Con il ripudio finale di Tony Blair e della Terza via che ha ispirato le riforme di matrice socialdemocratica del mercato del lavoro nel corso degli anni 90, si completa la trasformazione del riformista Enrico Letta da esponente della sinistra riformista europea ad aspirante leader radicale post globalista, sostenitore dei diritti a gogò foraggiati con nuove iniezioni di spesa pubblica statale.
Sono le stesse parole rilasciate dal segretario del Pd al Corriere della Sera del 5 settembre a confermare l’assunto: “oggi nessun leader riformista minimamente lucido rispolvererebbe la flexicurity (…) io su quella infatuazione ho fatto autocritica 4 anni fa (…) oggi un riformismo moderno deve dare soluzioni a problemi come la richiesta di protezione sociale, al grande tema delle dimissioni di massa post Covid, alla carica distruttrice del lavoro della rivoluzione digitale e delle delocalizzazioni”.
In cosa consistano queste risposte non è dato sapere, fatto salvo un generico accenno alla recente riforma dei rapporti di lavoro approvata in Spagna. Alcuni spunti possono essere rintracciati nel programma elettorale del suo partito. Proposte che comprendono la sua idea di erogare un regalo di Stato pari a 10mila euro a tutti i giovani che compiono i 18 anni.
Le idee della cosiddetta Terza via hanno ispirato le riforme del mercato del lavoro e del welfare di molti paesi sviluppati su iniziativa dei governi di matrice socialdemocratica, con il concorso delle direttive promosse dalle istituzioni europee sulla materia e le linee guida per l’utilizzo dei fondi sociali destinati alle politiche attive del lavoro.
La conciliazione tra i fabbisogni di flessibilità del lavoro del sistema produttivo e le condizioni di sicurezza del lavoro e l’occupabilità dei lavoratori erano, e rimangono tuttora, il presupposto per la tenuta del mercato del lavoro e della crescita del tasso di occupazione. Frutto di politiche volte a incrementare gli investimenti sulle competenze delle risorse umane per migliorare l’occupabilità dei lavoratori, per potenziare i servizi finalizzati a far incontrare domanda e offerta di lavoro, per conciliare i carichi familiari con quelli lavorativi.
I paesi che hanno praticato queste riforme sono quelli che hanno realizzato le migliori performance in termini di crescita del tasso di occupazione, della produttività e dei salari e garantito la sostenibilità delle prestazioni sociali, messa a dura prova dall’invecchiamento della popolazione.
Quelli che non hanno praticato queste riforme, ovvero l’hanno fatto in modo parziale e contraddittorio come l’Italia, hanno accumulato ritardi e distanze rispetto a tutti gli indicatori appena richiamati.
L’avvento di internet, la mole delle innovazioni tecnologiche disponibili e la globalizzazione degli assetti produttivi hanno intensificato i cambiamenti delle organizzazioni produttive e i tassi di obsolescenza delle professioni, mettendo in difficoltà le infrastrutture e gli assetti regolativi dei rapporti di lavoro in tutti i paesi sviluppati.
È stato Anthony Giddens, il principale teorico delle linee guida della Terza via tra liberismo e statalismo, a mettere in evidenza a posteriori i limiti di queste riforme. In particolare, la sottovalutazione delle fratture intervenute nei rapporti tra le dinamiche della finanza e del capitale rispetto al lavoro nell’era della globalizzazione spinta.
Nonostante ciò, tutti gli indicatori relativi alle dinamiche del mercato del lavoro sul piano quantitativo e qualitativo e dell’andamento delle retribuzioni continuano a confermare che sono i paesi che hanno intrapreso le riforme ispirate alla “flexicurity” a reagire con maggiore efficacia alle novità intervenute. Rafforzando al proprio interno il dialogo e la cooperazione tra i diversi protagonisti del mercato del lavoro, e gli investimenti sulle risorse umane.
