Il 4 maggio scorso, il Sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, nel corso di un incontro con le rappresentanze sindacali dei lavoratoti di GTT (Gruppo Torinese Trasporti, società in house del Comune), ha presentato l'idea che il Consiglio di amministrazione della stessa venga allargato da tre a cinque membri, includendovi anche una persona designata dalle rappresentanze dei lavoratori.
L'idea non sembra aver interessato la comunità civile e politica, se non i sindacati dei lavoratori, creando un acceso dibattito al loro interno. Semplificando, si può dire che la CISL ha accolto la proposta con interesse e favore, mentre CGIL e UIL hanno presentato perplessità, riconducendo queste all'assenza di una normativa specifica, rifacendosi all'art. 46 della Costituzione, che recita: «Ai fini dell'elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (parole che riproducono, come in molti altri casi, un'espressione di compromesso fra posizioni diverse presenti nell'Assemblea Costituente).
La proposta è stata ovviamente etichettata come un'iniziativa di ipotesi di cogestione alla tedesca o alla svedese, che prevedono la presenza di dipendenti negli organi di gestione tipo Consiglio d'indirizzo o di sorveglianza o Consiglio di amministrazione, non ricordando peraltro che recentemente la riforma del Terzo Settore ha previsto la possibilità che lo statuto delle imprese sociali, specie se di una certa dimensione, contempli la presenza negli organi di governo di lavoratori o di utenti dell'impresa stessa.
Per dare una risposta motivata alla questione si deve fare ricorso all'idea che si ha del lavoro, considerato nel suo significato per la persona e nel modo in cui esso si effettua. Il lavoro si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi – e neanche ovviamente il falso strumento partecipativo dato dalle cosiddette “associazioni in partecipazione”; contratto alla luce del quale i lavoratori sono “associati” all’impresa, fingendo di apportare capitale umano (anziché finanziario), ma non partecipando in alcun modo alla definizione dei processi decisionali d’impresa ordinari e strategici – ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.
Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita con una macchina.
Ma il lavoro dell’agente influisce anche sugli altri, sulla società; fra l’altro, quest’influire sugli altri è la causa di fondo che porta all’ottenimento di una contropartita, che è la remunerazione che il lavoratore percepisce da altri singoli soggetti o dalla società, cioè dagli organismi pubblici che istituzionalizzano quest’ultima. È allora assai rilevante che vi sia condivisione negli obiettivi che hanno il lavoratore e gli altri soggetti soggetti individuali o collettivi. Questi altri sono i diversi soggetti interni ed esterni all’ambiente di lavoro e la presenza dei soggetti interni porta all’esigenza imprescindibile di trasparenza, dialogo e condivisione e di creare e mantenere relazioni corrette con i diversi soggetti coinvolti nelle attività dell’unità produttiva, quindi tanto più quanto più partecipativo è l’ambiente di lavoro. La partecipazione stimola e promuove iniziativa, creatività, innovazione e un senso di responsabilità condivisa sicuramente superiori a quelli che permette di realizzare la semplice delega: fra l’altro, la delega conferisce una responsabilità o un potere di prendere decisioni precari (poiché la delega può essere ritirata in qualsiasi momento), il che non può non avere effetti di contenimento rispetto ai livelli d’impegno e di eccellenza attivabili con la partecipazione. La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa in cui lavorano è un punto importante anche per la piena partecipazione dei lavoratori nella comunità, come cittadini a pieno titolo, con tutti i diritti e i doveri.
La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa emerge chiaramente all'interno della Dottrina sociale della Chiesa che considera e sottolinea il lavoro quale elemento essenziale per la dignità e la realizzazione della persona. INSIEME sposa completamente questa visione e, in una recente petizione che indica 20 azioni per risollevare le condizioni del lavoro all'interno della comunità, e quindi anche delle imprese, fra le quali comprende quella di adottare «un modello partecipativo che inserisca i lavoratori nella gestione compartecipata della comunità produttiva che si chiama impresa».
Rimane la questione dell'assenza di una normativa nazionale (o regionale?) che regolamenti la partecipazione dei lavoratori alle gestione delle imprese. Quest'assenza non deve tarpare le ali a una riorganizzazione delle imprese di così ampia e positiva portata. D'altra parte, a partire dal cosiddetto “Patto della fabbrica” fra Confindustria, CGIL, CISL, UIL del 9 marzo 2018 – avente quale focus la crescita del Paese e il miglioramento della competitività attraverso l'incremento della produttività delle imprese, comprendendo linee d'intervento riguardanti diversi temi, fra i quali la partecipazione dei lavoratori, giustificata però nei predetti termini quantitativi e non in termini di dignità e piena realizzazione della persona dei lavoratori – non sono mancati altri accordi, come quello fra Assolombarda, CGIL, CISL, UIL dell'Area Metropolitana di Milano del 4 ottobre 2019 e diverse proposte di legge sulla partecipazione azionaria e/o gestionale dei lavoratori.
