Pubblichiamo l’ampio saggio che il Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, e ispiratore del Manifesto fondativo di INSIEME, ha scritto per indicare strumenti di comprensione e una via d’uscita per la guerra ucraina.
“Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”
Introduzione e motivazione
L’intervento armato della Russia in Ucraina costituisce il decimo episodio di notevole rilievo della nuova epoca della guerra, che è iniziata con la caduta del muro di Berlino. (Nel mondo, ben 169 sono le guerre oggi in corso!).
Due elementi caratterizzano questa nuova epoca. Il primo è che la fine della guerra fredda ha distolto l’Occidente dai suoi impegni a favore dei paesi poveri del Sud del mondo, una volta venuto meno il rischio di diffusione in quei paesi del sovietismo. Ciò aiuta a comprendere perché quella in corso è la prima guerra di carattere globale e non già di carattere mondiale. E’ chiara la differenza. Mentre quest’ultima diffonde le sue conseguenze negative dirette solamente tra i paesi belligeranti, una guerra globale è tale quando le conseguenze colpiscono anche paesi terzi che non hanno parte nel conflitto. Il caso odierno della carenza di cibo dovuta, non alla mancanza fisica dello stesso, ma al blocco dei traffici marittimi e terrestri, è solamente un caso esemplificativo, quello che più sta sorprendendo l’opinione pubblica. Con il blocco dei cereali e dei fertilizzanti, la fame è strategicamente pianificata per prendere corpo in altri paesi, come arma per determinare migrazioni dai paesi africani verso l’UE, che pure non è in guerra. Discorso analogo vale per l’energia.
Il secondo elemento è che, fino ad anni recenti, mai si era pensato alla globalizzazione in situazioni di guerra. Anzi, se c’era un convincimento diffuso, tra studiosi e opinionisti, questo era che la globalizzazione pur con le sue aporie, servisse la causa della pace. Ad esempio, l’influente saggio dell’economista inglese R. Cooper (The postmodern state and the World order, Londra 2000) difende la tesi secondo cui la società post-moderna, il cui inizio viene associato all’avvento del processo di globalizzazione che prende avvio dal summit del G6 del novembre 1975 nel castello di Rambouillet (Parigi), è una società inerentemente pacifica.
I fatti dell’ultimo trentennio si sono incaricati di farci prendere atto di una verità che si sarebbe dovuto vedere già da tempo e cioè che la globalizzazione è certamente un gioco a somma positiva che aumenta sia il reddito, sia la ricchezza complessivi, ma al tempo stesso aumenta le disuguaglianze sociali sia tra Paesi, sia tra classi sociali entro un medesimo Paese, pur se ricco. Di qui l’impulso all’insorgenza di conflitti armati. Ha colto lucidamente la questione H. Arendt quando nel ben noto saggio Sulla violenza ( Guarda, Parma 1996 [1969]) scrive: “La rabbia non è affatto una reazione automatica alla miseria e alla sofferenza in quanto tali. Nessuno reagisce con rabbia a una malattia incurabile e a un terremoto o alle condizioni sociali che paiono immutabili. Soltanto dove c’è ragione di sospettare che le condizioni potrebbero cambiare e non cambiano scatta la rabbia” (p.67).
Il punto ora sollevato merita un breve approfondimento. Riallacciandosi ad una precedente idea di Erasmus da Rotterdam (Enchiridion Militis Christiani, 1503), Montesquieu, nel suo celebre Lo spirito delle leggi (1750), scrive: “L’effetto naturale del Commercio è il portare la pace perché due nazioni che commerciano diventano reciprocamente dipendenti”. Sulla medesima linea di pensiero si muove A. Hirschman (1977) quando, dopo aver correttamente annotato che le società di mercato sono fondate sugli interessi, mentre le società antiche e feudali erano fondate sulle passioni, conclude affermando che il capitalismo tende a rendere il mondo più pacifico, dal momento che soggetti autointeressati e razionali non hanno convenienza a farsi la guerra. (Alcuni anni prima, Bertrand Russell, in aperta polemica con il mainstream economico, aveva scritto che se veramente gli uomini fossero auto-interessati mai si farebbero la guerra. Quanto a significare che la celebrata metafora dell’homo oeconomicus è priva di fondamento empirico).
Una tesi opposta è quella di Antonio Genovesi, il fondatore del paradigma di economia civile e primo cattedratico universitario al mondo di economia (Napoli 1753). Nel suo Lezioni di Economia Civile (1765) si legge: “Il gran fonte della guerra è il commercio. Il commercio è geloso e la gelosia arma gli uomini”. E nel saggio, veramente notevole, La logica per i giovanetti (Gabrielli, Verona 2020; ed. originale 1766), Genovesi arriva a scrivere: “Un quarto principio di economia civile è: bisogna che un popolo dipenda dagli altri nel minimo possibile. Massima mirabile, la quale sola ha ingrandito gli Inglesi e ingrandirà tra poco i Portoghesi, che l’hanno presa per tutti i versi. Un popolo quanto più dipende dagli altri tanto più è povero e schiavo; più infingardo, più avvilito. Questo principio non è stato inteso in tutte la sua ampiezza appunto per mancanza di buoni filosofi da illuminare il pubblico. Vi è in Italia un bel Paese avvezzo da lungo tempo a vivere sugli altri. Se non si desta, ora che tutti vogliono vivere da sé e per sé, farà in non molto tempo tanta pietà al genere umano quanto fece altre volte meraviglia”. (p.221).
La vicenda bellica in Ucraina, di cui siamo tristi spettatori, ci deve obbligare ad ammettere che Genovesi aveva visto giusto! In sostanza, bisogna evitare di rimanere ostaggi nelle forniture di energia da Paesi che la usano come arma di ricatto politico. (Cfr. A. Clò, Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità, Il Sole 24 Ore, Milano 2022).
È di interesse riferire la posizione di I. Kant che nel suo La pace perpetua (1795) richiama l’attenzione sulla facilità di finanziare le guerre grazie al sistema dei pagamenti internazionali: “Un sistema di credito nel cui ambito i debiti crescono indefinitamente (…) è un pericoloso potere monetario. Questo modello di organizzazione (…) costituisce in realtà un tesoro destinato alla guerra. Queste risorse per pagare la guerra, combinate con l’inclinazione verso di esse di coloro che governano – una inclinazione che sembra impiantata nella natura umana – è un grande ostacolo alla pace perpetua. (Cit. in R. Triffin, “How world entered inflation”, in R. Masera e R. Triffin, a cura di, Europe’s Money, Oxford University Press, 1984).
Quale il senso di quanto precede? Che il commercio favorisce la pace solamente se i guadagni che ne derivano vengono equamente divisi. In caso contrario, il Paese che vedesse peggiorata la sua posizione economica tenderà a usare la forza per ottenere una qualche ripartizione dei guadagni derivanti del commercio. Già l’aveva compreso J.S. Mill quando nei suoi Principles of Political Economy (1848) aveva chiarito che ai gains from trade (guadagni dal commercio) sempre si associano i pains from trade (dolori dal commercio). Eppure, gli sviluppi successivi del pensiero economico ufficiale mai hanno voluto considerarne le implicazioni. Con talune eccezioni, la più notevole delle quali è quella di T. Schelling, che nel suo celebre The Strategy of Conflict (Chicago University Press, 1960), mostra come la scelta dell’opzione guerra è sempre la risultante della presenza simultanea di due elementi: una ragione specifica (malcontento della popolazione; frustrazione; insicurezza; forte spinta identitaria) e la percezione che l’uso della violenza è in grado di modificare a proprio favore la situazione.
In quanto segue, mi occuperò dapprima di fare luce sull’illusorio tentativo della Russia di Putin di dare una giustificazione in chiave ideologica alla guerra in Ucraina. Passerò poi ad occuparmi delle ragioni avanzate dall’istanza pacifista a proposito del conflitto in corso. Nel paragrafo 4, difenderò la tesi efficacemente resa dall’adagio Si vis pacem, para civitatem, focalizzando l’attenzione su quelle istituzioni di pace che, nelle condizioni odierne, reputo più urgenti da edificare. Infine, avanzerò una proposta, che giudico plausibile ed efficace, per arrivare, in tempi brevissimi, a un negoziato di pace.
Le pseudo motivazioni della guerra
Nel fallace tentativo di dare una giustificazione a questa guerra, la dirigenza russa evoca, per stigmatizzarlo e assumerlo come bersaglio militare, il cosiddetto Occidente collettivo (USA e Europa Occidentale), cui attribuisce aspirazioni neo-colonialiste, soprattutto verso l’Est europeo. L’accusa non è nuova; la si ritrova, ad esempio, in una sorta di catechismo compilato da un noto giornalista filoputiniano col titolo Breve catechesi dell’uomo russo” (Trimarium, dic. 2017, ripreso da “Limes”, nel fascicolo del dicembre 2017).
Tre i punti principali che definiscono la “dottrina Putin”. Primo, l’Ucraina non avrebbe mai avuto una sua propria identità e una sua statualità prima della Rivoluzione d’ottobre; secondo, l’Ucraina avrebbe ricevuto dall’URSS risorse, concessioni e favori di varia natura; terzo, l’Ucraina sarebbe un Paese governato da una cricca di neonazisti. Nel saggio Circa l’unità storica dei Russi e degli Ucraini pubblicato da Putin nel luglio 2021 si legge che l’Ucraina come entità autonoma è stata un’invenzione della “politica bolscevica delle nazionalità a spese della Russia storica”.
Come mostra A. Dell’Asta (Le false motivazioni della guerra, “Vita e Pensiero”, 2, 2022), si tratta di asserti falsi. Soprattutto il terzo è privo di ogni fondamento. La “dottrina Putin” ha tra i suoi punti di riferimento intellettuali Ivan Ilyin (1883-1954), un filosofo russo autore di un non ben precisato fascismo russo-cristiano che, dopo l’espulsione dall’URSS nel 1922, abbacinato dalla figura di Mussolini, scrisse una voluminosa apologia della violenza politica. La tesi difesa è che lo “spirito bianco” della Russia avrebbe dovuto animare le forze politiche di estrema destra in Europa. Ciò dà conto del perché, a partire dal 2013, il Cremlino ha fornito sostegni di varia natura ai partiti europei populisti e sovranisti, convinti assertori della “decadenza” morale e spirituale dell’Unione Europea. (Per i dettagli, rinvio a T. Snyder, God is a Russian, New York Review, 5 aprile 2018).
Ad essere precisi, le radici culturali delle politiche russe sono ancora più profonde.