Riportando l’attenzione sulla realtà italiana la carica distruttrice delle innovazioni tecnologiche e delle delocalizzazioni andrebbe meglio motivata. Gli unici comparti produttivi in Italia che hanno realizzato buone performance in termini di produttività, occupazione e retribuzioni all’altezza degli altri paesi sviluppati, e persino superiori per la quota delle esportazioni, risultano essere quelli più esposti alla competizione internazionale. Viceversa, le distanze negative si riscontrano in modo clamoroso nei comparti dei servizi protetti dalla competizione e dove l’utilizzo delle risorse disponibile dipende essenzialmente dai nostri comportamenti.
Il fenomeno, inesistente, delle grandi dimissioni (persone che si licenziano spontaneamente, senza alternative lavorative perché insoddisfatte della qualità del rapporto di lavoro) è semplicemente legato all’andamento di una domanda di lavoro da parte delle imprese superiore alla disponibilità di lavoratori. Una condizione che offre migliori opportunità di lavoro alle persone dotate di competenze e che rivela, nel contempo, la carenza di professionalità adeguate nel mercato del lavoro.
Altro che distruzione di posti e lavoro povero. Tutte, ma proprio tutte, le indagini sull’andamento della domanda e offerta di lavoro riscontrano una crescente carenza di personale competente e un fabbisogno di adeguamento delle stesse legato all’impatto delle nuove tecnologie.
È pur vero che questa tendenza è comune in tutti i paesi sviluppati. Ma negli altri contesti avviene in coincidenza con tassi di occupazione decisamente più elevati del nostro e con una maggiore capacità di attrazione di nuove risorse umane. Quali sono questi Paesi? Quelli che hanno fatto le riforme della “flexicurity”.
La cosa è talmente evidente da far dedicare l’intera quota del nostro PNRR riservata alle politiche del lavoro all’obiettivo di recuperare questi ritardi, prendendo spunto dalle esperienze di successo della “flexicurity”. Lo facciamo all’italiana, ovviamente, con un sovraccarico di sostegni al reddito tali da scoraggiare la ricerca attiva di un lavoro regolare da parte dei beneficiari, e cullando l’illusione che gli obiettivi possano essere conseguiti con l’iniezione di nuovo personale nei servizi pubblici per l’impiego.
Cosa rimane dell’elaborazione del Letta pensiero? Semplicemente la protezione sociale. Un obiettivo che va ben oltre la ragionevole tutela del reddito per la perdita involontaria del lavoro e di assicurare un sostegno alle persone più fragili, per approdare a forme di intervento diretto sui salari da parte dello Stato e a forme di diritto al reddito a prescindere dal lavoro. Esattamente l’impianto culturale da cui trae origine l’idea del Reddito di cittadinanza propagandata dal M5S.
Come è potuto accadere tutto ciò? Negli anni 90 in Italia, con lo scioglimento del Partito comunista, prende forma un’originale inversione del ruolo storico della cinghia di trasmissione delle politiche sancite all’interno del principale partito della sinistra verso la CGIL. La scomparsa del primo consegna in via di fatto alla principale componente sindacale della CGIL una sorta di monopolio sulle politiche del lavoro. Utilizzato nel tempo per marcare l’opposizione a qualsiasi ragionevole tentativo di riformare il diritto del lavoro (pacchetto Treu, legge Biagi) e di allineare le strategie politiche con quelle dei partiti socialdemocratici europei tentate da D’Alema e Veltroni. La rottura di questo schema avviene con l’approvazione del Jobs act del governo Renzi, che segna l’inizio di una resa dei conti che ha prodotto gli esiti noti al pubblico.
L’ultima fase di questo percorso, fondato sulla continuità della visione antagonista dei rapporti tra capitale e lavoro, è l’apertura di una fase caratterizzata dalla competizione tra sindacati e partiti populisti sul terreno squisitamente politico, palesemente dichiarata dal segretario della CGIL, Maurizio Landini.
Una scelta che chiude il cerchio, rinunciando alla prospettiva di ricostruire le condizioni per rafforzare la coesione sociale tra i principali protagonisti, le imprese e i lavoratori, finalizzata a gestire il riassetto delle filiere produttive ereditate dalla fase economica della globalizzazione spinta, messe in crisi dalle dinamiche geopolitiche.