In assenza di uno specifico divieto a istituire la partecipazione dei lavoratori al capitale e/o alle gestione delle imprese, che cosa impedisce un'esperimentazione in questo campo? Forse – come si dice, in modo qualunquistico – la “volontà politica”? A Torino, pare che, almeno nel caso riportato all'inizio di quest'articolo, in parte la si possa trovare.
L'idea non sembra aver interessato la comunità civile e politica, se non i sindacati dei lavoratori, creando un acceso dibattito al loro interno. Semplificando, si può dire che la CISL ha accolto la proposta con interesse e favore, mentre CGIL e UIL hanno presentato perplessità, riconducendo queste all'assenza di una normativa specifica, rifacendosi all'art. 46 della Costituzione, che recita: «Ai fini dell'elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (parole che riproducono, come in molti altri casi, un'espressione di compromesso fra posizioni diverse presenti nell'Assemblea Costituente).
La proposta è stata ovviamente etichettata come un'iniziativa di ipotesi di cogestione alla tedesca o alla svedese, che prevedono la presenza di dipendenti negli organi di gestione tipo Consiglio d'indirizzo o di sorveglianza o Consiglio di amministrazione, non ricordando peraltro che recentemente la riforma del Terzo Settore ha previsto la possibilità che lo statuto delle imprese sociali, specie se di una certa dimensione, contempli la presenza negli organi di governo di lavoratori o di utenti dell'impresa stessa.
Per dare una risposta motivata alla questione si deve fare ricorso all'idea che si ha del lavoro, considerato nel suo significato per la persona e nel modo in cui esso si effettua. Il lavoro si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi – e neanche ovviamente il falso strumento partecipativo dato dalle cosiddette “associazioni in partecipazione”; contratto alla luce del quale i lavoratori sono “associati” all’impresa, fingendo di apportare capitale umano (anziché finanziario), ma non partecipando in alcun modo alla definizione dei processi decisionali d’impresa ordinari e strategici – ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.
Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita con una macchina.
Ma il lavoro dell’agente influisce anche sugli altri, sulla società; fra l’altro, quest’influire sugli altri è la causa di fondo che porta all’ottenimento di una contropartita, che è la remunerazione che il lavoratore percepisce da altri singoli soggetti o dalla società, cioè dagli organismi pubblici che istituzionalizzano quest’ultima. È allora assai rilevante che vi sia condivisione negli obiettivi che hanno il lavoratore e gli altri soggetti soggetti individuali o collettivi. Questi altri sono i diversi soggetti interni ed esterni all’ambiente di lavoro e la presenza dei soggetti interni porta all’esigenza imprescindibile di trasparenza, dialogo e condivisione e di creare e mantenere relazioni corrette con i diversi soggetti coinvolti nelle attività dell’unità produttiva, quindi tanto più quanto più partecipativo è l’ambiente di lavoro. La partecipazione stimola e promuove iniziativa, creatività, innovazione e un senso di responsabilità condivisa sicuramente superiori a quelli che permette di realizzare la semplice delega: fra l’altro, la delega conferisce una responsabilità o un potere di prendere decisioni precari (poiché la delega può essere ritirata in qualsiasi momento), il che non può non avere effetti di contenimento rispetto ai livelli d’impegno e di eccellenza attivabili con la partecipazione. La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa in cui lavorano è un punto importante anche per la piena partecipazione dei lavoratori nella comunità, come cittadini a pieno titolo, con tutti i diritti e i doveri.
La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa emerge chiaramente all'interno della Dottrina sociale della Chiesa che considera e sottolinea il lavoro quale elemento essenziale per la dignità e la realizzazione della persona. INSIEME sposa completamente questa visione e, in una recente petizione che indica 20 azioni per risollevare le condizioni del lavoro all'interno della comunità, e quindi anche delle imprese, fra le quali comprende quella di adottare «un modello partecipativo che inserisca i lavoratori nella gestione compartecipata della comunità produttiva che si chiama impresa».
