Il tema dell’impatto delle tecnologie sul lavoro, e delle politiche da mettere in atto per adeguare le risorse umane ai nuovi fabbisogni nel mercato del lavoro, sta assumendo un grande rilievo nel dibattito internazionale, tanto da essere ormai assimilato a quello ambientale per la valutazione della sostenibilità della crescita economica.
Nel merito si confrontano due tesi, entrambe convergenti nel sottolineare l’intensità delle trasformazioni indotte dal peso dell’intelligenza artificiale nelle organizzazioni del lavoro, ma che arrivano a conclusioni decisamente opposte sul versante delle conseguenze sulla qualità e la quantità dell’occupazione. Una, tesa a dimostrare che le innovazioni comporteranno l’esigenza di migliorare le competenze dei lavoratori, il loro coinvolgimento nelle decisioni aziendali, a rendere le prestazioni lavorative meno faticose, più creative e più compatibili con le scelte di vita. La seconda dà relativamente per scontato uno scenario per certi aspetti apocalittico, derivante da una progressiva sostituzione delle funzioni cognitive dei lavoratori da parte delle macchine intelligenti, destinata ad accrescere il numero dei lavoratori poco qualificati e con basse remunerazioni e a favorire aumenti di produttività destinati a ridurre la quantità dei lavoratori.
Nella prima rappresentazione, le politiche del lavoro assumono il compito di migliorare il coinvolgimento dei lavoratori nell’ambito delle organizzazioni del lavoro meno gerarchiche e di aumentare a dismisura gli investimenti per migliorare le competenze e la sostenibilità delle transizioni lavorative. Nella seconda diventa dominante il tema della redistribuzione della produttività verso forme di reddito garantito in grado di garantire una soglia base di accesso ai consumi per tutti i cittadini.
La rappresentazione è schematica, per l’esigenza di favorire la comprensione dei diversi approcci teorici. Entrambi trovano conferme nella realtà e, in termini pragmatici, possono essere utilizzati per trovare combinazioni funzionali a gestire con ragionevolezza i costi sociali delle trasformazioni economiche e le innovazioni delle organizzazioni del lavoro. In questo direzione, l’innovazione sociale assume un ruolo altrettanto decisivo rispetto a quella tecnologica e delle organizzazioni produttive e in tal senso vengono mobilitati esperti di diversa estrazione scientifica e politica.
Sempre in via generale possiamo constatare che questo compito risulta assai più agevole nei Paesi che hanno tassi di occupazione più elevati, perché la presenza di più redditi garantisce una migliore sostenibilità di quelli familiari e della spesa pubblica destinata a scopi sociali, con solidi sistemi formativi e buone politiche attive per il lavoro, perché aumentano l’occupabilità delle persone e la riduzione dei tempi delle transizioni lavorative. Per le caratteristiche delle tecnologie digitali risultano avvantaggiati i Paesi che hanno una popolazione in età di lavoro più giovane, perché la quantità e la qualità del ricambio generazionale diventa indispensabile per assicurare una quota rilevante delle professioni trainanti delle nuove organizzazioni del lavoro e la velocità dei tempi di aggiornamento delle competenze.
Tra questi Paesi è difficile annoverare l’Italia. Per via del basso tasso di occupazione, degli squilibri generazionali, di genere e territoriali. Accompagnati dallo scarso investimento in tutti gli ambiti di formazione finalizzati ad accrescere la qualità delle risorse umane e la loro occupabilità. Contrariamente alla vulgata, prevalente nel dibattito italiano, questi ritardi non dipendono da particolari vincoli esterni, dalla globalizzazione o dalle politiche di austerità delle istituzioni europee, ma dalla natura delle scelte di politica sociale fatte in piena autonomia. Infatti, i nostri numeri in termini di competitività, di quantità e di qualità dell’occupazione risultano allineati e persino superiori nelle attività economiche esposte alla concorrenza. Altamente deficitari nei comparti dei servizi, dove la competizione è prevalentemente interna e dipende dalla qualità della gestione dei fattori di produzione interni.
