Il tempo corre veloce. Nel corso della mia vita, ho assistito a un succedersi di cambiamenti che hanno investito i modi di vivere, di produrre e dell’agire politico.
Negli anni del dopoguerra, il sistema produttivo era volto principalmente alla produzione di beni materiali durevoli per soddisfare i bisogni reali della gente. Poi gradualmente ha preso piede la produzione di prodotti, sovente usa e getta, la cui domanda è indotta da una dilagante pubblicità. In parallelo, è cresciuto l’interesse dell’impresa privata alla fornitura di servizi, fino a comprendere quelli (trasporti, poste, telecomunicazioni ecc.) in precedenza inclusi nella sfera statale o pubblica, unitamente a quelli un tempo assolti nell’ambito della famiglia e di comunità a corto raggio (assistenza ai bambini, agli anziani, agli ammalati cronici, ai disabili). Sul piano generale, il mercato, un tempo semplice luogo di scambio, ha occupato sempre più spazio entrando nell’esistenza delle persone ridotte alla sola dimensione del consumatore.
La più rilevante metamorfosi ha riguardato il mondo della finanza, diventato, a partire dagli anni Ottanta, il settore di prevalente interesse per il grande capitale. Mentre la finanza tradizionale svolgeva una funzione di sostegno all’economia produttiva, raccogliendo il risparmio e destinandolo in prestito alle famiglie e alle imprese per l’acquisto e la produzione di beni e servizi, l’attuale capitalismo finanziario investe denaro per ricavarne altro, ricorrendo in prevalenza a operazioni speculative, senza intervenire nella fase produttiva vera e propria.
Tutto ciò ha creato nuova ricchezza che ha consentito rilevanti progressi nei più svariati settori. C’è stato un netto miglioramento delle condizioni generali: la speranza di vita si è allungata; il lavoro è diventato meno faticoso in fabbrica e in ambito domestico; l’istruzione scolastica ha coinvolto crescenti numeri di giovani; beni un tempo irraggiungibili per i più sono giunti alla portata di tutti o quasi. Tuttavia ogni medaglia ha il suo rovescio. Sono aumentate le diseguaglianze e sono venuti a mancare importati riferimenti valoriali con la conseguenza di un diffuso malessere sociale e di un generale senso di insicurezza. Inoltre, si sono resi manifesti crescenti guasti ambientali, che oggi giungono perfino a farci temere per le sorti del pianeta.
Le criticità citate, e soprattutto i mutamenti climatici sempre più evidenti e distruttivi, unitamente alla pandemia da Covid-19 (in qualche misura collegata alla situazione ambientale) hanno messo sull’avviso la componente più avveduta di quella classe dirigente che ha nelle mani le sorti del pianeta. Stiamo pertanto assistendo a un qualche significativo cambio di rotta.
Un primo segnale in tal senso ci è venuto dal Forum economico mondiale tenutosi il 27 gennaio 2021. Esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionali, insieme a selezionati giornalisti e intellettuali, si sono incontrati a Davos per affrontare le questioni più rilevanti che il mondo deve affrontare. Quanto ne è scaturito costituisce un documento importante per capire quali siano le intenzioni ed i progetti dei cosiddetti “Grandi della Terra”. Nel Forum sopra indicato, il tema è stato The Great Reset.
Il termine reset, impiegato dagli informatici, indica la cancellazione integrale dei programmi pregressi per consentire un nuovo utilizzo del computer. Resettare la società significa cancellare non solo modalità di produzione e di consumo, ma tutto ciò che comunemente si fa e si pensa, per sostituire il tutto con una nuova concezione del mondo. Si tratta di una radicale trasformazione ritenuta necessaria per uscire dalla crisi attuale e per affrontare quelle incombenti. Al centro del cambiamento, c’è il superamento delle energie da fonti fossili da sostituire con le energie rinnovabili, un passaggio introdotto anche per cogliere le opportunità che la svolta “verde” offre al mondo produttivo. Fanno seguito altri interventi di natura tecnica, ma con rilevanti ricadute economiche e sociali, come l’estensione della digitalizzazione e l’implementazione dell’automatizzazione e della robotica.
