Le divisioni strategiche dell’Occidente



Giuseppe Davicino    7 Marzo 2022       1

“La guerra è destinata a cambiare tutto”, ci dice Giorgio Merlo che indica i termini imprescindibili del dibattito politico per questa fase che si è aperta con la deplorevole invasione russa dell’Ucraina. E solleva, a mio avviso, due enormi questioni. Una è cosa significhi questa nuova convergenza dei partiti sulla politica estera. L’altra è come potrà realizzarsi in tale contesto l’auspicato ritorno alla politica.

L’omogeneità di posizione dei partiti su questa guerra è un dato di fatto, sia che scaturisca da una visione approfondita della situazione internazionale, sia che provenga da un loro eventuale deficit di capacità politica. Quello che invece appare molto meno certo è quanto questa unità, riflessa nel panorama politico italiano, possa mantenersi a lungo, in Italia come nel resto del blocco occidentale. La causa di tale incertezza credo abbia essenzialmente due ragioni. L’Occidente appare diviso sia dal punto di vista geopolitico, sia da quello progettuale-strategico.

Sotto il profilo geopolitico in questo momento per l’Europa “core” si sta mettendo malissimo. Il forte rincaro delle materie prime, i danni economici e commerciali che la guerra sta causando, sono benzina sul fuoco dell’inflazione che già divampava prima. E crea scenari di stagflazione dagli esiti sociali e dalle ripercussioni istituzionali imprevedibili. Dal suo canto invece la componente angloamericana ha già vinto. Per quanto possa apparire cinica questa considerazione, purtroppo dal punto di vista geopolitico appare fondata. Il solo fatto che tra il cuore dell’Europa e la Russia si sia incuneato un conflitto, finisce per produrre un effetto di “rassicurazione” per gli Stati Uniti rispetto al loro incubo storicamente più grande: la possibilità di una saldatura fra l’impero centrale europeo e la Russia, che creerebbe un antagonista di pari o superiore livello nella contesa per la leadership mondiale. Inoltre, le sanzioni comminate alla Russia danneggiano quasi esclusivamente i Paesi europei maggiori partner commerciali della Russia, Germania e Italia per prime. E anche questo non può fare troppo dispiacere oltreoceano.

L’altra grossa incognita che incombe sull’unità dell’Occidente è di natura strategica. In esso, dopo la fine dell’Unione Sovietica, sembrano coesistere due progetti che dividono trasversalmente le sue classi dirigenti. Un progetto “realista”, che punta a mantenere la supremazia americana adattandola ai nuovi equilibri che emergono nel mondo, conservando il primato militare, quello finanziario e il controllo del mercato dell’energia. L’altro progetto strategico interno all’Occidente è quello dell’élite globalista che, forte della ricchezza inaudita accumulata con la globalizzazione e con un livello di speculazione finanziaria che non ha precedenti nella storia, si considera e agisce ormai come il nucleo di un governo mondiale degli ultraricchi al di sopra e dietro gli organismi politici nazionali e sovranazionali, che mira a imporre una propria agenda al mondo intero. A seconda di quale visione prevarrà in questi mesi cruciali la guerra in Ucraina potrà trovare una soluzione diplomatica in tempi brevi o condurre a un conflitto su più larga scala.

Dunque, con questi chiari di luna appare giustificato chiedersi quanto durerà l’unità della politica italiana intorno alla politica estera. Con previsioni di carenza di energia e di cibo, di redditi falcidiati da un’inflazione avviata nel 2022 a raggiungere le due cifre e con previsioni di aziende che collassano per i costi dei materiali, è da mettere nel conto un logoramento di questa unità per fronteggiare uno scontento sociale che rischia di rendersi non più contenibile.

Allo stesso tempo la questione di quale senso dare al ritorno alla politica potrebbe assumere un duplice significato a seconda degli sviluppi.

Da un lato potrebbe voler significare correggere i limiti e gli errori di questi anni, riprendere il primato della politica sull’economia, ricondurre le banche centrali sotto il controllo dei governi, ridare centralità al lavoro rispetto alla finanza, ecc.

E dall’altro lato, soprattutto nel caso dovessero prevalere le forze che per salvare il loro progetto globale di azzeramento e di rimodellamento economico, istituzionale e antropologico non si fermassero neanche davanti al rischio di guerra mondiale, allora il ritorno alla politica credo che non potrebbe che assumere i connotati di una elaborazione politica sul modello di società da ricostruire per dopo. In modo simile a quanto fecero i cattolici democratici mentre imperversava la Seconda guerra mondiale.

Il ritorno alla politica ai nostri giorni potrebbe voler dire soprattutto recuperare lo spirito e la capacità di visione del Codice di Camaldoli, in modo da farci trovare pronti per il tempo della ricostruzione senza ripetere gli errori che stanno di nuovo portando l’Europa e il mondo sull’orlo del baratro.


1 Commento

  1. Condivido le considerazioni di Davicino, con l’aggiunta che il ritorno della politica dovrebbe anche e soprattutto contenere la definitiva realizzazione della Federazione Europea (con larghe autonomie nazionali e superamento degli Stati attuali di tipo ottocentesco). La visione del Codice di Camaldoli, la politica di pace e cooperazione internazionale, un welfare solidale, i diritti sociali, lo smantellamento degli arsenali, dovrebbero essere il minimo sindacale di una politica che metta in crisi sia il progetto che Davicino definisce “realista” sia quello “delle élite globaliste”

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