Il grande poeta Alexander Pushkin prevedeva nel 1836 che la Russia avrebbe sempre seguito un percorso diverso da quello del resto d’Europa. “Il nostro destino era allora proteggerci dai Mongoli, per poi diventare noi stessi un regime autoritario”. (Il riferimento è a Gensis Khan che invase Kiev nel 1228 e vi rimase per due secoli e mezzo). Un gigante della letteratura come Fӫdor Dostoevskij giunge ad affermare: “C’è una sola verità e un solo popolo può avere un vero Dio. L’unico popolo portatore di Dio è il russo. (B. Jangfeldt, L’idea russa, Neri Pozza, Milano 2022). L’ultimo imperatore russo, Nicola II, aveva il titolo di Zar di Kiev, il che suggerisce che mentre l’Ucraina possiede una sua identità nazionale, la Russia è, piuttosto, un’entità politica. Al fondo della cultura Russa non c’è il senso di appartenenza a una identità particolare, ma il senso di reverenza verso un potere sovrano, cioè verso un efficace sistema di potere e di governo autoritario. Il che è quanto sta facendo Putin, il quale è persuaso che è il potere come potenza – non già il potere come influenza – che assicura sia l’ordine sia l’amministrazione della giustizia. È in ciò la ragione per la quale Putin riceve consenso sia tra la popolazione sia tra la più parte degli intellettuali. (Come si sa, chi ama la democrazia, invece, diffida del potere come potenza e cerca piuttosto di limitarlo).
Il fatto è che la Russia ha mancato tre cruciali passaggi della modernizzazione europea. (M. Marini, La Russia di Putin, Mulino, Bologna 2020). Primo, non è mai passata attraverso la Riforma e l’Illuminismo di marca francese, oppure scozzese, oppure italiana e pertanto non ha conosciuto la civiltà borghese che, in Europa occidentale, contribuì a gettare le fondamenta dello Stato Costituzionale. Secondo, la Russia è sempre stata un impero, non uno stato-nazione (che può generare un impero) e dunque l’autocrazia è il suo modo naturale di governo. Infine, la Russia non ha mai conosciuto quel modello di capitalismo liberale che ha caratterizzato l’economia di mercato dell’occidente europeo. Il suo è piuttosto un capitalismo patrimoniale, la cui cifra è rappresentata dalla figura dell’oligarca. In verità, Pietro il Grande capì tutto questo e cercò di aggiornare la cultura popolare russa, ma non ebbe abbastanza tempo. La Rivoluzione bolscevica del 1917 comprese l’urgenza di una radicale trasformazione culturale, lanciando l’idea dell’Uomo Nuovo, ma con ben scarsi risultati per un insieme di ragioni.
Robert Cooper ha definito la Russia un “moderno stato pre-moderno”. (The breaking of nations, New York 2003). Eloquente al riguardo la posizione espressa da Putin nella celebre intervista al “Financial Times” del 26 giugno 2019 rilasciata a L. Barber: “L’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in contrasto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione… I valori tradizionali sono più stabili e più importanti per milioni di persone dell’idea liberale che, per me, ha cessato di esistere”.
Alla luce di quanto sopra, si può comprendere il senso dell’icastica affermazione del patriarca Kirill secondo cui: “Siamo impegnati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico”. Ma la metafisica cui fa riferimento Kirill non è certo quella di Florenskij, Bulgakov e altri. Per l’ideologia religiosa del “Mondo Russo” (Russkij Mir), “esiste una sfera o civiltà russa transnazionale, chiamata Santa Rus’, che include Russia, Ucraina, Bielorussia”. Il “Mondo Russo” possiede un centro politico comune (Mosca); un centro spirituale comune (Kiev); una lingua comune; una Chiesa comune (il Patriarcato di Mosca) che opera in sinfonia con un leader comune (oggi, Putin) per governare questo mondo al fine di riportare in auge il progetto dell’antica Rus’. (Si badi che l’antica popolazione della Rus’ era di origine scandinava, non slava, come si continua a far credere). È d’interesse, a tale proposito, riferire la dichiarazione del 13 marzo 2022 di trecento teologi e intellettuali ortodossi dell’Orthodox Christian Studies Center della Università Fordham di New York in merito alla ideologia del “Mondo Russo”. “Il sostegno di gran parte del Patriarcato di Mosca alla guerra del presidente Vladimir Putin ha le sue radici nel fondamentalismo religioso ortodosso, totalitario noto come Russkij Mir – un insegnamento falso che attrae molti della Chiesa ortodossa e che è accolto anche da taluni segmenti del fondamentalismo cattolico e protestante”. (Si rammenti che il principio dell’organizzazione su base etnica della Chiesa ortodossa venne condannato dal Concilio di Costantinopoli del 1872. Quella praticata oggi in Russia è pertanto una vera e propria eresia).
Va da sé che la spiegazione ideologico-identitaria, dei cui tratti caratteristici si è appena detto, non è sufficiente a dar conto dell’invasione del 24 febbraio 2022. Occorre mettere in campo la componente cosiddetta realista, secondo cui Putin avrebbe deciso di scatenare la guerra per impedire all’Ucraina di venire attratta nell’orbita occidentale e di entrare a far parte della NATO. Per far memoria, nel 1994, Ucraina e Russia avevano firmato il memorandum di Budapest, un trattato con il quale l’Ucraina si impegnava a dismettere il suo arsenale nucleare in cambio della tutela dei suoi confini, comprensivi della Crimea e del Donbass. Mentre l’Ucraina rispettò il patto, non altrettanto può dirsi della Russia. Diversi anni dopo, nell’inverno 2013 Kiev decise di non sottoscrivere l’adesione all’UE e al tempo stesso di avviare trattative con Mosca per siglare un accordo economico-finanziario ritenuto più vantaggioso. Come sappiamo, ne conseguì una frattura seria nel Paese tra le due fazioni, quella dei sostenitori dell’adesione alla UE e quella dei sostenitori del patto con Mosca. Il Donbass, a maggioranza etnica russa, proclamò a quel punto la propria indipendenza con il pieno sostegno della Russia. Ebbe così inizio una guerra, mai dichiarata, tra l’esercito regolare ucraino e quello separatista: in otto anni, 14.000 sono stati i morti e un milione e mezzo i cittadini che hanno lasciato il paese, di cui novecentomila riparati in Russia.
L’anno successivo, nel 2014, Henry Kissinger scrive per il “New York Times” un editoriale nel quale si legge: “L’Unione Europea deve riconoscere che la sua dilatazione burocratica e la subordinazione dell’elemento strategico alla politica interna nel negoziare il rapporto dell’Ucraina con l’Europa, hanno contribuito a trasformare un negoziato in una crisi”. Il negoziato entrò poi in vigore nel settembre 2017. L’obiettivo, per l’UE, non era solamente quello di aprire in Ucraina un mercato per le proprie merci, ma anche quello di estendere la formula dell’associazione a Paesi della regione come Armenia, Georgia, Azerbaijan. Le annessioni territoriali del 2014 da parte russa trovano in ciò una specifica spiegazione. Colpevolmente, l’Occidente sottovalutò il rischio di conflitto che ne sarebbe derivato, anche perché non si volle capire o non si volle prendere sul serio quel che Putin disse nella Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2007, quando pose in seria discussione la liceità dell’ordine mondiale scaturito dopo il 1989.
Non è questo però il solo errore di valutazione commesso dall’Occidente. Assai più grave è stato l’errore consumato all’indomani della caduta dell’URSS quando policy-maker ed economisti occidentali consigliarono (si fa per dire) il presidente Eltsin di dare prontamente avvio alla liberalizzazione dell’economia prima ancora di provvedere alle necessarie riforme costituzionali. Fu così che Eltsin si “convinse” ad approvare la shock therapy, che provocò la morte di tante persone generando un pesante malcontento tra la popolazione. Eppure, anche un non esperto, se intellettualmente onesto, riesce a comprendere che è la democrazia, con le sue istituzioni, che vien prima del mercato. Perché senza il supporto di una vitale e ben organizzata società civile, il mercato diviene una giungla. (Come noto, la “legge di Lipset”, dal nome del politologo inglese che negli anni Settanta sentenziò che sono le istituzioni dell’economia di mercato a portare verso la democrazia, è stata ampiamente smentita sul piano empirico, con l’unica eccezione del caso della Corea del Sud).
Per terminare, di un altro episodio significativo giudico opportuno fare memoria. Il 4 febbraio 2020 viene pubblicata la Dichiarazione congiunta tra la Federazione russa e la Repubblica Popolare Cinese sulla nuova fase delle relazioni internazionali. Vi si legge: “Le parti invitano tutti gli Stati a perseguire il benessere per tutti e, a tal fine, invitano a costruire dialogo e reciproca fiducia, valorizzando valori universali come pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà, rispettando i diritti dei popoli di determinare autonomamente i processi di sviluppo dei loro Paesi e la sovranità. Invitano altresì tutti gli Stati al rispetto dell’architettura internazionale guidata dalle Nazioni Unite; a ricercare un’autentica multipolarità con le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza; a promuovere relazioni internazionali più democratiche, garantendo pace, stabilità e sviluppo sostenibile in tutto il mondo. (…) Le parti condividono l’assunto che la democrazia è un valore universale umano, e non un privilegio di un numero limitato di Stati, e che la sua promozione e protezione è una responsabilità comune dell’intera comunità mondiale”. Quanto una dichiarazione di tale portata risulti in palese contraddizione pragmatica con la decisione della Russia di invadere l’Ucraina solo due anni dopo non abbisogna di commento alcuno. (Una pregevole discussione sul rapporto tra religioni e disordine internazionale nel XXI secolo è quella di M. Graziano, Guerra Santa e santa alleanza, Mulino, Bologna 2019).
Oltre il dualismo bellicismo-pacifismo
Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Si può pensare che il pacifismo possa offrire una duratura via d’uscita dal conflitto bellico? Il pacifismo tradizionale del XX secolo – noto come pacifismo etico o di testimonianza – oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà a rimanere una opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela sotto il profilo giuridico e della più ampia considerazione sociale, ma la preservazione della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più.
Si è soliti indicare quale data “ufficiale” di inizio del movimento non violento quella dell’11 settembre 1906, quando a Johannesburg Gandhi si dichiara pronto ad accettare la morte pur di non sottostare alla legge ingiusta. L’idea gandhiana di pacifismo è molto nobile, quando è declinata a livello della singola persona pronta a sacrificare se stessa per la pace. Ma occorre essere avvertiti delle conseguenze perverse cui essa può dare luogo in contesti, per così dire, macro. Ad esempio, è noto che Gandhi sosteneva che gli ebrei avrebbero dovuto arrendersi ai nazisti cercando di suscitarne la misericordia. È agevole congetturare quante vittime in più l’Olocausto avrebbe registrato.
Altro fondamentale punto di riferimento del pacifismo etico è il celebre discorso La sicurezza è l’antitesi della pace che Dietrich Bonhoeffer pronunciò nell’agosto 1934 a Fanoe (Svezia). L’idea centrale del teologo protestante era che per ottenere la pace occorre rischiarla. Scrive il nostro: “Come arriveremo alla pace? Attraverso un sistema di conferenze politiche? Attraverso l’investimento di grandi capitali nei diversi Paesi? O attraverso un universale pacifico riarmo allo scopo della sicurezza e della pace? No, niente di tutto questo perché così sono fraintese la pace e la sicurezza. Non c’è pace se si pensa alla sicurezza. Perciò la pace deve essere rischiata; essa è il più grosso dei rischi e non può mai essere sicura… La pace significa affidarsi completamente alla preghiera, non volere nessuna sicurezza ma al contrario lasciare nelle mani di Dio la storia dei popoli”. (Resistenza e Resa, in Opere, Vol.VIII, Queriniana, Brescia 2002).
