Su “La Stampa” di sabato ho letto un’efficace contestazione del “maschilismo” che domina sulla vita democratica, specie quando è caratterizzata solo dall’esercizio personale del potere e dall’assenza di qualunque idea capace di orientare le decisioni politiche del Parlamento e di chi ha la responsabilità di governare.
Non a caso l’articolo è firmato da Annalisa Cuzzocrea, ed è caratterizzato anche da una semplice e puntuale riflessione sui limiti di una legge elettorale che è l’approdo di una politica caratterizzata dalla pretesa di riformare la Costituzione seguendo l’antica ostilità della politologia che ha dominato in Italia all’inizio del ‘900, ostile nei confronti della democrazia rappresentativa e, negli ultimi decenni, soprattutto del voto di preferenza e del proporzionale, accusati di essere responsabili del clientelismo e dell’ingovernabilità.
Non ho molto da aggiungere alle considerazioni di questa bravissima giornalista sulle responsabilità della legge “sui nominati”, e alla sua critica alla convinzione molto diffusa che, cancellate le preferenze espresse dagli elettori, si sarebbero liberate le elezioni politiche e quelle amministrative dal condizionamento degli interessi particolari, dalle clientele, dal voto di scambio e dalla partitocrazia. E si sarebbe allontanata la corruzione dalla politica.
Posso però ricordare che, sin dalla discussione parlamentare sulla questione delle “preferenze”, posta all’ordine del giorno politico dall’iniziativa referendaria dell’on. Segni, alcuni parlamentari fecero osservare che l’influenza delle lobby e delle diverse oligarchie, in modo meno trasparente, sarebbe diventata ancora più pericolosa di quella esercitata dai partiti; e che il limite di una sola preferenza, anche se motivato dalla necessità di cancellare l’uso strumentale di quattro/cinque preferenze per consolidare il potere delle diverse tendenze dominanti nei maggiori partiti, era una limitazione al diritto alla partecipazione degli elettori alla scelta dei parlamentari.
A conclusione di quell’ampia discussione, alla Camera dei Deputati – poiché la questione delle preferenze si riferiva alla legge per l’elezione dei deputati – presentai un emendamento che proponeva di limitare a due le preferenze; l’emendamento fu accolto da D’Alema e poi da Segni (che si dichiarò disposto a rinunciare al referendum), e fu votato da un’ampia maggioranza. Mancava solo il consenso del Senato per la definitiva approvazione della legge.
Fu il Senato a interrompere l’iter della legge, che pure non lo riguardava, poiché la legge per l’elezione del Senato era uninominale. Nell’aula di Palazzo Madama prevalse l’opinione di personaggi che, ricorrendo alla pluralità delle preferenze, gestivano le candidature di diverse circoscrizioni elettorali; facevano cioè, su scala più ridotta, quello che – con il Rosatellum – possono fare le maggioranze e le segreterie dei partiti: sceglievano chi fare eleggere. Questa questione è stata aggravata dal taglio dei deputati e dei senatori, come un boomerang.
Quella interruzione, e lo scioglimento delle Camere, resero inevitabile il referendum che si concluse con un netto successo dei suoi promotori, con una riforma a favore dell’unica preferenza e con un dibattito politico che rilanciò la critica al Parlamento e alla Repubblica dei partiti, ed infine le iniziative di quanti vogliono “riformare” la Costituzione.
La strategia referendaria diventò alternativa a quella parlamentare, la personalizzazione della politica alternativa ai partiti, il populismo nemico della democrazia rappresentativa e della centralità del Parlamento, del ruolo dei parlamentari “senza limite di mandato”. Subentrò la partitocrazia senza partiti, quindi l’autocrazia. Ma una democrazia senza popolo, è destinata a tramontare.
Non a caso l’articolo è firmato da Annalisa Cuzzocrea, ed è caratterizzato anche da una semplice e puntuale riflessione sui limiti di una legge elettorale che è l’approdo di una politica caratterizzata dalla pretesa di riformare la Costituzione seguendo l’antica ostilità della politologia che ha dominato in Italia all’inizio del ‘900, ostile nei confronti della democrazia rappresentativa e, negli ultimi decenni, soprattutto del voto di preferenza e del proporzionale, accusati di essere responsabili del clientelismo e dell’ingovernabilità.
