gestione di residui spazi di potere, comunque di molto superiori al suo peso elettorale e nella società, e l'ossequio a qualsivoglia obiettivo imposto, attraverso i media, da quella élite di miliardari che insidia la pace mondiale rifiutandosi di venire a patti con altri centri di potere di rilevanza globale, anche se non occidentali.
Occorre agire da subito, a mio modo di vedere, in due direzioni, per recuperare la partecipazione e per rilanciare una proposta di governo riformatrice.
La prima direzione non può che esser quella di rivedere le modalità di selezione della classe dirigente dei partiti, soprattutto rispetto al nodo delle candidature per non avere un altro Parlamento di nominati. Se rimarrà una legge elettorale senza preferenze, le quali risolverebbero il problema alla radice, allora le primarie, per i collegi uninominali e per i listini, vanno poste come condizione irrinunciabile insieme all'abolizione di qualunque forma di candidatura plurima.
L'altra direzione in cui agire è quella di porsi il problema di come ridare una forma culturale e organizzativa alle tradizioni politiche solidariste e popolari e – perché no? – pacifiste, fra cui la nostra, quella cattolico-democratica. Non certo pensando a nuovi partiti ma partendo dall'esistente, da quanti sono delusi dalla deriva radical-chic del PD, partendo dalla interessante novità di un terzo polo, carente sinora di un impronta popolare, partendo da ciò che si sta muovendo nel calderone populista dei Cinque Stelle. Perché pur fra tante ambiguità credo vada registrata l'abilità di Giuseppe Conte di porsi, come fa il cuculo nei nidi altrui, quale rappresentante di un'area laburista e sociale, sostituendosi in tale compito a un Partito Democratico che non solo non è riuscito ma che ha anche sempre un po' schifato una tale missione.
Cambiare il volto al centrosinistra, recuperando partecipazione e protagonismo popolare, è possibile, i cattolici possono fare molto in tal senso, come già accadde con l'Ulivo. Questo potrà divenire auspicabilmente la più salutare conseguenza di questa sconfitta.
La vittoria conseguita dalla coalizione di centrodestra lo scorso 25 settembre permetterà, forse, se il quadro finanziario e bellico non si aggraverà ulteriormente nelle prossime settimane, di evitare un nuovo governo di emergenza, disponendo il centrodestra della maggioranza dei seggi in entrambi i rami del parlamento, per governare ma non per cambiare da solo la Costituzione.
I numeri di queste elezioni sembrano dirci anche tante altre cose.
Il centrodestra ha fatto appena il minimo sindacale per vincere. Ha riproposto l'alleanza al completo, nella quale si è assistito a un travaso di voti dalla Lega a Fratelli d'Italia. Non si è dimostrato capace di erodere voti al centro e soprattutto di frenare l'uscita nel non voto di circa quattro milioni di elettori (corrispondenti a quel 9% di votanti in meno rispetto al 2018) delusi dai populisti. Il centrodestra ha conseguito il consenso di appena un avente diritto al voto su quattro ed ha riportato meno voti (12 milioni) di quelli ottenuti dalle liste del centrosinistra (13 milioni), che però si sono presentate divise.
La coalizione riformatrice deve ripartire dagli errori compiuti. I più evidenti, anche se non i più gravi, sono gli errori tattici, quelli che hanno impedito la formazione di una larga alleanza. E prim'ancora la decisione di Conte, non si sa quanto condizionata da soli fattori interni, di far cadere il governo Draghi. Nella sostanza però è parso mancare quello che avrebbe dovuto essere l'anima del centrosinistra, il Partito Democratico, più che uno zombie un partito mai realmente nato, che negli anni si è diviso tra la gestione di residui spazi di potere, comunque di molto superiori al suo peso elettorale e nella società, e l'ossequio a qualsivoglia obiettivo imposto, attraverso i media, da quella élite di miliardari che insidia la pace mondiale rifiutandosi di venire a patti con altri centri di potere di rilevanza globale, anche se non occidentali.
Occorre agire da subito, a mio modo di vedere, in due direzioni, per recuperare la partecipazione e per rilanciare una proposta di governo riformatrice.
La prima direzione non può che esser quella di rivedere le modalità di selezione della classe dirigente dei partiti, soprattutto rispetto al nodo delle candidature per non avere un altro Parlamento di nominati. Se rimarrà una legge elettorale senza preferenze, le quali risolverebbero il problema alla radice, allora le primarie, per i collegi uninominali e per i listini, vanno poste come condizione irrinunciabile insieme all'abolizione di qualunque forma di candidatura plurima.