Sappiamo bene come Bonhoeffer modificherà successivamente questa sua netta posizione partecipando attivamente alla lotta di resistenza contro il nazismo, che lo manderà poi a morte il 9 aprile 1945. Celebre è rimasta l’affermazione del teologo luterano dopo il cambio di linea: “Se un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di seppellire i morti, cantare in gregoriano e consolare i parenti. Io devo afferrare il conducente al suo volante e bloccarlo” (Sic!) Mai dimenticare che i pacifisti degli anni Trenta del secolo scorso aiutarono, di fatto e certamente contro le loro intenzioni, Hitler ad imporsi nel suo Paese. Accade che talvolta il pacifismo tenda ad arruolare tra i suoi sostenitori il Kant de Per la pace perpetua. Ma ciò non corrisponde al vero. Leggiamo, infatti: “Nessuno stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”. E indicava come condizione ulteriore per una pace perpetua che la Costituzione civile di ogni Stato dovesse essere repubblicana, con il che Kant intendeva una forma di governo diversa dal dispotismo, e nella quale vi è una effettiva divisione dei poteri, e una reale applicazione della rule of law e non già della rule by law. (Si consideri che è errato tradurre rule of law con “stato di diritto”. Quest’ultimo corrisponde piuttosto alla rule by law). Condizioni queste che la Russia non soddisfa affatto.
Perché il pacifismo di resa, quello che per conseguire la pace è disposto a rinunciare alla libertà e ad accettare il sopruso, e che non considera che una pace senza libertà è un cimitero, non è un’opzione plausibile e tanto meno moralmente accettabile? (Si tenga presente che sempre gli invasori dicono di volere la pace perché è questo un modo di sovrastare le vittime). Per due ragioni principali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause, sia la natura della guerra. Giovanni Paolo II ha guidato la piccola schiera di coloro che, per primi, hanno compreso questo fatto. Con la perspicacia che lo contraddistingueva, nell’Angelus del 1° gennaio 2002, aveva dichiarato: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica e che chiamano in causa quella nozione di “strutture di peccato” che papa Paolo VI aveva elucidato nella sua enciclica Populorum progressio (1967) e poi ulteriormente elaborata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Sollecitudo rei socialis (1987). La nozione di “strutture di peccato” corrisponde, all’incirca, alla nozione di “conseguenze inattese dell’azione intenzionale” (unintended consequences of intentional action) elaborata dagli illuministi scozzesi del XVIII secolo e ripresa poi da F. von Hayek ai giorni nostri: vi sono situazioni, nella sfera economica, in cui tanti individui, pur animati ciascuno da nobili intenzioni e sentimenti, pongono in essere azioni che, intrecciandosi tra loro nell’arena del mercato, generano, a livello aggregato, risultati perversi che nessuno dei singoli agenti aveva previsto e tanto meno desiderato. Se allora la pace è frutto della giustizia, si tratta di capire se è più forte la ragione della pace o quella della giustizia. La guerra è un peccato gravissimo, – ci ricorda il Papa – ma anche la perpetuazione dell’ingiustizia lo è. Il destino economico e sociale dei singoli Paesi e popoli non può essere più ignorato e trattato strumentalmente – un punto questo che già J. Maritain aveva ben chiarito nel suo discorso all’UNESCO nel 1947 dal titolo La voie de la paix.
La seconda ragione cui sopra facevo riferimento riguarda, invece, lo stesso pacifismo tradizionale, il quale pare oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle), a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause “locali”. Come ha scritto M. Albertini, il pacifismo di testimonianza coltiva “il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra” (Cultura della pace e cultura della guerra, “Il federalista”, 26, 1984, p.17). Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, che chiamo istituzionale ed il cui slogan è: se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace (si vis pacem, para civitatem).
Una considerazione finale prima di lasciare il punto. La corsa alle armi e la guerra sono un male assoluto, ma il diritto alla legittima difesa deve essere assicurato, perché non è eticamente lecito restare indifferenti o equidistanti tra aggressore e aggredito, a meno di fare propria l’etica della convinzione (nel senso di Max Weber) che, contrariamente all’etica della responsabilità, dichiara una fedeltà assoluta a un ideale (la pace) da conseguire ad ogni costo, a prescindere dalle circostanze storiche.
Quando allora la difesa è lecita e quindi legittima? A Tommaso d’Aquino si deve la prima esplicita risposta a tale interrogativo. Tre le condizioni che vanno soddisfatte e che sono verificate nel caso ucraino. Primo, la legittimità dell’autorità che conduce la guerra di difesa. Secondo, la giusta causa. Terzo, la giusta finalità. La posizione dell’Aquinate è stata poi ripresa e raffinata da R. Holmes (On war and morality, Princeton University Press, 1989) con la sua distinzione tra ius ad bellum e ius in bello. Anche Lenin si dichiarò a favore della guerra difensiva, arrivando perfino a scrivere nel suo Il socialismo e la guerra che “nella storia sono più volte avvenute guerre che, nonostante tutti gli orrori, sono state progressive e utili all’evoluzione dell’umanità”. (in Opere complete, Roma, Ed. Riuniti, vol. XXI, 1966, p.273).
Una via per la costruzione della pace
Cosa vuol dire essere costruttori di pace (“Beati gli operatori di pace”, Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui nell’arena internazionale conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana secondo cui homo homini lupus. La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo quasi mai citato – di Q. Wright (A study of war, Chicago 1942) si legge che “mai due democrazie si sono fatte la guerra”. È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, occorre operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.
A tale riguardo, è opportuno richiamare l’attenzione su taluni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Si consideri l’inquietante fenomeno della fame e della denutrizione. È noto che non si tratta di una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di una incapacità del sistema produttivo globale di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità delle risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una institutional failure, la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. Si considerino i seguenti eventi.
Lo straordinario aumento dell’interdipendenza economica, che ha avuto luogo nel corso dell’ultimo quarto di secolo, comporta che ampi segmenti di popolazione possano essere negativamente influenzati, nelle loro condizioni di vita, da eventi che accadono in luoghi anche parecchio distanti e rispetto ai quali non hanno alcun potere di intervento. (Si tratta delle cosiddette esternalità pecuniarie).
Accade così che alle ben note “carestie da depressione” si aggiungano oggi le “carestie da boom”, come A. Sen ha ampiamente documentato da tanto tempo. Non solo, ma l’espansione dell’area del mercato conseguente alla globalizzazione – un fenomeno questo in sé positivo – significa che la capacità di un gruppo sociale di accedere al cibo dipende, in modo essenziale, dalle decisioni di altri gruppi sociali. Per esempio, il prezzo di un bene primario (caffè, cacao ecc.), che costituisce la principale fonte di reddito per una certa comunità, può dipendere da quello che accade al prezzo di altri prodotti e ciò indipendentemente da un mutamento nelle condizioni di produzione del primo bene.
Di un altro fatto stilizzato mi preme dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal 60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle società povere si possono creare vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi periodi di tempo.
Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un nesso forte tra institutional failures, da un lato, e aumento delle disuguaglianze globali dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. Se la fame dipendesse – come è stato il caso fino agli inizi del Novecento – da una situazione di scarsità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare che invitare alla compassione fraterna ovvero alla solidarietà. Sapere, invece, che essa dipende da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte inique, non può non indurci a intervenire sui meccanismi e sulle procedure in forza dei quali quelle regole vengono fissate e rese esecutive.
La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni (cioè regole del gioco) di pace: sono tali quelle che mirano allo sviluppo umano integrale. Situazioni come la guerra in Ucraina vengono descritte nella scienza sociale con l’espressione “problemi di azione collettiva”, problemi cioè in cui ciascun partecipante ha un interesse di lungo termine a cooperare, ma un forte incentivo di breve termine ad agire in modo opportunistico. Ecco perché occorrono istituzioni che valgano a modificare gli incentivi individuali di breve termine, sempre che si voglia evitare di ricorrere al Leviatano. Il filosofo H.L. Hart ha distinto le primary rules, cioè le regole di base per la convivenza, dalle secondary rules (le regole per fissare le regole). Ebbene, l’attuale sistema legale internazionale possiede solo regole primarie e perciò genera leggi (e regolamenti) “primitivi”, che non assicurano la pace.
Quali istituzioni di pace allora meritano, nelle condizioni odierne, prioritaria attenzione?
Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. A tale riguardo, occorre modificare lo Statuto delle NU nel senso di cancellare il diritto di veto finora concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Concedere a un soggetto il diritto di veto, infatti, equivale a concedergli di un diritto di monopolio. Il che è moralmente inaccettabile.
Secondo, dare vita entro l’Universo delle Nazioni Unite ad una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal “dividendo della pace” e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa militare globale, pari a circa 1700 miliardi di dollari all’anno, venisse dirottata su AIGA, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Chiaramente, la struttura di governante di AIGA deve essere quella di un ente “multistakeholder”; vale a dire nel suo organo di governo devono sedere i rappresentanti dei vari portatori di interesse, in particolare delle oltre 7000 Organizzazioni non governative registrate presso le NU.
Terzo, si tratta di rivedere, in modo radicale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banco Mondiale, WTO), divenute ormai obsolete perché pensate per un mondo che non esiste più. Al tempo stesso, occorre operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (OMM) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (OMA).
Una quarta iniziativa urgente è quella tesa al disegno di una nuova regolamentazione sulle sanzioni. Nel suo recente The economic weapon. The rise of sanctions as a tool of modern war (Yale University Press, New Haven 2022), N. Mulder ricostruisce la storia delle sanzioni economiche e ne esplora i limiti. L’idea di fare la guerra con mezzi economici è antica (assedio, blocco navale, ecc.), ma oggi la deterrenza economica non funziona più per prevenire i conflitti o per farli cessare. Primo, perché sono un’arma a doppio taglio, dato che danneggiano anche chi le introduce. Secondo, perché più vengono usate, più le sanzioni perdono efficacia, dato che i Paesi si adattano a resistere ad esse. Terzo, perché le sanzioni per risultare efficaci postulano l’accordo leale tra i Paesi sanzionatori, cioè l’assenza di comportamenti del tipo free riding.
Tutti sanno che vi sono lobby belligeranti che non vogliono che i conflitti abbiano termine. In particolare, spingono per bloccare ogni proposta di negoziato tra Russia e Ucraina: troppo alti sono i profitti dell’industria bellica.
Una analisi rigorosa dei principali passaggi della lunga vicenda storica alle origini della guerra in Ucraina è quella di G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci, Roma 2021. (Si veda il Rapporto della Rand Corporation dell’aprile 2022, Overextending and imbalancing Russia. Assessing the impact of cost–imposing options).