Si tratta di significativi passi in avanti, ancorché i risultati del G20 e della COP19, e i giudizi critici che ne hanno fatto seguito, abbiano mostrato quanta distanza manchi ancora per raggiungere un traguardo rassicurante. Ma ci sono aspetti del progetto che ritengo di segno non certo positivo. Si parte dalla volontà di estendere il libero commercio mondiale senza prendere in considerazione proprio i risvolti negativi della globalizzazione evidenziatisi nel corso della pandemia. Inoltre, l’accelerazione della globalizzazione si accompagna alla promozione di regole mondiali tese a limitare sempre più la sovranità degli Stati e alla promozione di modi di vita volti a omologare le società.
In pratica, il capitalismo intende trasformarsi in un attore sociale ed assumere una responsabilità politica mondiale. Quell’élite ben rappresentata dai partecipanti ai World Economic Forum, determinata a voler mantenere il suo potere, si propone come soggetto titolato a guidare la trasformazione e ad elaborare e gestire una nuova immagine del mondo. È una posizione liberale di massa (liberista e libertaria), globalista, cosmopolita, vagamente umanitaria, ma che mantiene un ruolo centrale al profitto e alla crescita illimitata.
Pare evidente che la democrazia (quella sostanziale e non solo formale o di facciata) non abbia più licenza di esistere in tale nuova visione del mondo. Non è compatibile con essa la distanza che viene a determinarsi tra coloro che hanno il potere delle scelte e i cittadini. E altrettanto estranei alla democrazia sono la priorità assegnata agli automatismi di un mercato globale e pervasivo rispetto al ruolo della politica, e il venir meno dello stesso concetto di sovranità con il passaggio della sua titolarità dagli Stati ad un universo indeterminato. Inoltre, l’omologazione delle modalità di vita degli esseri umani, sradicati dai contesti che ne fanno delle persone, origina un totalitarismo che, più che soft, è subdolamente mascherato, ma non meno pericoloso dei totalitarismi espliciti.
Secondo Gael Giraud, gesuita ed economista di fama internazionale, esiste uno stretto rapporto tra le fonti energetiche utilizzate nel corso della storia e gli assetti di ordine economico, sociale e politico.
Nel corso del XIX e del XX secolo, l’impiego del carbone come fonte energetica ha favorito l’avanzamento salariale e sociale del movimento operaio. Essendo costoso il suo trasporto, l’utilizzo di questa fonte energetica ha comportato l’impianto delle industrie prevalentemente in vicinanza delle aree carbonifere, mettendo a contatto minatori e lavoratori delle varie fabbriche dei quali ha facilitato la presa di coscienza del potere di negoziazione posseduto nei confronti del padronato. Uno sciopero dei minatori o dei ferrovieri era in grado di bloccare le attività delle fabbriche e i trasporti (essenzialmente ferroviari) paralizzando le città, private di prodotti essenziali e di energia elettrica a sua volta dipendente dal carbone.
Invece petrolio e metano, facilmente trasportabili con basso costo grazie a oleodotti e gasdotti, possono facilmente essere reperiti in luoghi lontani ed essere importati dall’estero. A partire dagli anni Quaranta, il loro diffuso e crescente impiego nei trasporti (automobili e camion), nell’industria, nella produzione di elettricità, e in altri ambiti, ha progressivamente indebolito il potere di contrasto della classe operaia e quindi la sua forza di negoziazione sociale. Questa riappropriazione di potere, dovuta al petrolio, da parte dei detentori dei capitali, ha trovato nel neoliberalismo l’ideologia volta a legittimare tale nuovo assetto. Con la globalizzazione (legata al petrolio e al metano come fonti energetiche), le diseguaglianze si sono ulteriormente aggravate.
Vista l’incidenza delle fonti energetiche sulle caratteristiche della società, occorre chiedersi, fin da oggi, come potrà essere la futura società delle energie rinnovabili. A tal fine, bisogna tenere presente che (secondo Giraud) le energie rinnovabili comportano rilevanti spese di investimento, ma ridotti costi di gestione.
Una prima possibilità è quella indicata dai protagonisti di Davos, che affida un ruolo centrale a quanti possiedono i capitali per gli ingenti investimenti richiesti dalla trasformazione energetica. Abbiamo visto che il legame di tale progetto con un assetto democratico reale è alquanto dubbio, se non nullo. Aggiungo che non sembra molto credibile neanche la sua idoneità a vincere la battaglia nel contrasto al riscaldamento climatico poiché si continua ad assegnare un ruolo primario al profitto e alla crescita del prodotto interno lordo. In materia, va ricordata l’affermazione di Giorgio Parisi circa l’impossibilità di raggiungere tale traguardo in presenza di uno sviluppo fondato sulla crescita del PIL. Anche per padre Giraud, è una mera illusione l’idea che la transizione possa essere realizzata mediante interventi finanziari ad opera di mercati anonimi: infatti, né il settore bancario privato, né i fondi sovrani mai finanzieranno interventi la cui redditività strettamente finanziaria è bassa.