A fare la differenza, soprattutto negli ultimi 30 anni, coincidenti con l’espansione dei mercati internazionali, sono le mancate riforme del welfare nella direzione di aumentare la qualità dei sistemi formativi e di orientamento al lavoro, di sostenere la natalità e la conciliazione dei carichi familiari con quelli lavorativi e l’incapacità di rendere attrattiva per gli investimenti e per le risorse umane qualificate una parte significativa dei nostri territori. A impedire il salto di qualità sono stati i retaggi ideologici e corporativi, una cultura dei diritti identificata in modo improprio con la difesa e la conservazione di quelli precostituiti, rivolta ad abusare delle normative per imporre vincoli alle imprese, tesa a privilegiare le politiche di sostegno al reddito, con il concorso dei pensionamenti anticipati, a discapito di quelle rivolte a migliorare l’occupabilità delle persone e il tasso di occupazione.
Dettaglio non marginale: tutti gli indicatori relativi alla valutazione della qualità del nostro mercato del lavoro (tassi di occupazione, quota di occupati qualificati, di laureati, di investimenti formativi, di sottoutilizzo delle persone in età di lavoro, ecc.) sono peggiorati in modo significativo negli ultimi 10 anni nella comparazione con gli altri Paesi aderenti all’UE.
L’obiettivo di rimediare gli squilibri territoriali, generazionali e di genere è diventato parte integrante del nuovo PNRR, con l’introduzione di vincoli per l’utilizzo delle risorse destinate agli investimenti per la transizione ambientale e digitale. Nel frattempo le politiche per il lavoro, che dovrebbero accompagnare una trasmigrazione di personale che non ha precedenti verso le nuove attività, vanno in tutt’altra direzione: quella di conservare più a lungo possibile tutte le strutture esistenti, comprese quelle destinate a essere chiuse, generalizzando l’utilizzo delle casse integrazioni anche alle micro imprese, e in aggiunta alle indennità di disoccupazione, per mantenere in vita posti di lavoro inesistenti con iniezioni di risorse pubbliche e di contributi a carico delle imprese.
La spiegazione di questa scelta, destinata a distorcere il corretto funzionamento del mercato del lavoro, e a incentivare in via di fatto i comportamenti opportunisti rivolti a integrare i sussidi pubblici con prestazioni sommerse, l’ha offerta il ministro del Lavoro Orlando, affermando che la riforma degli ammortizzatori sociali, approvata dal Parlamento con la Legge di bilancio, è stata predisposta “alla luce delle esperienze maturate nel corso della emergenza Covid”. Potrebbe sembrare uno scherzo, dato che le casse in deroga erano giustificate da motivazioni extraeconomiche e dagli interventi amministrativi che disponevano la riduzione delle attività. Ma a quanto pare ogni pretesto è utile per assecondare una deriva parassitaria che non sembra trovare limiti.
L’evidenza che le imprese fanno fatica ad assumere il personale anche per le mansioni che non richiedono particolari percorsi formativi e professionali, numericamente equivalenti ai due terzi del 38% dei fabbisogni dei profili di difficile reperimento, viene confermata dalla rilevazione Excelsior (Anpal-Unioncamere). Un dato preoccupante considerando i milioni di beneficiari dei sostegni al reddito in età di lavoro, e delle persone in cerca di lavoro. Ma che viene paradossalmente utilizzato come pretesto per sostenere la necessità di introdurre il salario minimo legale per rendere più appetibili le offerte di lavoro. Probabilmente a ragione veduta, dato che nel frattempo l’importo minimo mensile delle casse integrazioni è stato aumentato a 1.200 euro.
Queste scelte ci aiutano a comprendere quanto ci attende nell’immediato futuro nella gestione dei complicati meccanismi del mercato del lavoro italiano e la pretesa velleitaria di far funzionare le politiche attive del lavoro in un simile contesto. Con la teorizzazione del diritto al reddito separato dal lavoro e della spesa assistenziale a discapito della crescita economica e della partecipazione al mercato del lavoro, il livello dell’elaborazione della sinistra precipita al minimo storico. Che coincide purtroppo con la totale assenza di idee sulla materia da parte delle altre forze politiche, e dalla manifesta incapacità delle parti sociali di mettere in campo alternative credibili.
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
Nel merito si confrontano due tesi, entrambe convergenti nel sottolineare l’intensità delle trasformazioni indotte dal peso dell’intelligenza artificiale nelle organizzazioni del lavoro, ma che arrivano a conclusioni decisamente opposte sul versante delle conseguenze sulla qualità e la quantità dell’occupazione. Una, tesa a dimostrare che le innovazioni comporteranno l’esigenza di migliorare le competenze dei lavoratori, il loro coinvolgimento nelle decisioni aziendali, a rendere le prestazioni lavorative meno faticose, più creative e più compatibili con le scelte di vita. La seconda dà relativamente per scontato uno scenario per certi aspetti apocalittico, derivante da una progressiva sostituzione delle funzioni cognitive dei lavoratori da parte delle macchine intelligenti, destinata ad accrescere il numero dei lavoratori poco qualificati e con basse remunerazioni e a favorire aumenti di produttività destinati a ridurre la quantità dei lavoratori.