Infine, è urgente far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari. La spesa militare del mondo è di circa due trilioni di dollari all’anno, quasi il 10% in più rispetto a un decennio fa. Si tratta di espandere l’ATT, il Trattato sul Commercio internazionale di armi convenzionali, approvato nel 2013 e ratificato nel 2020 da UE e Cina, ma non dagli USA né dalla Russia. Il che la dice lunga. La convenzione ONU sui dispositivi d’arma autonomi (LAWS: Lethal Autonomous Weapon Systems) si è conclusa nel dicembre 2021 con un nulla di fatto. Eppure, si sa che nel passato tutte le corse agli armamenti a spirale si sono concluse con conflitti disastrosi. Ecco perché la proposta di avviare un negoziato tra tutti i Paesi per ridurre in modo bilanciato la spesa militare annua (poniamo del 2%) dovrebbe essere favorevolmente accolta.
Infine, nell’agosto 2022 si è conclusa la decima conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), pure con un nulla di fatto, in conseguenza dell’irrevocabile no russo: una posizione, quella russa criticata perfino dall’alleato cinese. Una proposta credibile deve prevedere la creazione di un fondo globale per consentire il riacquisto di armi convenzionali, per poi distruggerle. Il fondo otterrebbe le risorse necessarie da quelle liberate dalla riduzione della spesa militare. I benefici per i Paesi poveri sarebbero notevoli: otterrebbero risorse fresche per finanziare il loro sviluppo con l’unica condizione di non riacquistare armi. La Russia è il secondo esportatore di armamenti al mondo dopo gli USA, pur sapendo che vendere armi ai Paesi poveri significa rallentare il loro processo di sviluppo e incentivare la guerra tra poveri. (Ha scritto il celebre A.P. Cechov: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”!).
È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinale Pietro Parolin ha scritto: “Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta”. (“Vatican News”, 11 marzo 2022).
Desidero fissare qui un punto. È vero che “l’Occidente collettivo” (e la NATO) non hanno saputo anticipare e ancor meno prevedere quanto poi è accaduto a partire dal 24 febbraio 2022. Ed è altresì vero che troppo poco l’Occidente ha fatto per costruire “un nuovo sistema di convivenza tra le nazioni”. Ma tutto ciò in nessun modo può giustificare l’offensiva militare in Ucraina; può semmai spiegarla, non certo giustificarla, né sul piano politico, né sul piano etico.
Una proposta credibile di negoziato di pace
Pur ribadendo la rilevanza delle considerazioni sopra avanzate, ritengo che nelle more dell’attesa, – more che potranno essere anche lunghe data la natura dei provvedimenti – sia doveroso avanzare una proposta di negoziato di pace tra i due Paesi belligeranti. Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di J. Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (Successivamente, in collaborazione con C. Jacobson, Galtung pubblica il volume, Searching for peace, Pluto Press, London 2000). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza diretta (“al cessate il fuoco”, come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra. Invero, solamente la pace positiva è sostenibile nella prospettiva della durata. Eppure, è la nozione di pace negativa quella che continua ad essere invocata e ricercata. Ad esempio, è a questo tipo di pace che il Global Peace Index (GPI), elaborato dall’Institut for Economics and Peace di Sidney, fa riferimento come sua base concettuale. È questa una lacuna seria che deve essere colmata, pure in fretta.
Quella in Ucraina rischia di evolvere in una guerra di logoramento e può terminare o come conflitto congelato oppure come pace negoziata. È dimostrato che una pace negoziata è sempre un esito superiore rispetto all’altra possibilità. E questo è vero non solo per Russia e Ucraina, ma anche per USA, UE e il resto del mondo. Per una accurata dimostrazione, anche di natura empirica, rinvio a C. Blattman, economista canadese, e al suo recente volume Why we fight. The roots of war and the paths to peace, Wiking, Londra 2022. Si consideri solo quel che sta accadendo al prezzo del gas naturale in Europa (le riserve russe di gas naturale ammontano a 37 miliardi di m3; quelle dell’UE a poco più 3 miliardi di m3) e alla rottura delle catene globali del valore attraverso le quali i Paesi si scambiano tra loro beni e servizi. (L’Italia importa dalla Russia oltre il 35% del gas di cui necessita e pure grandi quantità di grano, semi oleosi, fertilizzanti per la sua filiera agro-alimentare).
D’altro canto, la Russia con la sua economia strutturalmente debole non può certo pensare di poter competere sui mercati internazionali. (L’economia russa è meno di un ventesimo dell’economia USA e UE, insieme). Questo dato aiuta a spiegare perché la guerra per le conquiste territoriali sia così appetibile alla dirigenza di Mosca. Ma – come la storia insegna – le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare; dato che è vano pensare, oggi assai più ancora che nel passato, che più territorio significhi più potere. (L’ha ben capito la Cina, la cui strategia geopolitica è di conquistare mercati, non territori).
Una chiosa sulla questione del nucleare. Taluno ritiene che il passaggio al nucleare varrebbe a ridurre la dipendenza dalla Russia, ma si tratta di pura illusione. Infatti, il Paese che più produce uranio, sia naturale sia arricchito, è la Russia. Secondo l’EIA (Energy Information Administration americana), nel 2021 il 35% dell’uranio utilizzato dagli USA proveniva dal Kazakhistan e il 14% dalla Russia. Analoga la posizione di dipendenza per i Paesi dell’UE. È dunque ovvio che il suggerimento di fare ricorso al nucleare avrebbe l’effetto di accrescere il livello di dipendenza dalla Russia. Per non dire del rischio, assai elevato, che lo stretto legame tra nucleare civile e nucleare militare potrebbe condurre a devastanti conflitti nucleari. Né si può pensare che la fusione termonucleare, che a differenza della fissione nucleare, è “sicura” possa esserci d’aiuto, per la semplice ragione che la sua messa in opera richiede ancora un ventennio circa.
Quali dunque i punti qualificanti di una proposta volta ad ottenere, un accordo di pace positiva? Ne indico sette.
Primo. Neutralità dell’Ucraina che rinuncia all’ambizione nazionale di entrare nella NATO, ma che conserva la piena libertà di diventare parte dell’UE, con tutto ciò che questo significa. Una risoluzione delle NU deve essere adottata per assicurare meccanismi di monitoraggio internazionali per il rispetto degli accordi di pace.
Secondo. L’Ucraina ottiene la garanzia della propria sovranità, indipendenza, e integrità territoriale; una garanzia assicurata dai 5 membri permanenti delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Russia, UK, USA) oltre che dall’UE e dalla Turchia.
Terzo. La Russia conserva il controllo de facto della Crimea per un certo numero di anni ancora, dopodiché le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione de jure permanente. Le comunità locali usufruiscono di accesso facilitato sia all’Ucraina sia alla Russia; oltre alla libertà di movimento di persone e risorse finanziarie.
Quarto. Autonomia delle regioni di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina, di cui restano parte integrante, sotto i profili economico, politico, e culturale.
Quinto. Accesso garantito a Russia e Ucraina ai porti del Mar Nero, per lo svolgimento delle normali attività commerciali.
Sesto. Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall’Ucraina.
Settimo. Creazione di un Fondo multilaterale per la ricostruzione e lo sviluppo delle aree distrutte e seriamente danneggiate dell’Ucraina, un fondo al quale la Russia è chiamata a concorrere sulla base di predefiniti criteri di proporzionalità. (L’esperienza storica del Piano Marshall è di aiuto a tale riguardo).
Ho motivo di ritenere che una proposta del genere, se opportunamente presentata e saggiamente gestita per via diplomatica, possa essere favorevolmente accolta dalle parti in conflitto. Forse l’ostacolo maggiore per una pace negoziata è la paura della negoziazione stessa. I politici e i capi di governo, infatti, temono di essere percepiti dalle rispettive constituencies o come pacifisti ingenui oppure come opportunisti con secondi fini. (R. Mardini, nel saggio Course correcting toward diplomacy in the Ukraine Crisis, “The National Interest”, agosto 2022, illustra, con dovizia di particolari, come la paura della negoziazione abbia preso corpo negli USA).
Ecco perché, in una situazione come l’attuale, il ruolo dei costruttori di pace è fondamentale. La mobilitazione della società civile internazionale tesa a dare vita ad una “Alleanza per la Pace” è oggi, una iniziativa urgente e altamente meritoria. Si tratta per un verso di ristabilire quei legami di fiducia reciproca tra Stati senza i quali nessuna pace potrà essere duratura e per l’altro verso, di far comprendere a livello di cultura popolare che non è il fine che giustifica i mezzi, ma la permissibilità dei mezzi che, unitamente ad altre condizioni, giustifica i fini.
Per concludere
Vi sono persone che studiano l’arte della guerra – così veniva chiamata nella Cina antica – per diventare meglio preparati per il combattimento. Ma vi sono molti altri che si occupano di guerra per scoraggiarne lo scoppio, per eliminarla. La pace non è un obiettivo irraggiungibile perché la guerra non è qualcosa che accade come un terremoto o uno tsunami; ma è frutto della scelta di persone che la vogliono. E per questo sviluppano ideologie che insegnano ad odiare: il vicino, il diverso, il povero, diffondendo la cultura dell’aporofobia. Guerra e pace cambiano il carattere delle persone, chiaramente in direzione opposta.
In un tempo come l’attuale in cui le politiche neoliberiste sono in declino ovunque, il realismo geopolitico sta diventando l’ideologia dominante. Al centro del pensiero realista sta il “security dilemma”: una situazione questa in cui le principali potenze scelgono la sicurezza nazionale come obiettivo primario della loro azione. Ora, poiché è difficile distinguere tra misure difensive e offensive, il tentativo di una parte di diventare più sicura finisce con l’accrescere l’insicurezza dell’altra parte, innescando così contromisure che alimentano un vero e proprio circolo vizioso. Il caso dell’Ucraina è una conferma chiarissima di tale dilemma.
Platone ha scritto che il bisogno fondamentale dell’uomo è il bisogno di riconoscimento (thimos, in greco). Ogni persona ha necessità di essere riconosciuta da altre persone e di riconoscere a sua volta per dare senso alla propria esistenza. Ciò è senz’altro vero, ma va considerato che il thimos può essere declinato come megalothimia oppure come isothimia. Mentre quest’ultimo è il bisogno di essere riconosciuti come eguali agli altri, la megalothimia è il bisogno di essere riconosciuti come superiori agli altri. È triste ammetterlo, ma va detto che ormai da qualche tempo la megalothimia ha ripreso servizio un po’ ovunque. La volontà di potenza, e quindi la volontà della guerra, trova in ciò un fertile terreno di coltura.
Se la vicenda ucraina servisse a farci comprendere la portata delle gravi vulnerabilità dell’attuale ordine internazionale e così servisse a spingerci ad agire di conseguenza, potremo dire che questa immane tragedia a qualcosa di buono sarà servita. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma pure il presente, dato che le nostre opere, oltre ad una destinazione finale, hanno un senso e un valore anche qui e ora.
Tratto da www.politicainsieme.com e in corso di pubblicazione su “Paradoxa” (www.novaspes.org/paradoxa)
“Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”
Introduzione e motivazione
L’intervento armato della Russia in Ucraina costituisce il decimo episodio di notevole rilievo della nuova epoca della guerra, che è iniziata con la caduta del muro di Berlino. (Nel mondo, ben 169 sono le guerre oggi in corso!).