Altra opzione è quella tecnocratica (verso cui pare orientarsi la dirigenza cinese, ma non solo essa). Questa prevede, sotto la direzione di un potere statale tendenzialmente autoritario, una società molto centralizzata, altamente capitalistica, basata su una stretta alleanza tra il settore pubblico e quello privato, in grado di indirizzare ingenti capitali verso la transizione, programmandone le tappe.
C’è poi la soluzione cara ai militanti ecologisti e ai giovani seguaci di Greta, che discende dalla ipotizzata realizzazione di un’ampia e diffusa distribuzione sul territorio dei generatori di energia. Sarebbe un assetto favorevole alla nascita di una democrazia decentralizzata e partecipativa che, in un’ottica di sussidiarietà, assegni un ruolo primario ai territori e alle comunità locali per soddisfare le esigenze produttive e i bisogni dei cittadini. Il suo punto debole è il reperimento dei capitali per una trasformazione che è molto costosa. Tuttavia, pur trattandosi di un percorso difficile, sembra forse essere l’unico in grado di salvaguardare la democrazia, una democrazia reale fondata sulla partecipazione e l’impegno dei cittadini.
Ci sono ovviamente altri possibili scenari, ora di compromesso tra quelli schematicamente indicati, ora derivanti da possibili rivoluzioni culturali. In questa direzione, il citato padre Giraud, partendo dal ripudio di quella che definisce “l’illusione finanziaria”, invoca un cambio di civiltà che veda l’Homo sapiens europeo imporsi sull’Homo oeconomicus in un cammino che passa per la riconciliazione delle nostre società con lo Spirito che è all’opera nella nostra storia.
Forse è giunto il momento di cominciare ad occuparsi di questo futuro che è molto prossimo.
Negli anni del dopoguerra, il sistema produttivo era volto principalmente alla produzione di beni materiali durevoli per soddisfare i bisogni reali della gente. Poi gradualmente ha preso piede la produzione di prodotti, sovente usa e getta, la cui domanda è indotta da una dilagante pubblicità. In parallelo, è cresciuto l’interesse dell’impresa privata alla fornitura di servizi, fino a comprendere quelli (trasporti, poste, telecomunicazioni ecc.) in precedenza inclusi nella sfera statale o pubblica, unitamente a quelli un tempo assolti nell’ambito della famiglia e di comunità a corto raggio (assistenza ai bambini, agli anziani, agli ammalati cronici, ai disabili). Sul piano generale, il mercato, un tempo semplice luogo di scambio, ha occupato sempre più spazio entrando nell’esistenza delle persone ridotte alla sola dimensione del consumatore.
La più rilevante metamorfosi ha riguardato il mondo della finanza, diventato, a partire dagli anni Ottanta, il settore di prevalente interesse per il grande capitale. Mentre la finanza tradizionale svolgeva una funzione di sostegno all’economia produttiva, raccogliendo il risparmio e destinandolo in prestito alle famiglie e alle imprese per l’acquisto e la produzione di beni e servizi, l’attuale capitalismo finanziario investe denaro per ricavarne altro, ricorrendo in prevalenza a operazioni speculative, senza intervenire nella fase produttiva vera e propria.
Tutto ciò ha creato nuova ricchezza che ha consentito rilevanti progressi nei più svariati settori. C’è stato un netto miglioramento delle condizioni generali: la speranza di vita si è allungata; il lavoro è diventato meno faticoso in fabbrica e in ambito domestico; l’istruzione scolastica ha coinvolto crescenti numeri di giovani; beni un tempo irraggiungibili per i più sono giunti alla portata di tutti o quasi. Tuttavia ogni medaglia ha il suo rovescio. Sono aumentate le diseguaglianze e sono venuti a mancare importati riferimenti valoriali con la conseguenza di un diffuso malessere sociale e di un generale senso di insicurezza. Inoltre, si sono resi manifesti crescenti guasti ambientali, che oggi giungono perfino a farci temere per le sorti del pianeta.
Le criticità citate, e soprattutto i mutamenti climatici sempre più evidenti e distruttivi, unitamente alla pandemia da Covid-19 (in qualche misura collegata alla situazione ambientale) hanno messo sull’avviso la componente più avveduta di quella classe dirigente che ha nelle mani le sorti del pianeta. Stiamo pertanto assistendo a un qualche significativo cambio di rotta.
