Mancano meno di dieci giorni al fischio d’inizio della corsa verso il Quirinale e tutto appare più nebuloso che mai. La stessa candidatura di Silvio Berlusconi, sostenuta a quanto sembra dall'intero centro-destra, non sfugge a questa sensazione. Niente di nuovo: è sempre stato così. Del resto per il Colle vale il detto del Conclave: chi entra Papa esce cardinale e fior fiore di uomini politici sono caduti in questa trappola.
Nel 1948, il repubblicano Carlo Sforza era il designato, ma di fronte alla reazione contraria di parte della Dc, venne scelto Luigi Einaudi. Lo stesso accadde sette anni dopo, nel 1955, con il presidente del Senato Cesare Merzagora, un indipendente molto apprezzato negli ambienti economici, scelto dai vertici della Dc: Mario Scelba, capo del governo e Amintore Fanfani, segretario del partito. Dalle urne emerse invece, a sorpresa, il nome di un democristiano doc, Giovanni Gronchi, sostenuto dalla sinistra del partito ed appoggiato poi anche da socialisti e comunisti. E fu lui a salire al Colle.
La sconfitta più clamorosa resta però quella di Fanfani che alle presidenziali del dicembre 1971, giusto mezzo secolo fa, era il candidato ufficiale della Dc e venne impallinato in aula da uno stuolo di franchi tiratori. Per lo più appartenenti al suo stesso partito. In tempi a noi più recenti il caso più eclatante è quello del Pd – che in quanto a giochi correntizi è assai simile alla vecchia Dc - con Romano Prodi bocciato in aula da 101 colleghi di partito. Alcuni dei quali il giorno prima quasi certamente avevano pubblicamente applaudito alla sua candidatura.
Per il Quirinale - imboscate a parte - vige poi un’altra regola non scritta: mai risultano eletti i leader politici più in vista del momento e infatti vennero via via bocciati pezzi da novanta come Aldo Moro, Giulio Andreotti e Massimo D’Alema. Si è cioè sempre puntato su figure meno caratterizzate politicamente perché il Presidente doveva, innanzi tutto, essere un arbitro super partes nel quale tutti potessero riconoscersi.
Oggi siamo in una condizione nuova rispetto al passato. Il centro-destra - dopo decenni di una certa egemonia del centro-sinistra - è in grado di contribuire in modo determinante ad eleggere una personalità della propria area politica. Ma invece di presentare una rosa di nomi, per individuare una figura in qualche modo accettabile anche dallo schieramento opposto viene giocata un'unica indigeribile carta: Silvio Berlusconi, il candidato più divisivo possibile. E’ anche vero – onestà impone di ricordarlo – che nel 2013 il Pd tentò il “colpaccio” di far eleggere Prodi: un politico inviso al centro-destra almeno quanto il Cavaliere è detestato dal centro-sinistra. Per cui adesso, a parti invertite, c'è poco da lamentarsi.
In ogni caso è tutto da vedere quello che accadrà. Berlusconi – peraltro ancora in attesa di confermare la propria ennesima "discesa in campo" - potrebbe anche venir bocciato in aula, esattamente come Prodi: una nemesi neppure troppo improbabile. Complicato, in ogni caso, fare previsioni perché, da sempre, quella del Quirinale è una sorta di una partita al buio. <<Siamo - disse molti anni fa Guido Bodrato - nelle condizioni di un gruppo di ciclisti chiamati a fare una corsa a tappe ma senza sapere il numero di tappe e dunque senza sapere come dosare le forze, come impegnarsi>>. Si potrebbe aggiungere, restando nella metafora sportiva, che non è neppure chiaro chi siano i ciclisti in gara.
L’auspicio sarebbe che dal lotto uscisse Mario Draghi, con un'elezione al primo scrutinio, frutto di un’ampia maggioranza: da Leu a Fratelli d'Italia. E se Berlusconi fosse uno statista - cosa che ovviamente non è - intesterebbe al centro-destra, e a se stesso, questa candidatura, operando per renderla possibile. Ne guadagnerebbe in prestigio personale.
Certo, bisognerebbe poi pensare ad un nuovo governo ma, in ogni caso, tra un anno finirà la legislatura, e ad un nuovo governo ci si dovrà pensare comunque. A quel punto Draghi sarà fuori da Palazzo Chigi: meglio averlo dunque per sette anni al Quirinale.