Due elementi caratterizzano questa nuova epoca. Il primo è che la fine della guerra fredda ha distolto l’Occidente dai suoi impegni a favore dei paesi poveri del Sud del mondo, una volta venuto meno il rischio di diffusione in quei paesi del sovietismo. Ciò aiuta a comprendere perché quella in corso è la prima guerra di carattere globale e non già di carattere mondiale. E’ chiara la differenza. Mentre quest’ultima diffonde le sue conseguenze negative dirette solamente tra i paesi belligeranti, una guerra globale è tale quando le conseguenze colpiscono anche paesi terzi che non hanno parte nel conflitto. Il caso odierno della carenza di cibo dovuta, non alla mancanza fisica dello stesso, ma al blocco dei traffici marittimi e terrestri, è solamente un caso esemplificativo, quello che più sta sorprendendo l’opinione pubblica. Con il blocco dei cereali e dei fertilizzanti, la fame è strategicamente pianificata per prendere corpo in altri paesi, come arma per determinare migrazioni dai paesi africani verso l’UE, che pure non è in guerra. Discorso analogo vale per l’energia.
Il secondo elemento è che, fino ad anni recenti, mai si era pensato alla globalizzazione in situazioni di guerra. Anzi, se c’era un convincimento diffuso, tra studiosi e opinionisti, questo era che la globalizzazione pur con le sue aporie, servisse la causa della pace. Ad esempio, l’influente saggio dell’economista inglese R. Cooper (The postmodern state and the World order, Londra 2000) difende la tesi secondo cui la società post-moderna, il cui inizio viene associato all’avvento del processo di globalizzazione che prende avvio dal summit del G6 del novembre 1975 nel castello di Rambouillet (Parigi), è una società inerentemente pacifica.
I fatti dell’ultimo trentennio si sono incaricati di farci prendere atto di una verità che si sarebbe dovuto vedere già da tempo e cioè che la globalizzazione è certamente un gioco a somma positiva che aumenta sia il reddito, sia la ricchezza complessivi, ma al tempo stesso aumenta le disuguaglianze sociali sia tra Paesi, sia tra classi sociali entro un medesimo Paese, pur se ricco. Di qui l’impulso all’insorgenza di conflitti armati. Ha colto lucidamente la questione H. Arendt quando nel ben noto saggio Sulla violenza ( Guarda, Parma 1996 [1969]) scrive: “La rabbia non è affatto una reazione automatica alla miseria e alla sofferenza in quanto tali. Nessuno reagisce con rabbia a una malattia incurabile e a un terremoto o alle condizioni sociali che paiono immutabili. Soltanto dove c’è ragione di sospettare che le condizioni potrebbero cambiare e non cambiano scatta la rabbia” (p.67).
Il punto ora sollevato merita un breve approfondimento. Riallacciandosi ad una precedente idea di Erasmus da Rotterdam (Enchiridion Militis Christiani, 1503), Montesquieu, nel suo celebre Lo spirito delle leggi (1750), scrive: “L’effetto naturale del Commercio è il portare la pace perché due nazioni che commerciano diventano reciprocamente dipendenti”. Sulla medesima linea di pensiero si muove A. Hirschman (1977) quando, dopo aver correttamente annotato che le società di mercato sono fondate sugli interessi, mentre le società antiche e feudali erano fondate sulle passioni, conclude affermando che il capitalismo tende a rendere il mondo più pacifico, dal momento che soggetti autointeressati e razionali non hanno convenienza a farsi la guerra. (Alcuni anni prima, Bertrand Russell, in aperta polemica con il mainstream economico, aveva scritto che se veramente gli uomini fossero auto-interessati mai si farebbero la guerra. Quanto a significare che la celebrata metafora dell’homo oeconomicus è priva di fondamento empirico).
Una tesi opposta è quella di Antonio Genovesi, il fondatore del paradigma di economia civile e primo cattedratico universitario al mondo di economia (Napoli 1753). Nel suo Lezioni di Economia Civile (1765) si legge: “Il gran fonte della guerra è il commercio. Il commercio è geloso e la gelosia arma gli uomini”. E nel saggio, veramente notevole, La logica per i giovanetti (Gabrielli, Verona 2020; ed. originale 1766), Genovesi arriva a scrivere: “Un quarto principio di economia civile è: bisogna che un popolo dipenda dagli altri nel minimo possibile. Massima mirabile, la quale sola ha ingrandito gli Inglesi e ingrandirà tra poco i Portoghesi, che l’hanno presa per tutti i versi. Un popolo quanto più dipende dagli altri tanto più è povero e schiavo; più infingardo, più avvilito. Questo principio non è stato inteso in tutte la sua ampiezza appunto per mancanza di buoni filosofi da illuminare il pubblico. Vi è in Italia un bel Paese avvezzo da lungo tempo a vivere sugli altri. Se non si desta, ora che tutti vogliono vivere da sé e per sé, farà in non molto tempo tanta pietà al genere umano quanto fece altre volte meraviglia”. (p.221).
La vicenda bellica in Ucraina, di cui siamo tristi spettatori, ci deve obbligare ad ammettere che Genovesi aveva visto giusto! In sostanza, bisogna evitare di rimanere ostaggi nelle forniture di energia da Paesi che la usano come arma di ricatto politico. (Cfr. A. Clò, Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità, Il Sole 24 Ore, Milano 2022).
È di interesse riferire la posizione di I. Kant che nel suo La pace perpetua (1795) richiama l’attenzione sulla facilità di finanziare le guerre grazie al sistema dei pagamenti internazionali: “Un sistema di credito nel cui ambito i debiti crescono indefinitamente (…) è un pericoloso potere monetario. Questo modello di organizzazione (…) costituisce in realtà un tesoro destinato alla guerra. Queste risorse per pagare la guerra, combinate con l’inclinazione verso di esse di coloro che governano – una inclinazione che sembra impiantata nella natura umana – è un grande ostacolo alla pace perpetua. (Cit. in R. Triffin, “How world entered inflation”, in R. Masera e R. Triffin, a cura di, Europe’s Money, Oxford University Press, 1984).
Quale il senso di quanto precede? Che il commercio favorisce la pace solamente se i guadagni che ne derivano vengono equamente divisi. In caso contrario, il Paese che vedesse peggiorata la sua posizione economica tenderà a usare la forza per ottenere una qualche ripartizione dei guadagni derivanti del commercio. Già l’aveva compreso J.S. Mill quando nei suoi Principles of Political Economy (1848) aveva chiarito che ai gains from trade (guadagni dal commercio) sempre si associano i pains from trade (dolori dal commercio). Eppure, gli sviluppi successivi del pensiero economico ufficiale mai hanno voluto considerarne le implicazioni. Con talune eccezioni, la più notevole delle quali è quella di T. Schelling, che nel suo celebre The Strategy of Conflict (Chicago University Press, 1960), mostra come la scelta dell’opzione guerra è sempre la risultante della presenza simultanea di due elementi: una ragione specifica (malcontento della popolazione; frustrazione; insicurezza; forte spinta identitaria) e la percezione che l’uso della violenza è in grado di modificare a proprio favore la situazione.
In quanto segue, mi occuperò dapprima di fare luce sull’illusorio tentativo della Russia di Putin di dare una giustificazione in chiave ideologica alla guerra in Ucraina. Passerò poi ad occuparmi delle ragioni avanzate dall’istanza pacifista a proposito del conflitto in corso. Nel paragrafo 4, difenderò la tesi efficacemente resa dall’adagio Si vis pacem, para civitatem, focalizzando l’attenzione su quelle istituzioni di pace che, nelle condizioni odierne, reputo più urgenti da edificare. Infine, avanzerò una proposta, che giudico plausibile ed efficace, per arrivare, in tempi brevissimi, a un negoziato di pace.
Le pseudo motivazioni della guerra
Nel fallace tentativo di dare una giustificazione a questa guerra, la dirigenza russa evoca, per stigmatizzarlo e assumerlo come bersaglio militare, il cosiddetto Occidente collettivo (USA e Europa Occidentale), cui attribuisce aspirazioni neo-colonialiste, soprattutto verso l’Est europeo. L’accusa non è nuova; la si ritrova, ad esempio, in una sorta di catechismo compilato da un noto giornalista filoputiniano col titolo Breve catechesi dell’uomo russo” (Trimarium, dic. 2017, ripreso da “Limes”, nel fascicolo del dicembre 2017).
Tre i punti principali che definiscono la “dottrina Putin”. Primo, l’Ucraina non avrebbe mai avuto una sua propria identità e una sua statualità prima della Rivoluzione d’ottobre; secondo, l’Ucraina avrebbe ricevuto dall’URSS risorse, concessioni e favori di varia natura; terzo, l’Ucraina sarebbe un Paese governato da una cricca di neonazisti. Nel saggio Circa l’unità storica dei Russi e degli Ucraini pubblicato da Putin nel luglio 2021 si legge che l’Ucraina come entità autonoma è stata un’invenzione della “politica bolscevica delle nazionalità a spese della Russia storica”.
Come mostra A. Dell’Asta (Le false motivazioni della guerra, “Vita e Pensiero”, 2, 2022), si tratta di asserti falsi. Soprattutto il terzo è privo di ogni fondamento. La “dottrina Putin” ha tra i suoi punti di riferimento intellettuali Ivan Ilyin (1883-1954), un filosofo russo autore di un non ben precisato fascismo russo-cristiano che, dopo l’espulsione dall’URSS nel 1922, abbacinato dalla figura di Mussolini, scrisse una voluminosa apologia della violenza politica. La tesi difesa è che lo “spirito bianco” della Russia avrebbe dovuto animare le forze politiche di estrema destra in Europa. Ciò dà conto del perché, a partire dal 2013, il Cremlino ha fornito sostegni di varia natura ai partiti europei populisti e sovranisti, convinti assertori della “decadenza” morale e spirituale dell’Unione Europea. (Per i dettagli, rinvio a T. Snyder, God is a Russian, New York Review, 5 aprile 2018).
Ad essere precisi, le radici culturali delle politiche russe sono ancora più profonde.
Il grande poeta Alexander Pushkin prevedeva nel 1836 che la Russia avrebbe sempre seguito un percorso diverso da quello del resto d’Europa. “Il nostro destino era allora proteggerci dai Mongoli, per poi diventare noi stessi un regime autoritario”. (Il riferimento è a Gensis Khan che invase Kiev nel 1228 e vi rimase per due secoli e mezzo). Un gigante della letteratura come Fӫdor Dostoevskij giunge ad affermare: “C’è una sola verità e un solo popolo può avere un vero Dio. L’unico popolo portatore di Dio è il russo. (B. Jangfeldt, L’idea russa, Neri Pozza, Milano 2022). L’ultimo imperatore russo, Nicola II, aveva il titolo di Zar di Kiev, il che suggerisce che mentre l’Ucraina possiede una sua identità nazionale, la Russia è, piuttosto, un’entità politica. Al fondo della cultura Russa non c’è il senso di appartenenza a una identità particolare, ma il senso di reverenza verso un potere sovrano, cioè verso un efficace sistema di potere e di governo autoritario. Il che è quanto sta facendo Putin, il quale è persuaso che è il potere come potenza – non già il potere come influenza – che assicura sia l’ordine sia l’amministrazione della giustizia. È in ciò la ragione per la quale Putin riceve consenso sia tra la popolazione sia tra la più parte degli intellettuali. (Come si sa, chi ama la democrazia, invece, diffida del potere come potenza e cerca piuttosto di limitarlo).