Un primo segnale in tal senso ci è venuto dal Forum economico mondiale tenutosi il 27 gennaio 2021. Esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionali, insieme a selezionati giornalisti e intellettuali, si sono incontrati a Davos per affrontare le questioni più rilevanti che il mondo deve affrontare. Quanto ne è scaturito costituisce un documento importante per capire quali siano le intenzioni ed i progetti dei cosiddetti “Grandi della Terra”. Nel Forum sopra indicato, il tema è stato The Great Reset.
Il termine reset, impiegato dagli informatici, indica la cancellazione integrale dei programmi pregressi per consentire un nuovo utilizzo del computer. Resettare la società significa cancellare non solo modalità di produzione e di consumo, ma tutto ciò che comunemente si fa e si pensa, per sostituire il tutto con una nuova concezione del mondo. Si tratta di una radicale trasformazione ritenuta necessaria per uscire dalla crisi attuale e per affrontare quelle incombenti. Al centro del cambiamento, c’è il superamento delle energie da fonti fossili da sostituire con le energie rinnovabili, un passaggio introdotto anche per cogliere le opportunità che la svolta “verde” offre al mondo produttivo. Fanno seguito altri interventi di natura tecnica, ma con rilevanti ricadute economiche e sociali, come l’estensione della digitalizzazione e l’implementazione dell’automatizzazione e della robotica.
Si tratta di significativi passi in avanti, ancorché i risultati del G20 e della COP19, e i giudizi critici che ne hanno fatto seguito, abbiano mostrato quanta distanza manchi ancora per raggiungere un traguardo rassicurante. Ma ci sono aspetti del progetto che ritengo di segno non certo positivo. Si parte dalla volontà di estendere il libero commercio mondiale senza prendere in considerazione proprio i risvolti negativi della globalizzazione evidenziatisi nel corso della pandemia. Inoltre, l’accelerazione della globalizzazione si accompagna alla promozione di regole mondiali tese a limitare sempre più la sovranità degli Stati e alla promozione di modi di vita volti a omologare le società.
In pratica, il capitalismo intende trasformarsi in un attore sociale ed assumere una responsabilità politica mondiale. Quell’élite ben rappresentata dai partecipanti ai World Economic Forum, determinata a voler mantenere il suo potere, si propone come soggetto titolato a guidare la trasformazione e ad elaborare e gestire una nuova immagine del mondo. È una posizione liberale di massa (liberista e libertaria), globalista, cosmopolita, vagamente umanitaria, ma che mantiene un ruolo centrale al profitto e alla crescita illimitata.
Pare evidente che la democrazia (quella sostanziale e non solo formale o di facciata) non abbia più licenza di esistere in tale nuova visione del mondo. Non è compatibile con essa la distanza che viene a determinarsi tra coloro che hanno il potere delle scelte e i cittadini. E altrettanto estranei alla democrazia sono la priorità assegnata agli automatismi di un mercato globale e pervasivo rispetto al ruolo della politica, e il venir meno dello stesso concetto di sovranità con il passaggio della sua titolarità dagli Stati ad un universo indeterminato. Inoltre, l’omologazione delle modalità di vita degli esseri umani, sradicati dai contesti che ne fanno delle persone, origina un totalitarismo che, più che soft, è subdolamente mascherato, ma non meno pericoloso dei totalitarismi espliciti.
Secondo Gael Giraud, gesuita ed economista di fama internazionale, esiste uno stretto rapporto tra le fonti energetiche utilizzate nel corso della storia e gli assetti di ordine economico, sociale e politico.
Nel corso del XIX e del XX secolo, l’impiego del carbone come fonte energetica ha favorito l’avanzamento salariale e sociale del movimento operaio. Essendo costoso il suo trasporto, l’utilizzo di questa fonte energetica ha comportato l’impianto delle industrie prevalentemente in vicinanza delle aree carbonifere, mettendo a contatto minatori e lavoratori delle varie fabbriche dei quali ha facilitato la presa di coscienza del potere di negoziazione posseduto nei confronti del padronato. Uno sciopero dei minatori o dei ferrovieri era in grado di bloccare le attività delle fabbriche e i trasporti (essenzialmente ferroviari) paralizzando le città, private di prodotti essenziali e di energia elettrica a sua volta dipendente dal carbone.