Davvero è difficile comprendere quale possa essere il contributo della sinistra italiana nel gestire questo passaggio.
Esaurito il commento politico, consentitemi di fare alcune considerazioni personali sull’evoluzione degli eventi. Ho avuto modo di collaborare con Enrico Letta per diversi anni anche nella sede del centro studi Arel, apprezzando il suo rigore intellettuale e l’attitudine a costruire le proposte sulla base di analisi accurate. La modalità con cui è stato gestito il passaggio di consegne dell’Esecutivo da lui guidato verso la formazione del governo Renzi sono state umanamente indegne. Paradossalmente sollecitata dai protagonisti della sinistra interna al partito che, dopo aver beneficiato di posti e prebende da parte di Matteo, lo hanno scaricato con l’aggiunta dello sfregio di consegnare il partito al suo rivale.
Le dichiarazioni di Letta che ho commentato, più che un ripensamento legato all’evoluzione degli eventi assomigliano a un ripudio della propria storia volto a rassicurare l’ala radicale del partito, desiderosa di ricostruire l’alleanza con i Cinque Stelle. Che ovviamente desiderano gestire in prima persona, sull’onda di una sconfitta elettorale, cambiando cavallo e cavaliere.
Vale la pena vendere l’anima per una prospettiva di questo genere?
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
Sono le stesse parole rilasciate dal segretario del Pd al Corriere della Sera del 5 settembre a confermare l’assunto: “oggi nessun leader riformista minimamente lucido rispolvererebbe la flexicurity (…) io su quella infatuazione ho fatto autocritica 4 anni fa (…) oggi un riformismo moderno deve dare soluzioni a problemi come la richiesta di protezione sociale, al grande tema delle dimissioni di massa post Covid, alla carica distruttrice del lavoro della rivoluzione digitale e delle delocalizzazioni”.
In cosa consistano queste risposte non è dato sapere, fatto salvo un generico accenno alla recente riforma dei rapporti di lavoro approvata in Spagna. Alcuni spunti possono essere rintracciati nel programma elettorale del suo partito. Proposte che comprendono la sua idea di erogare un regalo di Stato pari a 10mila euro a tutti i giovani che compiono i 18 anni.
Le idee della cosiddetta Terza via hanno ispirato le riforme del mercato del lavoro e del welfare di molti paesi sviluppati su iniziativa dei governi di matrice socialdemocratica, con il concorso delle direttive promosse dalle istituzioni europee sulla materia e le linee guida per l’utilizzo dei fondi sociali destinati alle politiche attive del lavoro.
La conciliazione tra i fabbisogni di flessibilità del lavoro del sistema produttivo e le condizioni di sicurezza del lavoro e l’occupabilità dei lavoratori erano, e rimangono tuttora, il presupposto per la tenuta del mercato del lavoro e della crescita del tasso di occupazione. Frutto di politiche volte a incrementare gli investimenti sulle competenze delle risorse umane per migliorare l’occupabilità dei lavoratori, per potenziare i servizi finalizzati a far incontrare domanda e offerta di lavoro, per conciliare i carichi familiari con quelli lavorativi.
I paesi che hanno praticato queste riforme sono quelli che hanno realizzato le migliori performance in termini di crescita del tasso di occupazione, della produttività e dei salari e garantito la sostenibilità delle prestazioni sociali, messa a dura prova dall’invecchiamento della popolazione.
Quelli che non hanno praticato queste riforme, ovvero l’hanno fatto in modo parziale e contraddittorio come l’Italia, hanno accumulato ritardi e distanze rispetto a tutti gli indicatori appena richiamati.
L’avvento di internet, la mole delle innovazioni tecnologiche disponibili e la globalizzazione degli assetti produttivi hanno intensificato i cambiamenti delle organizzazioni produttive e i tassi di obsolescenza delle professioni, mettendo in difficoltà le infrastrutture e gli assetti regolativi dei rapporti di lavoro in tutti i paesi sviluppati.