Il fatto è che la Russia ha mancato tre cruciali passaggi della modernizzazione europea. (M. Marini, La Russia di Putin, Mulino, Bologna 2020). Primo, non è mai passata attraverso la Riforma e l’Illuminismo di marca francese, oppure scozzese, oppure italiana e pertanto non ha conosciuto la civiltà borghese che, in Europa occidentale, contribuì a gettare le fondamenta dello Stato Costituzionale. Secondo, la Russia è sempre stata un impero, non uno stato-nazione (che può generare un impero) e dunque l’autocrazia è il suo modo naturale di governo. Infine, la Russia non ha mai conosciuto quel modello di capitalismo liberale che ha caratterizzato l’economia di mercato dell’occidente europeo. Il suo è piuttosto un capitalismo patrimoniale, la cui cifra è rappresentata dalla figura dell’oligarca. In verità, Pietro il Grande capì tutto questo e cercò di aggiornare la cultura popolare russa, ma non ebbe abbastanza tempo. La Rivoluzione bolscevica del 1917 comprese l’urgenza di una radicale trasformazione culturale, lanciando l’idea dell’Uomo Nuovo, ma con ben scarsi risultati per un insieme di ragioni.
Robert Cooper ha definito la Russia un “moderno stato pre-moderno”. (The breaking of nations, New York 2003). Eloquente al riguardo la posizione espressa da Putin nella celebre intervista al “Financial Times” del 26 giugno 2019 rilasciata a L. Barber: “L’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in contrasto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione… I valori tradizionali sono più stabili e più importanti per milioni di persone dell’idea liberale che, per me, ha cessato di esistere”.
Alla luce di quanto sopra, si può comprendere il senso dell’icastica affermazione del patriarca Kirill secondo cui: “Siamo impegnati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico”. Ma la metafisica cui fa riferimento Kirill non è certo quella di Florenskij, Bulgakov e altri. Per l’ideologia religiosa del “Mondo Russo” (Russkij Mir), “esiste una sfera o civiltà russa transnazionale, chiamata Santa Rus’, che include Russia, Ucraina, Bielorussia”. Il “Mondo Russo” possiede un centro politico comune (Mosca); un centro spirituale comune (Kiev); una lingua comune; una Chiesa comune (il Patriarcato di Mosca) che opera in sinfonia con un leader comune (oggi, Putin) per governare questo mondo al fine di riportare in auge il progetto dell’antica Rus’. (Si badi che l’antica popolazione della Rus’ era di origine scandinava, non slava, come si continua a far credere). È d’interesse, a tale proposito, riferire la dichiarazione del 13 marzo 2022 di trecento teologi e intellettuali ortodossi dell’Orthodox Christian Studies Center della Università Fordham di New York in merito alla ideologia del “Mondo Russo”. “Il sostegno di gran parte del Patriarcato di Mosca alla guerra del presidente Vladimir Putin ha le sue radici nel fondamentalismo religioso ortodosso, totalitario noto come Russkij Mir – un insegnamento falso che attrae molti della Chiesa ortodossa e che è accolto anche da taluni segmenti del fondamentalismo cattolico e protestante”. (Si rammenti che il principio dell’organizzazione su base etnica della Chiesa ortodossa venne condannato dal Concilio di Costantinopoli del 1872. Quella praticata oggi in Russia è pertanto una vera e propria eresia).
Va da sé che la spiegazione ideologico-identitaria, dei cui tratti caratteristici si è appena detto, non è sufficiente a dar conto dell’invasione del 24 febbraio 2022. Occorre mettere in campo la componente cosiddetta realista, secondo cui Putin avrebbe deciso di scatenare la guerra per impedire all’Ucraina di venire attratta nell’orbita occidentale e di entrare a far parte della NATO. Per far memoria, nel 1994, Ucraina e Russia avevano firmato il memorandum di Budapest, un trattato con il quale l’Ucraina si impegnava a dismettere il suo arsenale nucleare in cambio della tutela dei suoi confini, comprensivi della Crimea e del Donbass. Mentre l’Ucraina rispettò il patto, non altrettanto può dirsi della Russia. Diversi anni dopo, nell’inverno 2013 Kiev decise di non sottoscrivere l’adesione all’UE e al tempo stesso di avviare trattative con Mosca per siglare un accordo economico-finanziario ritenuto più vantaggioso. Come sappiamo, ne conseguì una frattura seria nel Paese tra le due fazioni, quella dei sostenitori dell’adesione alla UE e quella dei sostenitori del patto con Mosca. Il Donbass, a maggioranza etnica russa, proclamò a quel punto la propria indipendenza con il pieno sostegno della Russia. Ebbe così inizio una guerra, mai dichiarata, tra l’esercito regolare ucraino e quello separatista: in otto anni, 14.000 sono stati i morti e un milione e mezzo i cittadini che hanno lasciato il paese, di cui novecentomila riparati in Russia.
L’anno successivo, nel 2014, Henry Kissinger scrive per il “New York Times” un editoriale nel quale si legge: “L’Unione Europea deve riconoscere che la sua dilatazione burocratica e la subordinazione dell’elemento strategico alla politica interna nel negoziare il rapporto dell’Ucraina con l’Europa, hanno contribuito a trasformare un negoziato in una crisi”. Il negoziato entrò poi in vigore nel settembre 2017. L’obiettivo, per l’UE, non era solamente quello di aprire in Ucraina un mercato per le proprie merci, ma anche quello di estendere la formula dell’associazione a Paesi della regione come Armenia, Georgia, Azerbaijan. Le annessioni territoriali del 2014 da parte russa trovano in ciò una specifica spiegazione. Colpevolmente, l’Occidente sottovalutò il rischio di conflitto che ne sarebbe derivato, anche perché non si volle capire o non si volle prendere sul serio quel che Putin disse nella Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2007, quando pose in seria discussione la liceità dell’ordine mondiale scaturito dopo il 1989.
Non è questo però il solo errore di valutazione commesso dall’Occidente. Assai più grave è stato l’errore consumato all’indomani della caduta dell’URSS quando policy-maker ed economisti occidentali consigliarono (si fa per dire) il presidente Eltsin di dare prontamente avvio alla liberalizzazione dell’economia prima ancora di provvedere alle necessarie riforme costituzionali. Fu così che Eltsin si “convinse” ad approvare la shock therapy, che provocò la morte di tante persone generando un pesante malcontento tra la popolazione. Eppure, anche un non esperto, se intellettualmente onesto, riesce a comprendere che è la democrazia, con le sue istituzioni, che vien prima del mercato. Perché senza il supporto di una vitale e ben organizzata società civile, il mercato diviene una giungla. (Come noto, la “legge di Lipset”, dal nome del politologo inglese che negli anni Settanta sentenziò che sono le istituzioni dell’economia di mercato a portare verso la democrazia, è stata ampiamente smentita sul piano empirico, con l’unica eccezione del caso della Corea del Sud).
Per terminare, di un altro episodio significativo giudico opportuno fare memoria. Il 4 febbraio 2020 viene pubblicata la Dichiarazione congiunta tra la Federazione russa e la Repubblica Popolare Cinese sulla nuova fase delle relazioni internazionali. Vi si legge: “Le parti invitano tutti gli Stati a perseguire il benessere per tutti e, a tal fine, invitano a costruire dialogo e reciproca fiducia, valorizzando valori universali come pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà, rispettando i diritti dei popoli di determinare autonomamente i processi di sviluppo dei loro Paesi e la sovranità. Invitano altresì tutti gli Stati al rispetto dell’architettura internazionale guidata dalle Nazioni Unite; a ricercare un’autentica multipolarità con le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza; a promuovere relazioni internazionali più democratiche, garantendo pace, stabilità e sviluppo sostenibile in tutto il mondo. (…) Le parti condividono l’assunto che la democrazia è un valore universale umano, e non un privilegio di un numero limitato di Stati, e che la sua promozione e protezione è una responsabilità comune dell’intera comunità mondiale”. Quanto una dichiarazione di tale portata risulti in palese contraddizione pragmatica con la decisione della Russia di invadere l’Ucraina solo due anni dopo non abbisogna di commento alcuno. (Una pregevole discussione sul rapporto tra religioni e disordine internazionale nel XXI secolo è quella di M. Graziano, Guerra Santa e santa alleanza, Mulino, Bologna 2019).
Oltre il dualismo bellicismo-pacifismo
Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Si può pensare che il pacifismo possa offrire una duratura via d’uscita dal conflitto bellico? Il pacifismo tradizionale del XX secolo – noto come pacifismo etico o di testimonianza – oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà a rimanere una opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela sotto il profilo giuridico e della più ampia considerazione sociale, ma la preservazione della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più.
Si è soliti indicare quale data “ufficiale” di inizio del movimento non violento quella dell’11 settembre 1906, quando a Johannesburg Gandhi si dichiara pronto ad accettare la morte pur di non sottostare alla legge ingiusta. L’idea gandhiana di pacifismo è molto nobile, quando è declinata a livello della singola persona pronta a sacrificare se stessa per la pace. Ma occorre essere avvertiti delle conseguenze perverse cui essa può dare luogo in contesti, per così dire, macro. Ad esempio, è noto che Gandhi sosteneva che gli ebrei avrebbero dovuto arrendersi ai nazisti cercando di suscitarne la misericordia. È agevole congetturare quante vittime in più l’Olocausto avrebbe registrato.
Altro fondamentale punto di riferimento del pacifismo etico è il celebre discorso La sicurezza è l’antitesi della pace che Dietrich Bonhoeffer pronunciò nell’agosto 1934 a Fanoe (Svezia). L’idea centrale del teologo protestante era che per ottenere la pace occorre rischiarla. Scrive il nostro: “Come arriveremo alla pace? Attraverso un sistema di conferenze politiche? Attraverso l’investimento di grandi capitali nei diversi Paesi? O attraverso un universale pacifico riarmo allo scopo della sicurezza e della pace? No, niente di tutto questo perché così sono fraintese la pace e la sicurezza. Non c’è pace se si pensa alla sicurezza. Perciò la pace deve essere rischiata; essa è il più grosso dei rischi e non può mai essere sicura… La pace significa affidarsi completamente alla preghiera, non volere nessuna sicurezza ma al contrario lasciare nelle mani di Dio la storia dei popoli”. (Resistenza e Resa, in Opere, Vol.VIII, Queriniana, Brescia 2002).
