La presentazione annuale del Rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) da parte dell’Istat, come ricordato efficacemente dal Presidente dell’Istituto Giancarlo Blangiardo nella introduzione, rappresenta “un ritratto dello stato del Paese attraverso la lente del benessere dei cittadini”, quale obiettivo finale delle politiche.
Per lo scopo l’Istat utilizza 153 indicatori, raggruppati in 12 aree tematiche (salute, istruzione, lavoro, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione ricerca e creatività e qualità dei servizi) elaborati in vari ambiti internazionali, a partire dall’Ocse.
Il IX rapporto 2021, presentato l’altro ieri, si propone di offrire una lettura dei cambiamenti intervenuti nel corso della pandemia, con specifici raffronti con le condizioni preesistenti (anno 2019) e valutate per fasce di età, di genere, di titolo di studio e di collocazione territoriale. Il rapporto offre una lettura d’insieme del complesso delle indagini periodiche sviluppate dall’Istat in ogni specifico ambito.
Alcuni impatti, in particolare quelli relativi alla salute, all’accesso ai servizi, alla condizione occupazionale e all’andamento del reddito devono essere ponderati in relazione alle peculiari caratteristiche della crisi pandemica. In questo senso, la riduzione delle aspettative di vita, di circa 1,2 anni, l’aumento delle difficoltà per l’accesso ai servizi collettivi pubblici e privati, e una parte significativa delle perdite occupazionali e dei redditi possono essere interpretate nella qualità di fenomeni provvisori destinati in buona parte a essere ridimensionati con la ripresa delle attività economiche. Una considerazione che può valere anche per i miglioramenti ottenuti nelle emissioni inquinanti, legati alle fermate delle attività produttive, e degli indici di sicurezza individuali, in particolare la riduzione dei furti, dal 10,4% al 7,1% per via dell’aumento delle presenze nelle abitazioni. Ma l’esperienza storica insegna che l’impatto, anche psicologico, di questi cambiamenti, vedi ad esempio le contrattazioni dei livelli di natalità, ovvero l’aumento delle disuguaglianze tra gruppi sociali e territori, possono avere conseguenze di medio e lungo periodo.
Ed è su questi aspetti che si è particolarmente soffermato nella sua introduzione il Presidente dell’Istat sottolineando come le conseguenze della crisi pandemica abbiano prodotto un impatto psicologico e comportamentale negativo soprattutto per le giovani generazioni under 25, in termini di qualità dei percorsi di studio, di abbassamento dei livelli di partecipazione attiva nel mercato del lavoro e nella comunità. Il deterioramento della qualità delle relazioni sociali si riflette in generale sul grado di soddisfazione della propria vita e in un preoccupante raddoppio, da 3,3% al 6,2%, dei giovani che si dichiarano completamente insoddisfatti. Significativo il fatto che tutto ciò si manifesti in controtendenza con gli andamenti rilevati per il complesso della popolazione che segnalano una forte ripresa della partecipazione alla vita civile, alle attività di volontariato (aumentata dal 57,9% al 64,9%), una generale rivalutazione dell’importanza delle relazioni sociali e un miglioramento del grado di fiducia nelle Istituzioni.
Nell’insieme, il peggioramento di quasi tutti gli indicatori economici, del mercato del lavoro, nell’accesso ai servizi e di rilevazione della qualità della vita, tendono ad assumere valori più consistenti nei territori del Mezzogiorno. Un deterioramento che prosegue anche nel 2021, in coincidenza della ripresa delle attività produttive che ha favorito un più rapido recupero dei livelli economici e di reddito precedenti la pandemia nelle aree del Nord e del Centro Italia.
Il tasso di occupazione delle persone tra i 20 e i 64 anni di età (62,7%) rimane al di sotto di quello del 2019 (63,5%) e si mantiene elevata la quota delle persone inattive. Queste ultime comprendono anche una buona parte dei 3 milioni di giovani under 35 che non studiano e non lavoro.