Rimane la questione dell'assenza di una normativa nazionale (o regionale?) che regolamenti la partecipazione dei lavoratori alle gestione delle imprese. Quest'assenza non deve tarpare le ali a una riorganizzazione delle imprese di così ampia e positiva portata. D'altra parte, a partire dal cosiddetto “Patto della fabbrica” fra Confindustria, CGIL, CISL, UIL del 9 marzo 2018 – avente quale focus la crescita del Paese e il miglioramento della competitività attraverso l'incremento della produttività delle imprese, comprendendo linee d'intervento riguardanti diversi temi, fra i quali la partecipazione dei lavoratori, giustificata però nei predetti termini quantitativi e non in termini di dignità e piena realizzazione della persona dei lavoratori – non sono mancati altri accordi, come quello fra Assolombarda, CGIL, CISL, UIL dell'Area Metropolitana di Milano del 4 ottobre 2019 e diverse proposte di legge sulla partecipazione azionaria e/o gestionale dei lavoratori.
In assenza di uno specifico divieto a istituire la partecipazione dei lavoratori al capitale e/o alle gestione delle imprese, che cosa impedisce un'esperimentazione in questo campo? Forse – come si dice, in modo qualunquistico – la “volontà politica”? A Torino, pare che, almeno nel caso riportato all'inizio di quest'articolo, in parte la si possa trovare.
Daniele, eccellente il tuo articolo, rappresenta un passaggio culturale ed imprenditoriale per il futuro prossimo, Insieme deve proporlo al Governo con questi commenti.
Riporto un mio esempio: in passato, tra 1978-1981, come membro dell’Intesa Quadri dell’Azienda petrolchimica di cui facevo parte, proposi con coraggio e determinazione di istituire la partecipazione dei lavoratori al capitale e alle gestione dell’Azienda, dimostrando praticamente che un Impianto allora in perdita ed in via di dismissione, se opportunamente ristrutturato anche nel processo, con i suggerimenti forniti dai lavoratori addetti avrebbe fornito reddito. Fu un successo straordinario, quel comparto successivamente ampliato e potenziato, produce ancora resina eccellente per realizzare il famoso tessuto “alcantara”, che tutti conosciamo. Non bastano i suggerimenti, occorre soprattutto la forza per farli accettare e metterli in pratica. Per la nascita di nuovi posti di lavoro, annoto di seguito una mia Proposta di partenariato per lo sviluppo dell’Italia. Le Istituzioni, con il supporto UE, del Ministero dell’Istruzione, Ricerca e di Confindustria, potrebbero realizzare Centri di Ricerche Integrati “early construction”, si intendono edifici modulari componibili completamente arredati. Un impegno concreto, per suggerire percorsi intelligenti e avviare iniziative virtuose per la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro, mettendo in gioco la credibilità e la competenza di ciascuno. Da diversi anni studio sistemi per attenuare la profonda crisi occupazionale, a tal proposito ho scritto un secondo libro “Esempi e proposte per creare Industria 4.0 e 5.0, e nuove professioni” (sono in attesa che un editore che me lo pubblichi a costo zero). Sostenuto dall’incoraggiamento di persone socialmente impegnate, si vorrebbe coinvolgere il MIUR, per la nascita di CRTT da realizzare, su tutto il territorio nazionale, in aree baricentriche nei siti facilmente raggiungibili dai mezzi pubblici.
Questa proposta si identifica come un’iniziativa conforme al “recovery fund” per attenuare la disoccupazione e con l’obiettivo di far rientrare in Italia i nostri ragazzi fuggiti all’estero, in cerca di lavoro! Con il supporto degli Atenei e dei soggetti costituenti suddetti, emergerà la fattibilità del presente modello, per la verifica di idoneità per lo scopo a cui è destinato.
Istituti aperti ad alleanze con altre Università italiane e Paesi stranieri, per progettare, realizzare e vendere prototipi dotati d’intelligenza artificiale, scientificamente avanzati, con zero imbatto ambientale e ad altissima efficienza, essenzialmente per tecnologie non mature e che hanno bisogno di ricerca e progettazione per costruzione.
Per rendere proficua questa iniziativa, serve attivare la formazione per le nuove professioni, con due proposte:
1) Formazione di nuove figure professionali
a) cominciare subito a pensare a forme alternative di organizzazione del tempo lavorativo,
tempo libero, tempo dedicato a attività sociali, prevedendo forme integrative al reddito da lavoro nei settori a tecnologia avanzata, come l’ industria 4.0
b) la formazione professionale dopo il diploma superiore finanziata con fondi europei e dalle Regioni.
c) Un maggior coinvolgimento delle rappresentanze industriali e dei centri di ricerca per la progettazione e degli interventi formativi e un maggior ruolo pubblico nell’orientamento strategico, verso nuove figure professionali.