Sappiamo bene come Bonhoeffer modificherà successivamente questa sua netta posizione partecipando attivamente alla lotta di resistenza contro il nazismo, che lo manderà poi a morte il 9 aprile 1945. Celebre è rimasta l’affermazione del teologo luterano dopo il cambio di linea: “Se un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di seppellire i morti, cantare in gregoriano e consolare i parenti. Io devo afferrare il conducente al suo volante e bloccarlo” (Sic!) Mai dimenticare che i pacifisti degli anni Trenta del secolo scorso aiutarono, di fatto e certamente contro le loro intenzioni, Hitler ad imporsi nel suo Paese. Accade che talvolta il pacifismo tenda ad arruolare tra i suoi sostenitori il Kant de Per la pace perpetua. Ma ciò non corrisponde al vero. Leggiamo, infatti: “Nessuno stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”. E indicava come condizione ulteriore per una pace perpetua che la Costituzione civile di ogni Stato dovesse essere repubblicana, con il che Kant intendeva una forma di governo diversa dal dispotismo, e nella quale vi è una effettiva divisione dei poteri, e una reale applicazione della rule of law e non già della rule by law. (Si consideri che è errato tradurre rule of law con “stato di diritto”. Quest’ultimo corrisponde piuttosto alla rule by law). Condizioni queste che la Russia non soddisfa affatto.
Perché il pacifismo di resa, quello che per conseguire la pace è disposto a rinunciare alla libertà e ad accettare il sopruso, e che non considera che una pace senza libertà è un cimitero, non è un’opzione plausibile e tanto meno moralmente accettabile? (Si tenga presente che sempre gli invasori dicono di volere la pace perché è questo un modo di sovrastare le vittime). Per due ragioni principali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause, sia la natura della guerra. Giovanni Paolo II ha guidato la piccola schiera di coloro che, per primi, hanno compreso questo fatto. Con la perspicacia che lo contraddistingueva, nell’Angelus del 1° gennaio 2002, aveva dichiarato: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica e che chiamano in causa quella nozione di “strutture di peccato” che papa Paolo VI aveva elucidato nella sua enciclica Populorum progressio (1967) e poi ulteriormente elaborata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Sollecitudo rei socialis (1987). La nozione di “strutture di peccato” corrisponde, all’incirca, alla nozione di “conseguenze inattese dell’azione intenzionale” (unintended consequences of intentional action) elaborata dagli illuministi scozzesi del XVIII secolo e ripresa poi da F. von Hayek ai giorni nostri: vi sono situazioni, nella sfera economica, in cui tanti individui, pur animati ciascuno da nobili intenzioni e sentimenti, pongono in essere azioni che, intrecciandosi tra loro nell’arena del mercato, generano, a livello aggregato, risultati perversi che nessuno dei singoli agenti aveva previsto e tanto meno desiderato. Se allora la pace è frutto della giustizia, si tratta di capire se è più forte la ragione della pace o quella della giustizia. La guerra è un peccato gravissimo, – ci ricorda il Papa – ma anche la perpetuazione dell’ingiustizia lo è. Il destino economico e sociale dei singoli Paesi e popoli non può essere più ignorato e trattato strumentalmente – un punto questo che già J. Maritain aveva ben chiarito nel suo discorso all’UNESCO nel 1947 dal titolo La voie de la paix.
La seconda ragione cui sopra facevo riferimento riguarda, invece, lo stesso pacifismo tradizionale, il quale pare oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle), a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause “locali”. Come ha scritto M. Albertini, il pacifismo di testimonianza coltiva “il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra” (Cultura della pace e cultura della guerra, “Il federalista”, 26, 1984, p.17). Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, che chiamo istituzionale ed il cui slogan è: se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace (si vis pacem, para civitatem).
Una considerazione finale prima di lasciare il punto. La corsa alle armi e la guerra sono un male assoluto, ma il diritto alla legittima difesa deve essere assicurato, perché non è eticamente lecito restare indifferenti o equidistanti tra aggressore e aggredito, a meno di fare propria l’etica della convinzione (nel senso di Max Weber) che, contrariamente all’etica della responsabilità, dichiara una fedeltà assoluta a un ideale (la pace) da conseguire ad ogni costo, a prescindere dalle circostanze storiche.
Quando allora la difesa è lecita e quindi legittima? A Tommaso d’Aquino si deve la prima esplicita risposta a tale interrogativo. Tre le condizioni che vanno soddisfatte e che sono verificate nel caso ucraino. Primo, la legittimità dell’autorità che conduce la guerra di difesa. Secondo, la giusta causa. Terzo, la giusta finalità. La posizione dell’Aquinate è stata poi ripresa e raffinata da R. Holmes (On war and morality, Princeton University Press, 1989) con la sua distinzione tra ius ad bellum e ius in bello. Anche Lenin si dichiarò a favore della guerra difensiva, arrivando perfino a scrivere nel suo Il socialismo e la guerra che “nella storia sono più volte avvenute guerre che, nonostante tutti gli orrori, sono state progressive e utili all’evoluzione dell’umanità”. (in Opere complete, Roma, Ed. Riuniti, vol. XXI, 1966, p.273).
Una via per la costruzione della pace
Cosa vuol dire essere costruttori di pace (“Beati gli operatori di pace”, Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui nell’arena internazionale conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana secondo cui homo homini lupus. La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo quasi mai citato – di Q. Wright (A study of war, Chicago 1942) si legge che “mai due democrazie si sono fatte la guerra”. È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, occorre operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.
A tale riguardo, è opportuno richiamare l’attenzione su taluni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Si consideri l’inquietante fenomeno della fame e della denutrizione. È noto che non si tratta di una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di una incapacità del sistema produttivo globale di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità delle risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una institutional failure, la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. Si considerino i seguenti eventi.
Lo straordinario aumento dell’interdipendenza economica, che ha avuto luogo nel corso dell’ultimo quarto di secolo, comporta che ampi segmenti di popolazione possano essere negativamente influenzati, nelle loro condizioni di vita, da eventi che accadono in luoghi anche parecchio distanti e rispetto ai quali non hanno alcun potere di intervento. (Si tratta delle cosiddette esternalità pecuniarie).
Accade così che alle ben note “carestie da depressione” si aggiungano oggi le “carestie da boom”, come A. Sen ha ampiamente documentato da tanto tempo. Non solo, ma l’espansione dell’area del mercato conseguente alla globalizzazione – un fenomeno questo in sé positivo – significa che la capacità di un gruppo sociale di accedere al cibo dipende, in modo essenziale, dalle decisioni di altri gruppi sociali. Per esempio, il prezzo di un bene primario (caffè, cacao ecc.), che costituisce la principale fonte di reddito per una certa comunità, può dipendere da quello che accade al prezzo di altri prodotti e ciò indipendentemente da un mutamento nelle condizioni di produzione del primo bene.
Di un altro fatto stilizzato mi preme dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal 60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle società povere si possono creare vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi periodi di tempo.
Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un nesso forte tra institutional failures, da un lato, e aumento delle disuguaglianze globali dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. Se la fame dipendesse – come è stato il caso fino agli inizi del Novecento – da una situazione di scarsità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare che invitare alla compassione fraterna ovvero alla solidarietà. Sapere, invece, che essa dipende da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte inique, non può non indurci a intervenire sui meccanismi e sulle procedure in forza dei quali quelle regole vengono fissate e rese esecutive.
La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni (cioè regole del gioco) di pace: sono tali quelle che mirano allo sviluppo umano integrale. Situazioni come la guerra in Ucraina vengono descritte nella scienza sociale con l’espressione “problemi di azione collettiva”, problemi cioè in cui ciascun partecipante ha un interesse di lungo termine a cooperare, ma un forte incentivo di breve termine ad agire in modo opportunistico. Ecco perché occorrono istituzioni che valgano a modificare gli incentivi individuali di breve termine, sempre che si voglia evitare di ricorrere al Leviatano. Il filosofo H.L. Hart ha distinto le primary rules, cioè le regole di base per la convivenza, dalle secondary rules (le regole per fissare le regole). Ebbene, l’attuale sistema legale internazionale possiede solo regole primarie e perciò genera leggi (e regolamenti) “primitivi”, che non assicurano la pace.
Quali istituzioni di pace allora meritano, nelle condizioni odierne, prioritaria attenzione?
Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. A tale riguardo, occorre modificare lo Statuto delle NU nel senso di cancellare il diritto di veto finora concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Concedere a un soggetto il diritto di veto, infatti, equivale a concedergli di un diritto di monopolio. Il che è moralmente inaccettabile.
Secondo, dare vita entro l’Universo delle Nazioni Unite ad una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal “dividendo della pace” e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa militare globale, pari a circa 1700 miliardi di dollari all’anno, venisse dirottata su AIGA, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Chiaramente, la struttura di governante di AIGA deve essere quella di un ente “multistakeholder”; vale a dire nel suo organo di governo devono sedere i rappresentanti dei vari portatori di interesse, in particolare delle oltre 7000 Organizzazioni non governative registrate presso le NU.
Terzo, si tratta di rivedere, in modo radicale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banco Mondiale, WTO), divenute ormai obsolete perché pensate per un mondo che non esiste più. Al tempo stesso, occorre operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (OMM) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (OMA).
Una quarta iniziativa urgente è quella tesa al disegno di una nuova regolamentazione sulle sanzioni. Nel suo recente The economic weapon. The rise of sanctions as a tool of modern war (Yale University Press, New Haven 2022), N. Mulder ricostruisce la storia delle sanzioni economiche e ne esplora i limiti. L’idea di fare la guerra con mezzi economici è antica (assedio, blocco navale, ecc.), ma oggi la deterrenza economica non funziona più per prevenire i conflitti o per farli cessare. Primo, perché sono un’arma a doppio taglio, dato che danneggiano anche chi le introduce. Secondo, perché più vengono usate, più le sanzioni perdono efficacia, dato che i Paesi si adattano a resistere ad esse. Terzo, perché le sanzioni per risultare efficaci postulano l’accordo leale tra i Paesi sanzionatori, cioè l’assenza di comportamenti del tipo free riding.
Tutti sanno che vi sono lobby belligeranti che non vogliono che i conflitti abbiano termine. In particolare, spingono per bloccare ogni proposta di negoziato tra Russia e Ucraina: troppo alti sono i profitti dell’industria bellica.
Una analisi rigorosa dei principali passaggi della lunga vicenda storica alle origini della guerra in Ucraina è quella di G. Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci, Roma 2021. (Si veda il Rapporto della Rand Corporation dell’aprile 2022, Overextending and imbalancing Russia. Assessing the impact of cost–imposing options).
Infine, è urgente far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari. La spesa militare del mondo è di circa due trilioni di dollari all’anno, quasi il 10% in più rispetto a un decennio fa. Si tratta di espandere l’ATT, il Trattato sul Commercio internazionale di armi convenzionali, approvato nel 2013 e ratificato nel 2020 da UE e Cina, ma non dagli USA né dalla Russia. Il che la dice lunga. La convenzione ONU sui dispositivi d’arma autonomi (LAWS: Lethal Autonomous Weapon Systems) si è conclusa nel dicembre 2021 con un nulla di fatto. Eppure, si sa che nel passato tutte le corse agli armamenti a spirale si sono concluse con conflitti disastrosi. Ecco perché la proposta di avviare un negoziato tra tutti i Paesi per ridurre in modo bilanciato la spesa militare annua (poniamo del 2%) dovrebbe essere favorevolmente accolta.