Nel 1948, il repubblicano Carlo Sforza era il designato, ma di fronte alla reazione contraria di parte della Dc, venne scelto Luigi Einaudi. Lo stesso accadde sette anni dopo, nel 1955, con il presidente del Senato Cesare Merzagora, un indipendente molto apprezzato negli ambienti economici, scelto dai vertici della Dc: Mario Scelba, capo del governo e Amintore Fanfani, segretario del partito. Dalle urne emerse invece, a sorpresa, il nome di un democristiano doc, Giovanni Gronchi, sostenuto dalla sinistra del partito ed appoggiato poi anche da socialisti e comunisti. E fu lui a salire al Colle.
La sconfitta più clamorosa resta però quella di Fanfani che alle presidenziali del dicembre 1971, giusto mezzo secolo fa, era il candidato ufficiale della Dc e venne impallinato in aula da uno stuolo di franchi tiratori. Per lo più appartenenti al suo stesso partito. In tempi a noi più recenti il caso più eclatante è quello del Pd – che in quanto a giochi correntizi è assai simile alla vecchia Dc - con Romano Prodi bocciato in aula da 101 colleghi di partito. Alcuni dei quali il giorno prima quasi certamente avevano pubblicamente applaudito alla sua candidatura.
Per il Quirinale - imboscate a parte - vige poi un’altra regola non scritta: mai risultano eletti i leader politici più in vista del momento e infatti vennero via via bocciati pezzi da novanta come Aldo Moro, Giulio Andreotti e Massimo D’Alema. Si è cioè sempre puntato su figure meno caratterizzate politicamente perché il Presidente doveva, innanzi tutto, essere un arbitro super partes nel quale tutti potessero riconoscersi.
Oggi siamo in una condizione nuova rispetto al passato. Il centro-destra - dopo decenni di una certa egemonia del centro-sinistra - è in grado di contribuire in modo determinante ad eleggere una personalità della propria area politica. Ma invece di presentare una rosa di nomi, per individuare una figura in qualche modo accettabile anche dallo schieramento opposto viene giocata un'unica indigeribile carta: Silvio Berlusconi, il candidato più divisivo possibile. E’ anche vero – onestà impone di ricordarlo – che nel 2013 il Pd tentò il “colpaccio” di far eleggere Prodi: un politico inviso al centro-destra almeno quanto il Cavaliere è detestato dal centro-sinistra. Per cui adesso, a parti invertite, c'è poco da lamentarsi.
In ogni caso è tutto da vedere quello che accadrà. Berlusconi – peraltro ancora in attesa di confermare la propria ennesima "discesa in campo" - potrebbe anche venir bocciato in aula, esattamente come Prodi: una nemesi neppure troppo improbabile. Complicato, in ogni caso, fare previsioni perché, da sempre, quella del Quirinale è una sorta di una partita al buio. <<Siamo - disse molti anni fa Guido Bodrato - nelle condizioni di un gruppo di ciclisti chiamati a fare una corsa a tappe ma senza sapere il numero di tappe e dunque senza sapere come dosare le forze, come impegnarsi>>. Si potrebbe aggiungere, restando nella metafora sportiva, che non è neppure chiaro chi siano i ciclisti in gara.
L’auspicio sarebbe che dal lotto uscisse Mario Draghi, con un'elezione al primo scrutinio, frutto di un’ampia maggioranza: da Leu a Fratelli d'Italia. E se Berlusconi fosse uno statista - cosa che ovviamente non è - intesterebbe al centro-destra, e a se stesso, questa candidatura, operando per renderla possibile. Ne guadagnerebbe in prestigio personale.
Certo, bisognerebbe poi pensare ad un nuovo governo ma, in ogni caso, tra un anno finirà la legislatura, e ad un nuovo governo ci si dovrà pensare comunque. A quel punto Draghi sarà fuori da Palazzo Chigi: meglio averlo dunque per sette anni al Quirinale.
A mio avviso Mario Draghi, alla presidenza della Repubblica garantirebbe la stabilità necessaria per superare la pandemia e fare le riforme che servono e sovrintenderebbe le questioni come capo dello Stato. A palazzo Chigi andrebbe Roberto Garofoli, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio in prima fila nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da oltre 200 miliardi. In questi mesi l’Italia ha riscattato la sua immagine a livello europeo e internazionale con stabilità, credibilità e affidabilità, sono questi, senza se e senza ma, i valori che devono guidare i partiti nella scelta del prossimo presidente della Repubblica. D’altro canto, attraverso un referendum popolare, andremo verso una Repubblica presidenziale. Lo status quo è indecoroso, costoso e divisivo, per Casini, molte voci sono discordi per il suo passato politico non proprio lineare.