Invece petrolio e metano, facilmente trasportabili con basso costo grazie a oleodotti e gasdotti, possono facilmente essere reperiti in luoghi lontani ed essere importati dall’estero. A partire dagli anni Quaranta, il loro diffuso e crescente impiego nei trasporti (automobili e camion), nell’industria, nella produzione di elettricità, e in altri ambiti, ha progressivamente indebolito il potere di contrasto della classe operaia e quindi la sua forza di negoziazione sociale. Questa riappropriazione di potere, dovuta al petrolio, da parte dei detentori dei capitali, ha trovato nel neoliberalismo l’ideologia volta a legittimare tale nuovo assetto. Con la globalizzazione (legata al petrolio e al metano come fonti energetiche), le diseguaglianze si sono ulteriormente aggravate.
Vista l’incidenza delle fonti energetiche sulle caratteristiche della società, occorre chiedersi, fin da oggi, come potrà essere la futura società delle energie rinnovabili. A tal fine, bisogna tenere presente che (secondo Giraud) le energie rinnovabili comportano rilevanti spese di investimento, ma ridotti costi di gestione.
Una prima possibilità è quella indicata dai protagonisti di Davos, che affida un ruolo centrale a quanti possiedono i capitali per gli ingenti investimenti richiesti dalla trasformazione energetica. Abbiamo visto che il legame di tale progetto con un assetto democratico reale è alquanto dubbio, se non nullo. Aggiungo che non sembra molto credibile neanche la sua idoneità a vincere la battaglia nel contrasto al riscaldamento climatico poiché si continua ad assegnare un ruolo primario al profitto e alla crescita del prodotto interno lordo. In materia, va ricordata l’affermazione di Giorgio Parisi circa l’impossibilità di raggiungere tale traguardo in presenza di uno sviluppo fondato sulla crescita del PIL. Anche per padre Giraud, è una mera illusione l’idea che la transizione possa essere realizzata mediante interventi finanziari ad opera di mercati anonimi: infatti, né il settore bancario privato, né i fondi sovrani mai finanzieranno interventi la cui redditività strettamente finanziaria è bassa.
Altra opzione è quella tecnocratica (verso cui pare orientarsi la dirigenza cinese, ma non solo essa). Questa prevede, sotto la direzione di un potere statale tendenzialmente autoritario, una società molto centralizzata, altamente capitalistica, basata su una stretta alleanza tra il settore pubblico e quello privato, in grado di indirizzare ingenti capitali verso la transizione, programmandone le tappe.
C’è poi la soluzione cara ai militanti ecologisti e ai giovani seguaci di Greta, che discende dalla ipotizzata realizzazione di un’ampia e diffusa distribuzione sul territorio dei generatori di energia. Sarebbe un assetto favorevole alla nascita di una democrazia decentralizzata e partecipativa che, in un’ottica di sussidiarietà, assegni un ruolo primario ai territori e alle comunità locali per soddisfare le esigenze produttive e i bisogni dei cittadini. Il suo punto debole è il reperimento dei capitali per una trasformazione che è molto costosa. Tuttavia, pur trattandosi di un percorso difficile, sembra forse essere l’unico in grado di salvaguardare la democrazia, una democrazia reale fondata sulla partecipazione e l’impegno dei cittadini.
Ci sono ovviamente altri possibili scenari, ora di compromesso tra quelli schematicamente indicati, ora derivanti da possibili rivoluzioni culturali. In questa direzione, il citato padre Giraud, partendo dal ripudio di quella che definisce “l’illusione finanziaria”, invoca un cambio di civiltà che veda l’Homo sapiens europeo imporsi sull’Homo oeconomicus in un cammino che passa per la riconciliazione delle nostre società con lo Spirito che è all’opera nella nostra storia.
Forse è giunto il momento di cominciare ad occuparsi di questo futuro che è molto prossimo.
Condivido appieno il quadro presentato da Ladetto e le conclusioni che indicano nella riduzione dell’uomo ad una sola dimensione, quella economica, che sostanzialmente vuol dire l’inversione di mezzi coi fini (l’uomo al servizio dell’economia anziché l’economia al servizio dell’uomo) e la despiritualizzazione dell’essere umano, il disastro verso cui rischiamo di andare.
Non mi è chiaro appoggiandosi a chi e come si potrebbe creare l’homo novus, e soprattutto organizzare le rinnovate strutture economico-sociali basate su questo homo novus, in grado di stravolgere l’attuale indubbiamente perverso sistema di vita e di società sostituendolo de plano e felicemente a quello saggiamente invocato.