Infine, nell’agosto 2022 si è conclusa la decima conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), pure con un nulla di fatto, in conseguenza dell’irrevocabile no russo: una posizione, quella russa criticata perfino dall’alleato cinese. Una proposta credibile deve prevedere la creazione di un fondo globale per consentire il riacquisto di armi convenzionali, per poi distruggerle. Il fondo otterrebbe le risorse necessarie da quelle liberate dalla riduzione della spesa militare. I benefici per i Paesi poveri sarebbero notevoli: otterrebbero risorse fresche per finanziare il loro sviluppo con l’unica condizione di non riacquistare armi. La Russia è il secondo esportatore di armamenti al mondo dopo gli USA, pur sapendo che vendere armi ai Paesi poveri significa rallentare il loro processo di sviluppo e incentivare la guerra tra poveri. (Ha scritto il celebre A.P. Cechov: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”!).
È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinale Pietro Parolin ha scritto: “Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta”. (“Vatican News”, 11 marzo 2022).
Desidero fissare qui un punto. È vero che “l’Occidente collettivo” (e la NATO) non hanno saputo anticipare e ancor meno prevedere quanto poi è accaduto a partire dal 24 febbraio 2022. Ed è altresì vero che troppo poco l’Occidente ha fatto per costruire “un nuovo sistema di convivenza tra le nazioni”. Ma tutto ciò in nessun modo può giustificare l’offensiva militare in Ucraina; può semmai spiegarla, non certo giustificarla, né sul piano politico, né sul piano etico.
Una proposta credibile di negoziato di pace
Pur ribadendo la rilevanza delle considerazioni sopra avanzate, ritengo che nelle more dell’attesa, – more che potranno essere anche lunghe data la natura dei provvedimenti – sia doveroso avanzare una proposta di negoziato di pace tra i due Paesi belligeranti. Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di J. Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (Successivamente, in collaborazione con C. Jacobson, Galtung pubblica il volume, Searching for peace, Pluto Press, London 2000). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza diretta (“al cessate il fuoco”, come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra. Invero, solamente la pace positiva è sostenibile nella prospettiva della durata. Eppure, è la nozione di pace negativa quella che continua ad essere invocata e ricercata. Ad esempio, è a questo tipo di pace che il Global Peace Index (GPI), elaborato dall’Institut for Economics and Peace di Sidney, fa riferimento come sua base concettuale. È questa una lacuna seria che deve essere colmata, pure in fretta.
Quella in Ucraina rischia di evolvere in una guerra di logoramento e può terminare o come conflitto congelato oppure come pace negoziata. È dimostrato che una pace negoziata è sempre un esito superiore rispetto all’altra possibilità. E questo è vero non solo per Russia e Ucraina, ma anche per USA, UE e il resto del mondo. Per una accurata dimostrazione, anche di natura empirica, rinvio a C. Blattman, economista canadese, e al suo recente volume Why we fight. The roots of war and the paths to peace, Wiking, Londra 2022. Si consideri solo quel che sta accadendo al prezzo del gas naturale in Europa (le riserve russe di gas naturale ammontano a 37 miliardi di m3; quelle dell’UE a poco più 3 miliardi di m3) e alla rottura delle catene globali del valore attraverso le quali i Paesi si scambiano tra loro beni e servizi. (L’Italia importa dalla Russia oltre il 35% del gas di cui necessita e pure grandi quantità di grano, semi oleosi, fertilizzanti per la sua filiera agro-alimentare).
D’altro canto, la Russia con la sua economia strutturalmente debole non può certo pensare di poter competere sui mercati internazionali. (L’economia russa è meno di un ventesimo dell’economia USA e UE, insieme). Questo dato aiuta a spiegare perché la guerra per le conquiste territoriali sia così appetibile alla dirigenza di Mosca. Ma – come la storia insegna – le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare; dato che è vano pensare, oggi assai più ancora che nel passato, che più territorio significhi più potere. (L’ha ben capito la Cina, la cui strategia geopolitica è di conquistare mercati, non territori).
Una chiosa sulla questione del nucleare. Taluno ritiene che il passaggio al nucleare varrebbe a ridurre la dipendenza dalla Russia, ma si tratta di pura illusione. Infatti, il Paese che più produce uranio, sia naturale sia arricchito, è la Russia. Secondo l’EIA (Energy Information Administration americana), nel 2021 il 35% dell’uranio utilizzato dagli USA proveniva dal Kazakhistan e il 14% dalla Russia. Analoga la posizione di dipendenza per i Paesi dell’UE. È dunque ovvio che il suggerimento di fare ricorso al nucleare avrebbe l’effetto di accrescere il livello di dipendenza dalla Russia. Per non dire del rischio, assai elevato, che lo stretto legame tra nucleare civile e nucleare militare potrebbe condurre a devastanti conflitti nucleari. Né si può pensare che la fusione termonucleare, che a differenza della fissione nucleare, è “sicura” possa esserci d’aiuto, per la semplice ragione che la sua messa in opera richiede ancora un ventennio circa.
Quali dunque i punti qualificanti di una proposta volta ad ottenere, un accordo di pace positiva? Ne indico sette.
Primo. Neutralità dell’Ucraina che rinuncia all’ambizione nazionale di entrare nella NATO, ma che conserva la piena libertà di diventare parte dell’UE, con tutto ciò che questo significa. Una risoluzione delle NU deve essere adottata per assicurare meccanismi di monitoraggio internazionali per il rispetto degli accordi di pace.
Secondo. L’Ucraina ottiene la garanzia della propria sovranità, indipendenza, e integrità territoriale; una garanzia assicurata dai 5 membri permanenti delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Russia, UK, USA) oltre che dall’UE e dalla Turchia.
Terzo. La Russia conserva il controllo de facto della Crimea per un certo numero di anni ancora, dopodiché le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione de jure permanente. Le comunità locali usufruiscono di accesso facilitato sia all’Ucraina sia alla Russia; oltre alla libertà di movimento di persone e risorse finanziarie.
Quarto. Autonomia delle regioni di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina, di cui restano parte integrante, sotto i profili economico, politico, e culturale.
Quinto. Accesso garantito a Russia e Ucraina ai porti del Mar Nero, per lo svolgimento delle normali attività commerciali.
Sesto. Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall’Ucraina.
Settimo. Creazione di un Fondo multilaterale per la ricostruzione e lo sviluppo delle aree distrutte e seriamente danneggiate dell’Ucraina, un fondo al quale la Russia è chiamata a concorrere sulla base di predefiniti criteri di proporzionalità. (L’esperienza storica del Piano Marshall è di aiuto a tale riguardo).
Ho motivo di ritenere che una proposta del genere, se opportunamente presentata e saggiamente gestita per via diplomatica, possa essere favorevolmente accolta dalle parti in conflitto. Forse l’ostacolo maggiore per una pace negoziata è la paura della negoziazione stessa. I politici e i capi di governo, infatti, temono di essere percepiti dalle rispettive constituencies o come pacifisti ingenui oppure come opportunisti con secondi fini. (R. Mardini, nel saggio Course correcting toward diplomacy in the Ukraine Crisis, “The National Interest”, agosto 2022, illustra, con dovizia di particolari, come la paura della negoziazione abbia preso corpo negli USA).
Ecco perché, in una situazione come l’attuale, il ruolo dei costruttori di pace è fondamentale. La mobilitazione della società civile internazionale tesa a dare vita ad una “Alleanza per la Pace” è oggi, una iniziativa urgente e altamente meritoria. Si tratta per un verso di ristabilire quei legami di fiducia reciproca tra Stati senza i quali nessuna pace potrà essere duratura e per l’altro verso, di far comprendere a livello di cultura popolare che non è il fine che giustifica i mezzi, ma la permissibilità dei mezzi che, unitamente ad altre condizioni, giustifica i fini.
Per concludere
Vi sono persone che studiano l’arte della guerra – così veniva chiamata nella Cina antica – per diventare meglio preparati per il combattimento. Ma vi sono molti altri che si occupano di guerra per scoraggiarne lo scoppio, per eliminarla. La pace non è un obiettivo irraggiungibile perché la guerra non è qualcosa che accade come un terremoto o uno tsunami; ma è frutto della scelta di persone che la vogliono. E per questo sviluppano ideologie che insegnano ad odiare: il vicino, il diverso, il povero, diffondendo la cultura dell’aporofobia. Guerra e pace cambiano il carattere delle persone, chiaramente in direzione opposta.
In un tempo come l’attuale in cui le politiche neoliberiste sono in declino ovunque, il realismo geopolitico sta diventando l’ideologia dominante. Al centro del pensiero realista sta il “security dilemma”: una situazione questa in cui le principali potenze scelgono la sicurezza nazionale come obiettivo primario della loro azione. Ora, poiché è difficile distinguere tra misure difensive e offensive, il tentativo di una parte di diventare più sicura finisce con l’accrescere l’insicurezza dell’altra parte, innescando così contromisure che alimentano un vero e proprio circolo vizioso. Il caso dell’Ucraina è una conferma chiarissima di tale dilemma.
Platone ha scritto che il bisogno fondamentale dell’uomo è il bisogno di riconoscimento (thimos, in greco). Ogni persona ha necessità di essere riconosciuta da altre persone e di riconoscere a sua volta per dare senso alla propria esistenza. Ciò è senz’altro vero, ma va considerato che il thimos può essere declinato come megalothimia oppure come isothimia. Mentre quest’ultimo è il bisogno di essere riconosciuti come eguali agli altri, la megalothimia è il bisogno di essere riconosciuti come superiori agli altri. È triste ammetterlo, ma va detto che ormai da qualche tempo la megalothimia ha ripreso servizio un po’ ovunque. La volontà di potenza, e quindi la volontà della guerra, trova in ciò un fertile terreno di coltura.
Se la vicenda ucraina servisse a farci comprendere la portata delle gravi vulnerabilità dell’attuale ordine internazionale e così servisse a spingerci ad agire di conseguenza, potremo dire che questa immane tragedia a qualcosa di buono sarà servita. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma pure il presente, dato che le nostre opere, oltre ad una destinazione finale, hanno un senso e un valore anche qui e ora.
Tratto da www.politicainsieme.com e in corso di pubblicazione su “Paradoxa” (www.novaspes.org/paradoxa)
Mi limito a commentare i 5 punti delle proposte: proposte di così buon senso che solo da parte di matti o persone in malafede non potrebbero essere accettate. Sono proposte che oltre a far cessare la guerra porterebbero ricchezza all’Europa intera.
Ma non vedo nessuno a Roma che almeno lontanamente sia su questa linea e lo stesso Zamagni alla fine è poco ottimista.
Aggiungo: ma come mai noi di Rinascita abbiamo così tante menti e non riusciamo a portarne nessuna al potere?
Infine per completezza aggiungo, anche se vi potrà sembrare strano, che grazie alla propaganda del governo dei migliori, nel giro dei miei amici e conoscenti sono considerato un filoputiniano di ferro che vive fuori della realtà e non prova pena per i poveri ucraini aggrediti.
A questo punto siamo, forse sarebbe bene ricordarcelo anche domenica quando andiamo a votare e votare in modo un po’ diverso dal passato.