Gli indicatori relativi al benessere economico delle famiglie segnalano un significativo aumento, dal 25,8% al 30,6% sul totale, di quelle che hanno visto peggiorare le proprie condizioni economiche, e della quota delle persone in condizioni di povertà assoluta dal 7,7% al 9,4% (12,1% nel Mezzogiorno).
La valutazione dell’efficacia delle politiche economiche adottate nel corso della crisi Covid mobilitando una mole che non ha precedenti di sostegni alle imprese, ai lavoratori e alle famiglie, alla luce delle tendenze evidenziate nel IX rapporto Bes/Istat, presenta un quadro di luci e di ombre. Le luci vengono rappresentate dallo straordinario livello di resilienza e di capacità di ripresa di una parte significativa della nostra Comunità nazionale, tale da smentire molte delle previsioni relative alla mole di chiusura delle imprese e dei lavoratori che rischiavano di essere dismessi a valle del blocco dei licenziamenti. La crisi ha portato a riscoprire il valore delle relazioni sociali, e persino a rivalutare il ruolo delle Istituzioni pubbliche. L’efficacia delle politiche redistributive è risultata carente in molti ambiti, frutto della mancanza di analisi e di strumenti adeguati per contrastare la povertà e dell’improvvisazione degli interventi nel corso dell’emergenza Covid. Resta il fatto che si è registrata una significativa analogia tra il volume delle risorse erogate dallo Stato, oltre 200 miliardi di euro, e gli incrementi dei valori dei risparmi depositati nei conti correnti delle imprese e delle famiglie.
L’attenzione viene portata in particolare, sulla gravità del mancato ricambio generazionale e di genere nel mercato del lavoro, e della carenza delle energie finanziarie e sociali che dovrebbero essere dedicate per lo scopo. Una criticità che rischia di mettere in crisi l’intero impianto delle nostre politiche economiche. È sempre il Presidente dell’Istat ad affermare che “la centralità delle politiche per il benessere dei giovani coincide con quella del benessere generale del Paese”. Un monito per la nostra classe dirigente che deve essere preso in seria considerazione.
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
Per lo scopo l’Istat utilizza 153 indicatori, raggruppati in 12 aree tematiche (salute, istruzione, lavoro, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione ricerca e creatività e qualità dei servizi) elaborati in vari ambiti internazionali, a partire dall’Ocse.
Il IX rapporto 2021, presentato l’altro ieri, si propone di offrire una lettura dei cambiamenti intervenuti nel corso della pandemia, con specifici raffronti con le condizioni preesistenti (anno 2019) e valutate per fasce di età, di genere, di titolo di studio e di collocazione territoriale. Il rapporto offre una lettura d’insieme del complesso delle indagini periodiche sviluppate dall’Istat in ogni specifico ambito.
Alcuni impatti, in particolare quelli relativi alla salute, all’accesso ai servizi, alla condizione occupazionale e all’andamento del reddito devono essere ponderati in relazione alle peculiari caratteristiche della crisi pandemica. In questo senso, la riduzione delle aspettative di vita, di circa 1,2 anni, l’aumento delle difficoltà per l’accesso ai servizi collettivi pubblici e privati, e una parte significativa delle perdite occupazionali e dei redditi possono essere interpretate nella qualità di fenomeni provvisori destinati in buona parte a essere ridimensionati con la ripresa delle attività economiche. Una considerazione che può valere anche per i miglioramenti ottenuti nelle emissioni inquinanti, legati alle fermate delle attività produttive, e degli indici di sicurezza individuali, in particolare la riduzione dei furti, dal 10,4% al 7,1% per via dell’aumento delle presenze nelle abitazioni. Ma l’esperienza storica insegna che l’impatto, anche psicologico, di questi cambiamenti, vedi ad esempio le contrattazioni dei livelli di natalità, ovvero l’aumento delle disuguaglianze tra gruppi sociali e territori, possono avere conseguenze di medio e lungo periodo.