2) industria, start-up e innovazione.
I “Poli Tecnologici” svolgono per lo più un ruolo di “gestori” mentre potrebbero diventare l’interfaccia tra start-up e mercato.
Le start-up in molti casi si fondano su progetti industriali fragili che spesso non sono meritevoli, ma promuovere quei collegamenti con ricerca di buona qualità. In questi casi dare maggior peso ai partner industriali, con tutoraggio tra aziende e ambienti di ricerca, nei confronti delle nuove iniziative, potrebbero risultare vincenti. Ecco alcuni esempi:
a) ricerca applicata per realizzare serre robotizzate, possibilmente attraverso alleanze con altri costruttori. In modo da produrre e vendere anche all’estero frutta ed ortaggi a prezzi competitivi, col supporto dell’agrivoltaico.
b) ricerca applicata tra Università, CNR ed ENI Univerity, si potrebbe approntare uno studio di fattibilità, per un progetto “recovery fund” finalizzato alla creazione in tempi rapidi, di un partenariato, per la rinascita dei territori con sensibile disoccupazione.
c) aprire contatti istituzionali concreti e proficui con i Politecnici di Milano e Torino,
d) stabilire collegamenti virtuosi “nord–sud” con l’obiettivo di favorire opportunità di lavoro per i giovani, rivolte alle Nuove Tecnologie con l’apertura di un Osservatorio ICT, per far uscire dall’anonimato i territori degradati favorendo la nascita di imprese 4.0 ed iniziative equivalenti nei settori: energetici, agritech, spaziale, della robotica educativa / collaborativa, ecc.
3) PA ed efficienza, tra modelli organizzativi e pratiche normative.
In Italia, esistono molti Centri Informatici che fanno le stesse cose che sono pagati tante volte, nel qual caso evitare la confusione di sistemi organizzativi ripetitivi Il modello “Friburgo” rappresenta un esempio e uno stimolo per un soggetto più funzionale; unendo le forze migliori si può realizzare l’appello ai giovani, che Mario Draghi, lanciò al meeting di Rimini 2020.
Per non perdere i fondi europei serve un ripensamento radicale della macchina statale, Inserire corsi di formazione per specialisti abilitati alla ricerca dei Bandi Europei propedeutici alla gestione degli stessi. Queste premesse, ma con maggiori dettagli di fattibilità, saranno comprese ed evidenziate nei Piani:
a) Economico e b) Progetto, essi dovranno essere redatti conformemente ai requisiti UE. Prima di agire in tal senso, gli aderenti al Partenariato sottoscriveranno un documento da cui emergerà l’adesione e la volontà di tutti per la buona riuscita dell’iniziativa.
Tra 30 anni saremo 9 miliardi, con individui che aspirano ad omologarsi allo stile di vita dei Paesi più ricchi, serviranno due miliardi di nuovi posti di lavoro, tenendo conto che le riserve disponibili si andranno esaurendo, in primis l’acqua dolce, non trascurando incendi, alluvioni e terremoti.
E’ il territorio che crea occupazione e benessere! (Adriano Olivetti)
Centri di Ricerche Integrati Early constructuion, si intendono edifici con scheletrato in acciaio modulari componibili completamente arredati. Esempi sono offerti da, produttori di moduli per il noleggio di strutture prefabbricate in tutta Italia, attraverso i propri stabilimenti con assistenza e manutenzione entro le 24 h dalla chiamata. Ogni sede ha a disposizione auto e furgoni attrezzati usati per l’assistenza e la manutenzione delle strutture a noleggio. Possono progettare i moduli in base alle esigenze del Centro desiderato, con la massima personalizzazione, sia dal punto di vista estetico che funzionale. Con il noleggio di strutture prefabbricate, la Pubblica Amministrazione può far fronte in tempi brevissimi alle emergenze, con un risultato ottimale per creare posti di lavoro per giovani disoccupati. Grazie alla versatilità dei moduli studiati ed ottimizzati, è possibile configurare laboratori o strutture complesse con servizi e adatte ad ogni tipo di esigenza.
Creando un Partenariato con le Università e gli Imprenditori privati. Si tratta di un modello adatto ad ogni Regione d’Italia essi possono essere ubicati in tutti i Capoluoghi di Provincia, ciascuno con uno specifico denominatore ed indirizzo tecnologico, specifico di quel territorio,