L’aver trasformato la terra, ormai superabitata di uomini (e impoverita in termini di equilibrio ecologico), ad una virtuale piccola pallina da tennis senza compartimenti stagni e luoghi non comunicanti tra loro (CONQUISTA DEI MERCATI GLOBALI = STRUMENTO DI LOTTA GEOPOLITICA GLOBALE) non mi sembra che aiuti molto un’operazione del genere.
Sempre interessante questa attenzione al rapporto tra “energia” e “sviluppo dell’umanità”. Mi permetto solo di segnalare che non esistono le “energie rinnovabili” ma, eventualmente, energie “da fonti rinnovabili”. Certo, tutti dicono e scrivono così, ma non si fa servizio alla verità.
Caro Giuseppe Ladetto , essendo grande e di lunga data la mia stima nei tuoi confronti, mi trovo un pò imbarazzato a dover confrontarmi con te su posizioni diverse. Di questo tuo articolo apprezzo totalmente solo l’ultimo capoverso, sul resto ho parecchi dubbi. Il primo su Greta ed i suoi seguaci, perchè penso che l’Occidente sia di fronte ad una ubriacatura collettiva verso questa ragazza, i giovani che la seguono, pieni di tecnologia, beh Dio ce ne guardi da questi nuovi sacerdoti intransigenti. Sul great reset mi pare che la parte ecologica sia per davvero quella meno presa in considerazione, quello che Klaus Schwab (fondatore e capo del WEF) desidera è ben diverso e nemmeno nascosto: il controllo in stile cinese di tutta la società. Sul fronte ecologico mi limito a fare un solo esempio ma ne avrei tanti. Nessuno dice qualcosa sul continuo disboscamento dell’Amazzonia, spesso per farne terre da semina. Per seminare cereali da trasformare in bio carburanti!!! Invece il nostro arco alpino è coperto da boschi che via via vengono abbandonati, quindi le piante di alto fusto muoiono e si perdono ed al loro posto subentrano arbusti (che ovviamente mangiano meno CO2 e producono meno ossigeno). Perchè ? Perchè da anni il nostro legname non ha valore si preferisce importare dalla Malesia, Indonesia etc , piuttosto che lavorare un faggio o una quercia delle nostre regioni. Ho una ricchissima documentazione fotografica di tronchi di castagno, faggio, querce del diametro ben superiore ad un metro che giacciono e marciscono in terra. Se vi fosse un mercato, da uno solo di questi tronchi si farebbero i mobili per una intera sala o cucina. Nessuno li compra, quindi si lasciano li e il bosco muore. Un caro saluto.
Caro Beppe Mila, mi sono trovato d’accordo con te su molti temi a partire dalla rappresentazione del quadro internazionale. Non è il caso di provare imbarazzo se si hanno posizioni diverse pur su una questione importantissima come quella ambientale. Relativamente a questa, mi pare strano che non si colgano i segnali evidenti di uno scenario già oggi devastante: le temperature registrate nelle zone artiche con la rapida fusione di larga parte della calotta polare e dei ghiacciai della Groenlandia; le alte temperature in Canada mai registrate prima; gli estesi incendi in California e nella taiga siberiana; gli uragani nel mediterraneo e via dicendo. Chi, solo 15 anni fa, avesse annunciato tali fatti sarebbe stato tacciato di irresponsabile catastrofismo da coloro che oggi invece sembrano trovare normale tutto ciò.
Quanto al legname dei boschi di casa nostra senza più valore perché si preferisce importarlo dai paesi tropicali, che dire? E’ il mercato bellezza, quel mercato che, a detta di taluni, dovrebbe con i suoi automatismi dare risposta ad ogni esigenza.
Buon Natale
Carissimo Giuseppe ( speriamo che gli altri lettori non si stanchino di noi) grazie per la tua risposta che stavolta mi trova concorde su ogni parola, perchè sui fatti non si può chiudere gli occhi. Vedi io credo che alla fine la pensiamo allo stesso modo ma partiamo da angolazioni diversi. Io, poi per principio, sono diventato diffidentissimo da tutti coloro che si ergono a paladini e salvatori della patria, compresi e molto anche ” i migliori” . Comunque nella tua ultima frase sul mercato sta la chiave di volta di tutto, un mercato che per poter continuare a dominare imperterrito fa finta di darsi una ripulita e diventare più buono mentre va avanti come uno schiacciasassi nel difendere i propri interessi. Ricambio di cuore gli Auguri di Natale.