C’è una emergenza della quale poco si parla ma che è destinata a produrre effetti nel tempo se non si vuole mettere a rischio la ripresa economica in corso.
Non è certo il perdurare della crisi sanitaria, anche se in atto un nuovo picco di infezioni. Né la sferzata dei costi delle materie prime e dell’energia che non rientrano e stressano imprese e famiglie sul breve. Tanto meno l’emergenza è quella di una situazione politica ancora una volta prossima a un crinale denso di incertezze.
No, l’emergenza deriva da ben altro: i posti di lavoro che restano scoperti per carenza di figure professionali adeguate sono sempre più numerosi e ormai creano insicurezze nel sistema delle imprese.
E non è solo l’effetto dell’avanzare di nuove tecnologie, nuovi materiali e nuovi processi produttivi che genera questo vuoto, visto che tra i posti di lavoro che restano scoperti c’è anche il panettiere, il macellaio, il falegname, i mestieri insomma che da sempre rappresentavano la normalità nella civile convivenza.
Nello stesso tempo la disoccupazione giovanile sfiora il trenta per cento e un terzo dei ragazzi dai 15 ai 24 anni non studia né lavora. Solo la Turchia è messa peggio di noi.
Ecco perché è legittimo chiedersi: se la politica non si occupa di questo, a cominciare dai partiti o presunti tali e per finire il sindacato, di che cosa si occupa?
Certo si tratta di numeri che mettono a nudo gravi difetti di orientamento scolastico e professionale e prima ancora chiamano in causa un ordinamento sostanzialmente pensato quando il mondo era diverso: scuola media, licei. istituti tecnici. Poi la media unica che di fatto ha livellato tutto al ribasso e sono esplosi gli istituti professionali: quasi duemila dove dentro c’è di tutto dalle eccellenze (poche) ai diplomifici a un tanto al chilo, dove i soggetti della formazione non sono certo selezionati con rigore e i finanziamenti non sempre subordinati a criteri oggettivi di valutazione.
Su tutto domina e prevale lo Stato che, come ha scritto il professor Ichino, “gestisce centralmente un pachiderma con oltre un milione di dipendenti”. Finché finanzia, controlla e regola va bene, ma la gestione in mezzo mondo è largamente lasciata alle singole scuole intese come vere e proprie istituzioni della società civile, in grado di cogliere le istanze culturali ed economiche dei territori.
Di riforme ne sono state tentate parecchie ma sia l’amministrazione statale, sia i sindacati non hanno mai consentito di superare il centralismo.
Chi non è più giovane ricorda come in stagioni non lontane veniva affrontato il problema delle carenze di figure professionali nei territori. Un ruolo decisivo l’avevano gli enti locali e i Comuni in particolare. Con l’autonomia finanziaria e politiche di intervento aperte, i Comuni in particolare hanno supplito a carenze effettive dei territori.
Come non ricordare migliaia di scuole di tutti i tipi, da quelle tecniche ai licei musicali sorti per iniziative dei Comuni, in carenza delle iniziative dello Stato: si organizzava la scuola in collaborazione con altre realtà locali e dopo le opportune verifiche la stessa era riconosciuta “ paritaria”. Basti pensare alla ricchezza delle “filiere” italiane: dalla meccanica all’agro-alimentare, dal turismo alla moda e a quante iniziative potrebbero nascere dalla collaborazione tra queste realtà e scuole dedicate e gestite in autonomia.
Oggi con i bilanci comunali ingessati dai trasferimenti di risorse tutto ciò è improponibile o estremamente difficile e ciò che consegue è facile da intuire: vengono meno le risposte delle istituzioni alle esigenze delle comunità.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Non è certo il perdurare della crisi sanitaria, anche se in atto un nuovo picco di infezioni. Né la sferzata dei costi delle materie prime e dell’energia che non rientrano e stressano imprese e famiglie sul breve. Tanto meno l’emergenza è quella di una situazione politica ancora una volta prossima a un crinale denso di incertezze.
No, l’emergenza deriva da ben altro: i posti di lavoro che restano scoperti per carenza di figure professionali adeguate sono sempre più numerosi e ormai creano insicurezze nel sistema delle imprese.