L'altra direzione in cui agire è quella di porsi il problema di come ridare una forma culturale e organizzativa alle tradizioni politiche solidariste e popolari e – perché no? – pacifiste, fra cui la nostra, quella cattolico-democratica. Non certo pensando a nuovi partiti ma partendo dall'esistente, da quanti sono delusi dalla deriva radical-chic del PD, partendo dalla interessante novità di un terzo polo, carente sinora di un impronta popolare, partendo da ciò che si sta muovendo nel calderone populista dei Cinque Stelle. Perché pur fra tante ambiguità credo vada registrata l'abilità di Giuseppe Conte di porsi, come fa il cuculo nei nidi altrui, quale rappresentante di un'area laburista e sociale, sostituendosi in tale compito a un Partito Democratico che non solo non è riuscito ma che ha anche sempre un po' schifato una tale missione.
Cambiare il volto al centrosinistra, recuperando partecipazione e protagonismo popolare, è possibile, i cattolici possono fare molto in tal senso, come già accadde con l'Ulivo. Questo potrà divenire auspicabilmente la più salutare conseguenza di questa sconfitta.
Nello scritto di Giuseppe Davicino e nell’articolo di Domenico Galbiati, si fanno considerazioni condivisibili sulle ragioni che hanno provocato il tonfo elettorale del PD. Tuttavia credo che sia opportuno allargare lo sguardo a quanto accade nei partiti progressisti degli altri paesi occidentali, tutti afflitti, sia pure in diversa misura, da una crisi a cui non sembrano capaci di dare risposta. In particolare dobbiamo prendere in considerazione il Partito Democratico degli Stati Uniti perché è ad esso che il PD ha guardato fin dalla sua fondazione adottandone perfino la denominazione.
Federico Rampini ha recentemente scritto che, negli Stati Uniti, la natura dei cosiddetti “poteri forti” è profondamente cambiata. Quelli tradizionali, fra i quali i petrolieri, simpatizzanti per il Partito Repubblicano, sono stati sopravanzati dalle imprese impegnate nel digitale (in genere californiane) e da quelle finanziarie (con al centro Wall Street), i cui manager (stramiliardari) sono dichiaratamente progressisti, e sostengono il Partito Democratico e le sue correnti più radicali. Ovviamente il mondo politico progressista ricambia i favori con il costante appoggio alle iniziative di detti poteri forti.
Come è potuto accadere un tale fatto apparentemente innaturale?
Zigmunt Bauman, tempo fa, ha scritto che la società odierna ha abbandonato l’aspirazione di costruire un mondo più giusto, e in sua vece, ha adottato il riferimento ai diritti civili che debbono essere estesi nella ricerca di nuove forme di coabitazione in una società sempre più differenziata.
Su questa strada, si sono messe le formazioni politiche progressiste accantonando il prioritario sostegno dato in passato alla classe operaia e ai ceti deboli per privilegiare le richieste delle numerose e crescenti associazioni di militanti in lotta per realizzare istanze inappagate. Così le battaglie prioritarie sono diventate quelle connesse al politicamente corretto, alla teoria gender, alla cancel culture, al femminismo più estremista, e via dicendo.
Domenico Galbiati scrive che i cosiddetti “diritti civili” hanno la loro ragion d’essere, purché non diventino il cavallo di Troia di una concezione individualista e di stampo radicale della vita. Ma è proprio questo il loro fine: liberare l’individuo da ogni limitazione in ambito sociale e perfino biologico affinché possa realizzare se stesso ed i propri desideri senza curarsi d’altro.
Inoltre, i diritti, quando codificati, diventano un “a priori” che toglie spazio alla politica, limitandone le possibilità di scelta. Se vi aggiungiamo i condizionamenti posti dalla globalizzazione e dai molti organismi internazionali, la politica risulta sempre più compressa con il rischio che venga soffocata, e con essa la democrazia. I cittadini ormai si rendono conto dell’impotenza della politica, incapace di dare risposte alle loro esigenze, e disertano le urne ovunque (a New York l’80%).
Inoltre, i ceti popolari, ancora in larga misura ancorati ai valori tradizionali, rigettano il “nuovo” che viene loro proposto dai progressisti, e si allontanano da loro. Aderisce invece al “nuovo” prevalentemente la media e alta borghesia influenzata da quanti controllano gli strumenti della produzione culturale (interpretando le esigenze di chi determina il flusso del denaro e dell’informazione nel mondo globalizzato), a cui si associano i personaggi del mondo dello spettacolo e dei media sempre conformisticamente in linea con il pensiero che appare vincente.
Così le sinistre “liberal” conquistano le zone ZTL, e perdono le periferie urbane e i territori extraurbani, come dimostra la schiacciante vittoria, nella un tempo Stalingrado lombarda, della figlia di Rauti sul figlio del deportato in un lager nazista.
Dobbiamo cominciare a misurarci con queste problematiche se vogliamo comprendere dove stia andando il mondo.