Ed è su questi aspetti che si è particolarmente soffermato nella sua introduzione il Presidente dell’Istat sottolineando come le conseguenze della crisi pandemica abbiano prodotto un impatto psicologico e comportamentale negativo soprattutto per le giovani generazioni under 25, in termini di qualità dei percorsi di studio, di abbassamento dei livelli di partecipazione attiva nel mercato del lavoro e nella comunità. Il deterioramento della qualità delle relazioni sociali si riflette in generale sul grado di soddisfazione della propria vita e in un preoccupante raddoppio, da 3,3% al 6,2%, dei giovani che si dichiarano completamente insoddisfatti. Significativo il fatto che tutto ciò si manifesti in controtendenza con gli andamenti rilevati per il complesso della popolazione che segnalano una forte ripresa della partecipazione alla vita civile, alle attività di volontariato (aumentata dal 57,9% al 64,9%), una generale rivalutazione dell’importanza delle relazioni sociali e un miglioramento del grado di fiducia nelle Istituzioni.
Nell’insieme, il peggioramento di quasi tutti gli indicatori economici, del mercato del lavoro, nell’accesso ai servizi e di rilevazione della qualità della vita, tendono ad assumere valori più consistenti nei territori del Mezzogiorno. Un deterioramento che prosegue anche nel 2021, in coincidenza della ripresa delle attività produttive che ha favorito un più rapido recupero dei livelli economici e di reddito precedenti la pandemia nelle aree del Nord e del Centro Italia.
Il tasso di occupazione delle persone tra i 20 e i 64 anni di età (62,7%) rimane al di sotto di quello del 2019 (63,5%) e si mantiene elevata la quota delle persone inattive. Queste ultime comprendono anche una buona parte dei 3 milioni di giovani under 35 che non studiano e non lavoro.
Gli indicatori relativi al benessere economico delle famiglie segnalano un significativo aumento, dal 25,8% al 30,6% sul totale, di quelle che hanno visto peggiorare le proprie condizioni economiche, e della quota delle persone in condizioni di povertà assoluta dal 7,7% al 9,4% (12,1% nel Mezzogiorno).
La valutazione dell’efficacia delle politiche economiche adottate nel corso della crisi Covid mobilitando una mole che non ha precedenti di sostegni alle imprese, ai lavoratori e alle famiglie, alla luce delle tendenze evidenziate nel IX rapporto Bes/Istat, presenta un quadro di luci e di ombre. Le luci vengono rappresentate dallo straordinario livello di resilienza e di capacità di ripresa di una parte significativa della nostra Comunità nazionale, tale da smentire molte delle previsioni relative alla mole di chiusura delle imprese e dei lavoratori che rischiavano di essere dismessi a valle del blocco dei licenziamenti. La crisi ha portato a riscoprire il valore delle relazioni sociali, e persino a rivalutare il ruolo delle Istituzioni pubbliche. L’efficacia delle politiche redistributive è risultata carente in molti ambiti, frutto della mancanza di analisi e di strumenti adeguati per contrastare la povertà e dell’improvvisazione degli interventi nel corso dell’emergenza Covid. Resta il fatto che si è registrata una significativa analogia tra il volume delle risorse erogate dallo Stato, oltre 200 miliardi di euro, e gli incrementi dei valori dei risparmi depositati nei conti correnti delle imprese e delle famiglie.
L’attenzione viene portata in particolare, sulla gravità del mancato ricambio generazionale e di genere nel mercato del lavoro, e della carenza delle energie finanziarie e sociali che dovrebbero essere dedicate per lo scopo. Una criticità che rischia di mettere in crisi l’intero impianto delle nostre politiche economiche. È sempre il Presidente dell’Istat ad affermare che “la centralità delle politiche per il benessere dei giovani coincide con quella del benessere generale del Paese”. Un monito per la nostra classe dirigente che deve essere preso in seria considerazione.
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
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