Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, appena rieletto per il secondo mandato, ha giurato dinanzi al Parlamento in seduta comune. Tutto è bene quello che finisce bene. Dopo la settimana di autentica follia che ha pervaso la nostra politica, dobbiamo esser grati al Capo dello Stato per il senso di responsabilità che sempre lo contraddistingue e che lo ha reso disponibile ad affrontare un nuovo gravoso impegno.
La sua riconferma rappresenta un provvidenziale attimo di resipiscenza dei diversi leader politici che hanno finito per assecondare il voto che, uno scrutinio dopo l'altro, proveniva dai parlamentari: i cosiddetti “peones”. In pratica è un po' la loro vittoria. Quella degli eletti di seconda e terza fila, semisconosciuti ai più, rispetto alle leadership dei rispettivi partiti mai così insipienti. Il Parlamento dei “nominati” - che speriamo veder presto rimpiazzato da quello di rappresentanti eletti in virtù delle preferenze dei cittadini - ha avuto un inatteso soprassalto di dignità che ha obbligato capi e capetti a rivolgersi nuovamente a Mattarella.
Va detto a chiare lettere che non si tratta di una riconferma a termine, cosa che sarebbe ovviamente del tutto incostituzionale. Siamo, come è logico, di fronte ad un mandato pieno che si dispiegherà su tre diverse legislature: quella attuale che sta finendo, quella che inizierà il prossimo anno con le elezioni politiche e quella che vedrà la luce cinque anni dopo.
Di certo c'è bisogno di un complessivo riassetto del nostro sistema politico. Se ne è parlato anche in questi giorni di confusione, quando prima la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, e poi quello di Italia Viva, Matteo Renzi, hanno evocato l'ipotesi dell'elezione diretta del Capo dello Stato.
Intendiamoci, dopo il tira e molla su nomi improbabili, tra cui è spuntato addirittura fuori quello della responsabile dei servizi segreti, nulla sembra esser peggio dell'attuale metodo di elezione e il suffragio universale finisce per profilarsi come un autentico toccasana. Meglio di questo incredibile guazzabuglio fatto di reciproci veti, di cortine fumogene e di calcoli mal riusciti.
Eppure si deve stare attenti a non cedere a questa suggestione. Non che l'elezione diretta sia qualcosa di assolutamente negativo: in fondo può sembrare ragionevole concedere al popolo l'elezione del Capo dello Stato e diverse democrazie, Francia e Stati Uniti in testa, applicano con soddisfazione questo metodo.
Il fatto è che - come ha ricordato con buon tempismo il neo presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato - i sistemi politici sono come degli orologi e l'introduzione di un elemento estraneo, rischia di squilibrarne il complessivo funzionamento. Aggiungere l'elezione diretta del Presidente della Repubblica cambierebbe la natura parlamentare del nostro sistema e allora, piuttosto che imbarcarsi in riforme epocali, creando più problemi di quanti se ne contribuisce a risolvere, meglio fare qualche utile correttivo rimanendo nel solco parlamentare.
L'intervento più urgente ci sembra quello sulla legge elettorale, tornando ad un sistema interamente proporzionale. Per farlo basta correggere l'attuale Rosatellum eliminando i collegi uninominali che costringono, pur di battere lo schieramento avverso, ad alleanze spesso forzate e poi, alla resa dei conti, incapaci di governare in modo efficace.
Un modello proporzionale con soglia di sbarramento al 4-5 per cento può invece consentire innanzi tutto di consegnarci un Parlamento dotato di adeguata rappresentatività, senza le distorsioni del maggioritario e senza una deleteria frammentazione. Il tutto andrebbe accompagnato da circoscrizioni che eleggano non più di sette-otto parlamentari, dal divieto di candidature plurime dei leader in più circoscrizioni e da norme che impediscano il passaggio degli eletti da un partito ad un altro.
Sappiamo bene che il proporzionale avvantaggia la rappresentatività mettendo però a rischio la stabilità dei governi. Siccome nessuno può avere nostalgia di esecutivi che duravano meno di un anno, rovesciati per effetto di manovre spesso del tutto incomprensibili, diviene necessaria l'introduzione della sfiducia costruttiva. Un governo può venir sostituito solo se contemporaneamente si crea una maggioranza alternativa pronta a subentrare. In Germania, dove vige una legge elettorale sostanzialmente proporzionale, questo meccanismo (entrato in funzione una sola volta nel lontano 1982) si è rivelato un ottimo deterrente contro l'instabilità politica.
In ultimo, lo si diceva prima, è tempo di chiudere la stagione dei “nominati” e di tornare alle preferenze. Magari doppie, uomo e donna, nel segno della parità di genere. Di certo occorre riconsegnare ai cittadini la facoltà di scegliere liberamente i propri rappresentanti. Altrimenti è inutile stupirsi della crescente disaffezione elettorale.
