Fuori luogo l’euforia guerrafondaia



Luca Reteuna    15 Aprile 2022       0

Vorrei portare la mia testimonianza sull’interrogativo straziante del momento: come possiamo far tornare la pace in Ucraina?

Si vis pacem para bellum dicevano i romani, ma, dopo quasi tremila anni dalla nascita di Roma, si pratica all’incirca la stessa politica.

Una premessa doverosa: la mia famiglia, da metà Ottocento agli Anni Cinquanta, ha servito l’Italia in armi, mio nonno Augusto Reteuna, insieme con altri ufficiali, dopo l’8 settembre 1943 organizzò le prime formazioni partigiane in Piemonte e, quindi, condivido “geneticamente” i valori di Patria, Resistenza, difesa dall’invasore.

Casualmente, uno dei porta-ordini del mio avo, quando comandava il 6° Alpini in Grecia, era Mario Rigoni Stern e direttamente da lui (volontario e proveniente dalle forze speciali dell’epoca), oltre che dalle pagine del suo Quota Albania, ebbi modo di conoscere lo schifo delle battaglie, che non sono MAI la gloria travolgente degli enormi quadri napoleonici di Jacques-Louis David e colleghi al Louvre, ma piuttosto l’orrore grottesco di certe scene del film sulla guerra civile americana Ritorno a Cold Mountain.

Mio padre, che aiutava mio nonno, senza sparare, nella sua attività di comandante militare del CLN di Mondovì, fin da bambino mi ha instillato l’avversione per la guerra civile, il punto più basso dei conflitti umani, molto vicino a quanto succede in Ucraina, dove è nato il concetto di Russia.

Il cugino primo di mia madre era Silvio Lega, vittima quasi esattamente un anno fa del Covid.

Quando, nel 1976, la questura di Torino, avendo trovato il suo nome in un covo brigatista, gli mandò immediatamente una volante a casa per proteggerlo, accolse i poliziotti, offrì loro il caffè e disse: “Grazie, ma non dovete rischiare la vita per me”. Da quel giorno incominciò a seguire con più attenzione le misure di sicurezza, che gli spiegava l’autista della Segreteria provinciale, ex partigiano. E, in quegli anni bui, se qualche amico di partito si presentava con la pistola nel borsello, lo faceva ritornare disarmato.

Come ha ricordato giustamente Bersani ospite da Floris, il cardinal Martini, nella Quaresima del 2003, diceva da Gerusalemme: “Bisogna essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui si avrebbe pure diritto. Non basta dunque invocare la pace: bisogna essere disposti a sacrificare anche qualcosa di proprio per questo grande bene, e non solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione”.

Le armi che i parlamentari italiani, incluso Bersani, hanno dato agli ucraini per non essere sopraffatti devono servire, come ha dichiarato in trasmissione, per arrivare al negoziato: ricordiamoci che ogni volta che un missile anticarro colpisce un tank russo, che magari ha appena colpito un’abitazione civile, noi facciamo morire bruciati vivi i suoi occupanti.

Chiudiamo gli occhi per un attimo: non vedremo più le scene da videogioco, ma possiamo immaginare l’odore terribile, che invade i nostri polmoni.

E allora certa euforia guerrafondaia, come quella espressa da Tabacci, nello stesso programma, mi sembra un po’ fuori luogo, soprattutto se esce dalla bocca di un cattolico.


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