E non è solo l’effetto dell’avanzare di nuove tecnologie, nuovi materiali e nuovi processi produttivi che genera questo vuoto, visto che tra i posti di lavoro che restano scoperti c’è anche il panettiere, il macellaio, il falegname, i mestieri insomma che da sempre rappresentavano la normalità nella civile convivenza.
Nello stesso tempo la disoccupazione giovanile sfiora il trenta per cento e un terzo dei ragazzi dai 15 ai 24 anni non studia né lavora. Solo la Turchia è messa peggio di noi.
Ecco perché è legittimo chiedersi: se la politica non si occupa di questo, a cominciare dai partiti o presunti tali e per finire il sindacato, di che cosa si occupa?
Certo si tratta di numeri che mettono a nudo gravi difetti di orientamento scolastico e professionale e prima ancora chiamano in causa un ordinamento sostanzialmente pensato quando il mondo era diverso: scuola media, licei. istituti tecnici. Poi la media unica che di fatto ha livellato tutto al ribasso e sono esplosi gli istituti professionali: quasi duemila dove dentro c’è di tutto dalle eccellenze (poche) ai diplomifici a un tanto al chilo, dove i soggetti della formazione non sono certo selezionati con rigore e i finanziamenti non sempre subordinati a criteri oggettivi di valutazione.
Su tutto domina e prevale lo Stato che, come ha scritto il professor Ichino, “gestisce centralmente un pachiderma con oltre un milione di dipendenti”. Finché finanzia, controlla e regola va bene, ma la gestione in mezzo mondo è largamente lasciata alle singole scuole intese come vere e proprie istituzioni della società civile, in grado di cogliere le istanze culturali ed economiche dei territori.
Di riforme ne sono state tentate parecchie ma sia l’amministrazione statale, sia i sindacati non hanno mai consentito di superare il centralismo.
Chi non è più giovane ricorda come in stagioni non lontane veniva affrontato il problema delle carenze di figure professionali nei territori. Un ruolo decisivo l’avevano gli enti locali e i Comuni in particolare. Con l’autonomia finanziaria e politiche di intervento aperte, i Comuni in particolare hanno supplito a carenze effettive dei territori.
Come non ricordare migliaia di scuole di tutti i tipi, da quelle tecniche ai licei musicali sorti per iniziative dei Comuni, in carenza delle iniziative dello Stato: si organizzava la scuola in collaborazione con altre realtà locali e dopo le opportune verifiche la stessa era riconosciuta “ paritaria”. Basti pensare alla ricchezza delle “filiere” italiane: dalla meccanica all’agro-alimentare, dal turismo alla moda e a quante iniziative potrebbero nascere dalla collaborazione tra queste realtà e scuole dedicate e gestite in autonomia.
Oggi con i bilanci comunali ingessati dai trasferimenti di risorse tutto ciò è improponibile o estremamente difficile e ciò che consegue è facile da intuire: vengono meno le risposte delle istituzioni alle esigenze delle comunità.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Molto vero, ma occuparsi di questa problematica vorrebbe anche significare intraprendere percorsi indigesti alla classe politica che non casualmente ha scelto invece di mantenere tanti nullafacenti anziché spronarli a cercare soluzioni, magari scomode e non ottimali, per dare dignità alla loro vita. È spesso troppo comodo trovare l’alibi della pur difficile ricerca del lavoro per non fare alcun sforzo, certo anche di adattamento, per trovare una occupazione. Finché molti giovani inoperosi fruiranno dell’assegno di Stato, del pietismo dei genitori (meglio a casa che “sfruttato”,) e della paghetta dei nonni, che comunque consente di far fronte al mantenimento di una vita tutto sommato agiata, potranno far prevalere il vittimismo e esimersi dal trovare soluzioni. Il tutto senza colpevolizzare quelli che davvero faticano a trovare lavoro (soprattutto in certe aree del Paese) e senza sottovalutare la pesante inadeguatezza di una formazione adeguata alla offerta lavorativa. Ma se anche dovessimo sopperire a questa carenza avremmo la capacità e la volontà politica di imporre i nuovi criteri?