Non ho molto da aggiungere alle considerazioni di questa bravissima giornalista sulle responsabilità della legge “sui nominati”, e alla sua critica alla convinzione molto diffusa che, cancellate le preferenze espresse dagli elettori, si sarebbero liberate le elezioni politiche e quelle amministrative dal condizionamento degli interessi particolari, dalle clientele, dal voto di scambio e dalla partitocrazia. E si sarebbe allontanata la corruzione dalla politica.
Posso però ricordare che, sin dalla discussione parlamentare sulla questione delle “preferenze”, posta all’ordine del giorno politico dall’iniziativa referendaria dell’on. Segni, alcuni parlamentari fecero osservare che l’influenza delle lobby e delle diverse oligarchie, in modo meno trasparente, sarebbe diventata ancora più pericolosa di quella esercitata dai partiti; e che il limite di una sola preferenza, anche se motivato dalla necessità di cancellare l’uso strumentale di quattro/cinque preferenze per consolidare il potere delle diverse tendenze dominanti nei maggiori partiti, era una limitazione al diritto alla partecipazione degli elettori alla scelta dei parlamentari.
A conclusione di quell’ampia discussione, alla Camera dei Deputati – poiché la questione delle preferenze si riferiva alla legge per l’elezione dei deputati – presentai un emendamento che proponeva di limitare a due le preferenze; l’emendamento fu accolto da D’Alema e poi da Segni (che si dichiarò disposto a rinunciare al referendum), e fu votato da un’ampia maggioranza. Mancava solo il consenso del Senato per la definitiva approvazione della legge.
Fu il Senato a interrompere l’iter della legge, che pure non lo riguardava, poiché la legge per l’elezione del Senato era uninominale. Nell’aula di Palazzo Madama prevalse l’opinione di personaggi che, ricorrendo alla pluralità delle preferenze, gestivano le candidature di diverse circoscrizioni elettorali; facevano cioè, su scala più ridotta, quello che – con il Rosatellum – possono fare le maggioranze e le segreterie dei partiti: sceglievano chi fare eleggere. Questa questione è stata aggravata dal taglio dei deputati e dei senatori, come un boomerang.
Quella interruzione, e lo scioglimento delle Camere, resero inevitabile il referendum che si concluse con un netto successo dei suoi promotori, con una riforma a favore dell’unica preferenza e con un dibattito politico che rilanciò la critica al Parlamento e alla Repubblica dei partiti, ed infine le iniziative di quanti vogliono “riformare” la Costituzione.
La strategia referendaria diventò alternativa a quella parlamentare, la personalizzazione della politica alternativa ai partiti, il populismo nemico della democrazia rappresentativa e della centralità del Parlamento, del ruolo dei parlamentari “senza limite di mandato”. Subentrò la partitocrazia senza partiti, quindi l’autocrazia. Ma una democrazia senza popolo, è destinata a tramontare.
“il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” Così quei furbacchioni che, per salvare le preferenze plurime, bloccarono al Senato l’intervento correttivo proposto e ricordato in questo scritto da Guido Bodrato, si beccarono la legnata dell’esito referendario. Tutti quelli che hanno vissuto o studiato la c.d. prima Repubblica sanno che disastro ha prodotto l’uso clientelare delle preferenze plurime (per il Comune di Torino, ricordo, se ne potevano assegnare 5!). Lo spettacolo offerto dall’attuale normativa non è però più confortante, pur con un copione diverso.
Sono assolutamente convinto che l’approvazione dell’emendamento Bodrato, di per sé una equilibrata risposta al problema, ci avrebbe risparmiato una infinità di guai successivi…
Vi è una tendenza ne nostro Paese a colpire insieme al male l’ammalato. Così per combattere le cordate clientelari si limita il diritto del cittadino, per sconfiggere la corruzione si bloccano i lavori, per correggere le inefficienze del settore pubblico si promuove il settore privato. Così di colpo in colpo abbiamo trovato l’America, ma non quella dei diritti e delle risorse disponibili, bensì quella della competizione selvaggia e delle privazioni sociali.