Nella prima rappresentazione, le politiche del lavoro assumono il compito di migliorare il coinvolgimento dei lavoratori nell’ambito delle organizzazioni del lavoro meno gerarchiche e di aumentare a dismisura gli investimenti per migliorare le competenze e la sostenibilità delle transizioni lavorative. Nella seconda diventa dominante il tema della redistribuzione della produttività verso forme di reddito garantito in grado di garantire una soglia base di accesso ai consumi per tutti i cittadini.
La rappresentazione è schematica, per l’esigenza di favorire la comprensione dei diversi approcci teorici. Entrambi trovano conferme nella realtà e, in termini pragmatici, possono essere utilizzati per trovare combinazioni funzionali a gestire con ragionevolezza i costi sociali delle trasformazioni economiche e le innovazioni delle organizzazioni del lavoro. In questo direzione, l’innovazione sociale assume un ruolo altrettanto decisivo rispetto a quella tecnologica e delle organizzazioni produttive e in tal senso vengono mobilitati esperti di diversa estrazione scientifica e politica.
Sempre in via generale possiamo constatare che questo compito risulta assai più agevole nei Paesi che hanno tassi di occupazione più elevati, perché la presenza di più redditi garantisce una migliore sostenibilità di quelli familiari e della spesa pubblica destinata a scopi sociali, con solidi sistemi formativi e buone politiche attive per il lavoro, perché aumentano l’occupabilità delle persone e la riduzione dei tempi delle transizioni lavorative. Per le caratteristiche delle tecnologie digitali risultano avvantaggiati i Paesi che hanno una popolazione in età di lavoro più giovane, perché la quantità e la qualità del ricambio generazionale diventa indispensabile per assicurare una quota rilevante delle professioni trainanti delle nuove organizzazioni del lavoro e la velocità dei tempi di aggiornamento delle competenze.
Tra questi Paesi è difficile annoverare l’Italia. Per via del basso tasso di occupazione, degli squilibri generazionali, di genere e territoriali. Accompagnati dallo scarso investimento in tutti gli ambiti di formazione finalizzati ad accrescere la qualità delle risorse umane e la loro occupabilità. Contrariamente alla vulgata, prevalente nel dibattito italiano, questi ritardi non dipendono da particolari vincoli esterni, dalla globalizzazione o dalle politiche di austerità delle istituzioni europee, ma dalla natura delle scelte di politica sociale fatte in piena autonomia. Infatti, i nostri numeri in termini di competitività, di quantità e di qualità dell’occupazione risultano allineati e persino superiori nelle attività economiche esposte alla concorrenza. Altamente deficitari nei comparti dei servizi, dove la competizione è prevalentemente interna e dipende dalla qualità della gestione dei fattori di produzione interni.
A fare la differenza, soprattutto negli ultimi 30 anni, coincidenti con l’espansione dei mercati internazionali, sono le mancate riforme del welfare nella direzione di aumentare la qualità dei sistemi formativi e di orientamento al lavoro, di sostenere la natalità e la conciliazione dei carichi familiari con quelli lavorativi e l’incapacità di rendere attrattiva per gli investimenti e per le risorse umane qualificate una parte significativa dei nostri territori. A impedire il salto di qualità sono stati i retaggi ideologici e corporativi, una cultura dei diritti identificata in modo improprio con la difesa e la conservazione di quelli precostituiti, rivolta ad abusare delle normative per imporre vincoli alle imprese, tesa a privilegiare le politiche di sostegno al reddito, con il concorso dei pensionamenti anticipati, a discapito di quelle rivolte a migliorare l’occupabilità delle persone e il tasso di occupazione.
Dettaglio non marginale: tutti gli indicatori relativi alla valutazione della qualità del nostro mercato del lavoro (tassi di occupazione, quota di occupati qualificati, di laureati, di investimenti formativi, di sottoutilizzo delle persone in età di lavoro, ecc.) sono peggiorati in modo significativo negli ultimi 10 anni nella comparazione con gli altri Paesi aderenti all’UE.