È stato Anthony Giddens, il principale teorico delle linee guida della Terza via tra liberismo e statalismo, a mettere in evidenza a posteriori i limiti di queste riforme. In particolare, la sottovalutazione delle fratture intervenute nei rapporti tra le dinamiche della finanza e del capitale rispetto al lavoro nell’era della globalizzazione spinta.
Nonostante ciò, tutti gli indicatori relativi alle dinamiche del mercato del lavoro sul piano quantitativo e qualitativo e dell’andamento delle retribuzioni continuano a confermare che sono i paesi che hanno intrapreso le riforme ispirate alla “flexicurity” a reagire con maggiore efficacia alle novità intervenute. Rafforzando al proprio interno il dialogo e la cooperazione tra i diversi protagonisti del mercato del lavoro, e gli investimenti sulle risorse umane.
Riportando l’attenzione sulla realtà italiana la carica distruttrice delle innovazioni tecnologiche e delle delocalizzazioni andrebbe meglio motivata. Gli unici comparti produttivi in Italia che hanno realizzato buone performance in termini di produttività, occupazione e retribuzioni all’altezza degli altri paesi sviluppati, e persino superiori per la quota delle esportazioni, risultano essere quelli più esposti alla competizione internazionale. Viceversa, le distanze negative si riscontrano in modo clamoroso nei comparti dei servizi protetti dalla competizione e dove l’utilizzo delle risorse disponibile dipende essenzialmente dai nostri comportamenti.
Il fenomeno, inesistente, delle grandi dimissioni (persone che si licenziano spontaneamente, senza alternative lavorative perché insoddisfatte della qualità del rapporto di lavoro) è semplicemente legato all’andamento di una domanda di lavoro da parte delle imprese superiore alla disponibilità di lavoratori. Una condizione che offre migliori opportunità di lavoro alle persone dotate di competenze e che rivela, nel contempo, la carenza di professionalità adeguate nel mercato del lavoro.
Altro che distruzione di posti e lavoro povero. Tutte, ma proprio tutte, le indagini sull’andamento della domanda e offerta di lavoro riscontrano una crescente carenza di personale competente e un fabbisogno di adeguamento delle stesse legato all’impatto delle nuove tecnologie.
È pur vero che questa tendenza è comune in tutti i paesi sviluppati. Ma negli altri contesti avviene in coincidenza con tassi di occupazione decisamente più elevati del nostro e con una maggiore capacità di attrazione di nuove risorse umane. Quali sono questi Paesi? Quelli che hanno fatto le riforme della “flexicurity”.
La cosa è talmente evidente da far dedicare l’intera quota del nostro PNRR riservata alle politiche del lavoro all’obiettivo di recuperare questi ritardi, prendendo spunto dalle esperienze di successo della “flexicurity”. Lo facciamo all’italiana, ovviamente, con un sovraccarico di sostegni al reddito tali da scoraggiare la ricerca attiva di un lavoro regolare da parte dei beneficiari, e cullando l’illusione che gli obiettivi possano essere conseguiti con l’iniezione di nuovo personale nei servizi pubblici per l’impiego.
Cosa rimane dell’elaborazione del Letta pensiero? Semplicemente la protezione sociale. Un obiettivo che va ben oltre la ragionevole tutela del reddito per la perdita involontaria del lavoro e di assicurare un sostegno alle persone più fragili, per approdare a forme di intervento diretto sui salari da parte dello Stato e a forme di diritto al reddito a prescindere dal lavoro. Esattamente l’impianto culturale da cui trae origine l’idea del Reddito di cittadinanza propagandata dal M5S.
