Dunque, Giuseppe Conte non finisce di stupirci. Al di là del simpatico Bersani che non si rassegna per l’esclusione dei populisti dei 5 Stelle dalla potenziale alleanze di centrosinistra, adesso registriamo l’ennesima metamorfosi politica di Conte, il capo dei 5 Stelle. Dopo l’alleanza stretta ed organica con la destra di Salvini diventa un cattolico di sinistra con la coalizione con il PD per poi riscoprire, misteriosamente e nuovamente, la sua anima populista e demagogica della prima ora grillna. Adesso, almeno così pare, sta per diventare il nuovo alfiere e protagonista della “sinistra sociale”, il difensore per eccellenza della giustizia sociale. Una sorta di Robin Hood de noantri. Insomma, per dirla in termini ancora più espliciti, abbiamo trovato il nuovo Carlo Donat-Cattin della e nella politica italiana.
Ora, al di là del trasformismo che anima e caratterizza il partito populista per eccellenza di cui Conte è l’esempio classico ed indiscutibile, non c’è alcun dubbio che ci troviamo di fronte all’ennesima piroetta da parte di un personaggio e di un partito che nella geografia politica italiana hanno già ricoperto tutti i ruoli. Dalla destra alla sinistra al centro, senza alcun problema e senza alcuna dignità anche perché, com’è ormai evidente a tutti, si tratta di un partito privo di qualsiasi identità e di qualsiasi cultura politica per cui tutti i ruoli sono possibili ed intercambiabili.
Ma di fronte ad operazioni così sfacciate e anche così ridicole, forse è arrivato anche il momento per alzare la voce da parte di tutti coloro che considerano il patrimonio del cattolicesimo sociale e politico non un luogo da saccheggiare da chicchessia ma una fonte da cui continuare a trarre ispirazione e insegnamento – possibilmente con una coerenza nel comportamento politico – anche e soprattutto per come affrontare la stagione contemporanea. E, all’interno di questo nobile e antico patrimonio, recuperare la lezione esercitata e declinata da leader politici e statisti come, ad esempio, quello svolto da uomini e donne come Carlo Donat-Cattin o Tina Anselmi. E quindi, tutti coloro che ricavano la loro ispirazione ideale e culturale dal filone del cattolicesimo sociale per giustificare il proprio impegno politico, non possono assistere passivamente di fronte a chi si appropria di un ruolo che semplicemente non gli appartiene. Non si tratta di non rispettare i repentini ed improvvisi cambiamenti politici di chi pratica con disinvoltura la prassi trasformistica ed opportunistica. Ma, molto più semplicemente, prendere atto che non si possono giocare in politica tutti i ruoli possibili. Disinvoltamente e qualunquisticamente. Lo possono fare i populisti ma non certamente coloro che hanno una cultura politica, un profilo politico e una coerenza politica e culturale di fondo.
Ecco perché di fronte a questi atteggiamenti – come quelli, appunto, del capo dei 5 Stelle – abbiamo il dovere di reagire. Non si può regalare ad un partito populista e privo di qualsiasi identità la soluzione della “questione sociale” che è drammaticamente scoppiata nel nostro paese dopo la doppia emergenza sanitaria e bellica. Una “questione sociale” che è fatta di diseguaglianze sociali, di disoccupazione, di caduta a picco del ceto medio, di crescente povertà, di centinaia di migliaia di famiglie ai margini della nostra società e, anche e soprattutto, di depressione psicologica e di mancanza di stimoli e di fiducia di moltissime persone, in particolare di giovani, nel futuro. Insomma, una situazione esplosiva che si può incrociare con la sfiducia nelle istituzioni e con un crescente astensionismo elettorale determinando una crisi della democrazia e dei suoi istituti più rappresentativi. E con l’avvicinarsi del voto del 25 settembre la “questione sociale” non può non essere affrontata. E, soprattutto, da coloro che provengono da una tradizione politica e culturale che fa proprio dell’istanza sociale la molla che giustifica l’impegno politico ed istituzionale. E quindi la difesa, la promozione e la crescita dei ceti popolari nel nostro paese. Senza derive assistenzialistiche e senza le sirene populiste. Ma con l’arma della politica, degli istituti della democrazia e con una precisa e definita cultura politica.
Ora, al di là del trasformismo che anima e caratterizza il partito populista per eccellenza di cui Conte è l’esempio classico ed indiscutibile, non c’è alcun dubbio che ci troviamo di fronte all’ennesima piroetta da parte di un personaggio e di un partito che nella geografia politica italiana hanno già ricoperto tutti i ruoli. Dalla destra alla sinistra al centro, senza alcun problema e senza alcuna dignità anche perché, com’è ormai evidente a tutti, si tratta di un partito privo di qualsiasi identità e di qualsiasi cultura politica per cui tutti i ruoli sono possibili ed intercambiabili.
Ma di fronte ad operazioni così sfacciate e anche così ridicole, forse è arrivato anche il momento per alzare la voce da parte di tutti coloro che considerano il patrimonio del cattolicesimo sociale e politico non un luogo da saccheggiare da chicchessia ma una fonte da cui continuare a trarre ispirazione e insegnamento – possibilmente con una coerenza nel comportamento politico – anche e soprattutto per come affrontare la stagione contemporanea. E, all’interno di questo nobile e antico patrimonio, recuperare la lezione esercitata e declinata da leader politici e statisti come, ad esempio, quello svolto da uomini e donne come Carlo Donat-Cattin o Tina Anselmi. E quindi, tutti coloro che ricavano la loro ispirazione ideale e culturale dal filone del cattolicesimo sociale per giustificare il proprio impegno politico, non possono assistere passivamente di fronte a chi si appropria di un ruolo che semplicemente non gli appartiene. Non si tratta di non rispettare i repentini ed improvvisi cambiamenti politici di chi pratica con disinvoltura la prassi trasformistica ed opportunistica. Ma, molto più semplicemente, prendere atto che non si possono giocare in politica tutti i ruoli possibili. Disinvoltamente e qualunquisticamente. Lo possono fare i populisti ma non certamente coloro che hanno una cultura politica, un profilo politico e una coerenza politica e culturale di fondo.
Ecco perché di fronte a questi atteggiamenti – come quelli, appunto, del capo dei 5 Stelle – abbiamo il dovere di reagire. Non si può regalare ad un partito populista e privo di qualsiasi identità la soluzione della “questione sociale” che è drammaticamente scoppiata nel nostro paese dopo la doppia emergenza sanitaria e bellica. Una “questione sociale” che è fatta di diseguaglianze sociali, di disoccupazione, di caduta a picco del ceto medio, di crescente povertà, di centinaia di migliaia di famiglie ai margini della nostra società e, anche e soprattutto, di depressione psicologica e di mancanza di stimoli e di fiducia di moltissime persone, in particolare di giovani, nel futuro. Insomma, una situazione esplosiva che si può incrociare con la sfiducia nelle istituzioni e con un crescente astensionismo elettorale determinando una crisi della democrazia e dei suoi istituti più rappresentativi. E con l’avvicinarsi del voto del 25 settembre la “questione sociale” non può non essere affrontata. E, soprattutto, da coloro che provengono da una tradizione politica e culturale che fa proprio dell’istanza sociale la molla che giustifica l’impegno politico ed istituzionale. E quindi la difesa, la promozione e la crescita dei ceti popolari nel nostro paese. Senza derive assistenzialistiche e senza le sirene populiste. Ma con l’arma della politica, degli istituti della democrazia e con una precisa e definita cultura politica.
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