L’obiettivo di rimediare gli squilibri territoriali, generazionali e di genere è diventato parte integrante del nuovo PNRR, con l’introduzione di vincoli per l’utilizzo delle risorse destinate agli investimenti per la transizione ambientale e digitale. Nel frattempo le politiche per il lavoro, che dovrebbero accompagnare una trasmigrazione di personale che non ha precedenti verso le nuove attività, vanno in tutt’altra direzione: quella di conservare più a lungo possibile tutte le strutture esistenti, comprese quelle destinate a essere chiuse, generalizzando l’utilizzo delle casse integrazioni anche alle micro imprese, e in aggiunta alle indennità di disoccupazione, per mantenere in vita posti di lavoro inesistenti con iniezioni di risorse pubbliche e di contributi a carico delle imprese.
La spiegazione di questa scelta, destinata a distorcere il corretto funzionamento del mercato del lavoro, e a incentivare in via di fatto i comportamenti opportunisti rivolti a integrare i sussidi pubblici con prestazioni sommerse, l’ha offerta il ministro del Lavoro Orlando, affermando che la riforma degli ammortizzatori sociali, approvata dal Parlamento con la Legge di bilancio, è stata predisposta “alla luce delle esperienze maturate nel corso della emergenza Covid”. Potrebbe sembrare uno scherzo, dato che le casse in deroga erano giustificate da motivazioni extraeconomiche e dagli interventi amministrativi che disponevano la riduzione delle attività. Ma a quanto pare ogni pretesto è utile per assecondare una deriva parassitaria che non sembra trovare limiti.
L’evidenza che le imprese fanno fatica ad assumere il personale anche per le mansioni che non richiedono particolari percorsi formativi e professionali, numericamente equivalenti ai due terzi del 38% dei fabbisogni dei profili di difficile reperimento, viene confermata dalla rilevazione Excelsior (Anpal-Unioncamere). Un dato preoccupante considerando i milioni di beneficiari dei sostegni al reddito in età di lavoro, e delle persone in cerca di lavoro. Ma che viene paradossalmente utilizzato come pretesto per sostenere la necessità di introdurre il salario minimo legale per rendere più appetibili le offerte di lavoro. Probabilmente a ragione veduta, dato che nel frattempo l’importo minimo mensile delle casse integrazioni è stato aumentato a 1.200 euro.
Queste scelte ci aiutano a comprendere quanto ci attende nell’immediato futuro nella gestione dei complicati meccanismi del mercato del lavoro italiano e la pretesa velleitaria di far funzionare le politiche attive del lavoro in un simile contesto. Con la teorizzazione del diritto al reddito separato dal lavoro e della spesa assistenziale a discapito della crescita economica e della partecipazione al mercato del lavoro, il livello dell’elaborazione della sinistra precipita al minimo storico. Che coincide purtroppo con la totale assenza di idee sulla materia da parte delle altre forze politiche, e dalla manifesta incapacità delle parti sociali di mettere in campo alternative credibili.
(Tratto da www.ilsussidiario.net)
Un Sindacato che fa esclusivamente gli interessi dei suoi associati non può proporre alternative credibili senza perdere le tessere di chi vi è iscritto. Questo è il problema vero. Ed avendo il Sindacato la pretesa di essere l’unico rappresentante legittimo del mondo del lavoro (diritto riconosciuto di tutta la sinistra nel suo insieme, e non solo) ecco che qualunque proposta di cambiamento viene accettata soltanto se non va a ledere la ipertrofia di diritti accumulati nel tempo dai lavoratori iscritti al sindacato. Tutte le modifiche che nel tempo sono state possibili, lo sono state soltanto perchè riguardavano “gli altri”: lavoratori autonomi, dipendenti di piccole aziende, ogni forma perversa di nuove assunzioni (l’elenco è lungo e va dai contratti di formazione a quelli con partita iva). L’importante è sempre stato quello di “preservare i diritti acquisiti dai lavoratori già assunti e magari a danno dei nuovi. In conclusione, se il mondo del lavoro è cambiato radicalmente, il Sindacato è rimasto quello di cinquanta anni fa. Una domanda: che senso ha al mondo di oggi il meccanismo dello sciopero? Quali risultati può ottenere? Ecco: penso che se si cominciasse a riflettere su questo sarebbe già un buon inizio.