Come è potuto accadere tutto ciò? Negli anni 90 in Italia, con lo scioglimento del Partito comunista, prende forma un’originale inversione del ruolo storico della cinghia di trasmissione delle politiche sancite all’interno del principale partito della sinistra verso la CGIL. La scomparsa del primo consegna in via di fatto alla principale componente sindacale della CGIL una sorta di monopolio sulle politiche del lavoro. Utilizzato nel tempo per marcare l’opposizione a qualsiasi ragionevole tentativo di riformare il diritto del lavoro (pacchetto Treu, legge Biagi) e di allineare le strategie politiche con quelle dei partiti socialdemocratici europei tentate da D’Alema e Veltroni. La rottura di questo schema avviene con l’approvazione del Jobs act del governo Renzi, che segna l’inizio di una resa dei conti che ha prodotto gli esiti noti al pubblico.
L’ultima fase di questo percorso, fondato sulla continuità della visione antagonista dei rapporti tra capitale e lavoro, è l’apertura di una fase caratterizzata dalla competizione tra sindacati e partiti populisti sul terreno squisitamente politico, palesemente dichiarata dal segretario della CGIL, Maurizio Landini.
Una scelta che chiude il cerchio, rinunciando alla prospettiva di ricostruire le condizioni per rafforzare la coesione sociale tra i principali protagonisti, le imprese e i lavoratori, finalizzata a gestire il riassetto delle filiere produttive ereditate dalla fase economica della globalizzazione spinta, messe in crisi dalle dinamiche geopolitiche.
Davvero è difficile comprendere quale possa essere il contributo della sinistra italiana nel gestire questo passaggio.
Esaurito il commento politico, consentitemi di fare alcune considerazioni personali sull’evoluzione degli eventi. Ho avuto modo di collaborare con Enrico Letta per diversi anni anche nella sede del centro studi Arel, apprezzando il suo rigore intellettuale e l’attitudine a costruire le proposte sulla base di analisi accurate. La modalità con cui è stato gestito il passaggio di consegne dell’Esecutivo da lui guidato verso la formazione del governo Renzi sono state umanamente indegne. Paradossalmente sollecitata dai protagonisti della sinistra interna al partito che, dopo aver beneficiato di posti e prebende da parte di Matteo, lo hanno scaricato con l’aggiunta dello sfregio di consegnare il partito al suo rivale.
Le dichiarazioni di Letta che ho commentato, più che un ripensamento legato all’evoluzione degli eventi assomigliano a un ripudio della propria storia volto a rassicurare l’ala radicale del partito, desiderosa di ricostruire l’alleanza con i Cinque Stelle. Che ovviamente desiderano gestire in prima persona, sull’onda di una sconfitta elettorale, cambiando cavallo e cavaliere.
Vale la pena vendere l’anima per una prospettiva di questo genere?
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
Articolo molto interessante e in gran parte condivisibile. Voglio solo sottolineare due cose:Forlani denuncia giustamente la mancanza di competenze utili al mondo del lavoro. E’ anche una conseguenza, a mio avviso, di studi universitari poco formativi o meglio del tentativo delle università di monopolizzare la formazione, fra l’altro allungando in pratica invece di accorciare i corsi di laurea: 3+2 anni invece dei 4 precedenti, assorbendo anche formazioni che erano esterne ed efficaci (si veda gi infermieri).
Non per niente molti diplomi di formazione professionale (ad esempio gli OSS per restare in campo sanitario) se seri garantscono un più facile inserimemto di massa nel lavoro. Non tutti nè tanti vogliono o possono fare studi universitari.
Seconda osservazione: è vero ed evidente che ci sono mestieri che gli italiani non vogliono fare. Penso all’edilizia o all’agricoltura. Nel secondo campo poi l’abolizione dei voucher (per gli stagionali e con i limiti che erano previsti) è stata una idiozia, come nel settore della ristorazione, ma mentalità radicali alla Letta (poco affini a lavori manuali) ideologicamente li aborriscono. Meglio il lavoro nero? O si fa finta di non vedere che molto spesso una assunzione è insostenibile?
È una fase politica (economica e sociale)italiana e mondiale veramente complicata. Riconosco l’onestà intellettuale e l’integrità morale di Letta ma occorre riconoscere che nel panorama politico generale ed in quello della sinistra in particolare le cose sono ancora più difficili. Ma oggi un democratico popolare cosa dovrebbe votare? Quale partito rappresenta le nostre istanze?