La sua riconferma rappresenta un provvidenziale attimo di resipiscenza dei diversi leader politici che hanno finito per assecondare il voto che, uno scrutinio dopo l'altro, proveniva dai parlamentari: i cosiddetti “peones”. In pratica è un po' la loro vittoria. Quella degli eletti di seconda e terza fila, semisconosciuti ai più, rispetto alle leadership dei rispettivi partiti mai così insipienti. Il Parlamento dei “nominati” - che speriamo veder presto rimpiazzato da quello di rappresentanti eletti in virtù delle preferenze dei cittadini - ha avuto un inatteso soprassalto di dignità che ha obbligato capi e capetti a rivolgersi nuovamente a Mattarella.
Va detto a chiare lettere che non si tratta di una riconferma a termine, cosa che sarebbe ovviamente del tutto incostituzionale. Siamo, come è logico, di fronte ad un mandato pieno che si dispiegherà su tre diverse legislature: quella attuale che sta finendo, quella che inizierà il prossimo anno con le elezioni politiche e quella che vedrà la luce cinque anni dopo.
Di certo c'è bisogno di un complessivo riassetto del nostro sistema politico. Se ne è parlato anche in questi giorni di confusione, quando prima la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, e poi quello di Italia Viva, Matteo Renzi, hanno evocato l'ipotesi dell'elezione diretta del Capo dello Stato.
Intendiamoci, dopo il tira e molla su nomi improbabili, tra cui è spuntato addirittura fuori quello della responsabile dei servizi segreti, nulla sembra esser peggio dell'attuale metodo di elezione e il suffragio universale finisce per profilarsi come un autentico toccasana. Meglio di questo incredibile guazzabuglio fatto di reciproci veti, di cortine fumogene e di calcoli mal riusciti.
Eppure si deve stare attenti a non cedere a questa suggestione. Non che l'elezione diretta sia qualcosa di assolutamente negativo: in fondo può sembrare ragionevole concedere al popolo l'elezione del Capo dello Stato e diverse democrazie, Francia e Stati Uniti in testa, applicano con soddisfazione questo metodo.
Il fatto è che - come ha ricordato con buon tempismo il neo presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato - i sistemi politici sono come degli orologi e l'introduzione di un elemento estraneo, rischia di squilibrarne il complessivo funzionamento. Aggiungere l'elezione diretta del Presidente della Repubblica cambierebbe la natura parlamentare del nostro sistema e allora, piuttosto che imbarcarsi in riforme epocali, creando più problemi di quanti se ne contribuisce a risolvere, meglio fare qualche utile correttivo rimanendo nel solco parlamentare.
L'intervento più urgente ci sembra quello sulla legge elettorale, tornando ad un sistema interamente proporzionale. Per farlo basta correggere l'attuale Rosatellum eliminando i collegi uninominali che costringono, pur di battere lo schieramento avverso, ad alleanze spesso forzate e poi, alla resa dei conti, incapaci di governare in modo efficace.
Un modello proporzionale con soglia di sbarramento al 4-5 per cento può invece consentire innanzi tutto di consegnarci un Parlamento dotato di adeguata rappresentatività, senza le distorsioni del maggioritario e senza una deleteria frammentazione. Il tutto andrebbe accompagnato da circoscrizioni che eleggano non più di sette-otto parlamentari, dal divieto di candidature plurime dei leader in più circoscrizioni e da norme che impediscano il passaggio degli eletti da un partito ad un altro.
Sappiamo bene che il proporzionale avvantaggia la rappresentatività mettendo però a rischio la stabilità dei governi. Siccome nessuno può avere nostalgia di esecutivi che duravano meno di un anno, rovesciati per effetto di manovre spesso del tutto incomprensibili, diviene necessaria l'introduzione della sfiducia costruttiva. Un governo può venir sostituito solo se contemporaneamente si crea una maggioranza alternativa pronta a subentrare. In Germania, dove vige una legge elettorale sostanzialmente proporzionale, questo meccanismo (entrato in funzione una sola volta nel lontano 1982) si è rivelato un ottimo deterrente contro l'instabilità politica.
In ultimo, lo si diceva prima, è tempo di chiudere la stagione dei “nominati” e di tornare alle preferenze. Magari doppie, uomo e donna, nel segno della parità di genere. Di certo occorre riconsegnare ai cittadini la facoltà di scegliere liberamente i propri rappresentanti. Altrimenti è inutile stupirsi della crescente disaffezione elettorale.
Già solo parlare di elezione diretta lo ritengo un cedere alle “insidie del demonio”: che poi l’esperienza statunitense rappresenti tutta questa democraticità è da discutere (corrono solo coloro che hanno ingenti finanziamenti, e ci si può trovare un Presidente che tenta colpi di Stato – il 6 gennaio 2021 cosa è stato?). Oltre alle sagge proposte ipotizzate da Aldo, ritengo che ci si debba battere per annullare l’indegna e inopportuna decisione di “tagliare” indiscriminatamente il numero di Parlamentari. Si può anche non rispristinare il migliaio precedente, ma bisogna anche pensare alla rappresentanza delle “periferie” (aree montane, collinari, zone dimenticate da servizi e uffici pubblici colpevolmente accentrati, ecc.)