Alitalia, che dal dopoguerra è stata nel bene e nel male la protagonista principale del trasporto aereo italiano, ha cessato a metà ottobre scorso i voli dopo 74 anni di attività e ceduto il posto al nuovo vettore Ita, totalmente pubblico, cedendogli gli asset da esso richiesti e l’organizzazione necessaria. Il vecchio nome è stato dismesso, pur avendo la nuova azienda acquisito il marchio dai commissari straordinari col solo fine apparente di sottrarlo al possibile uso da parte di vettori concorrenti. Tuttavia quasi nulla oltre al nome sembra essere stato cambiato. Il 15 ottobre, primo giorno del nuovo vettore, equipaggi Alitalia in divisa Alitalia sono saliti, esattamente come il giorno prima, a bordo di aerei Alitalia e hanno volato, avvalendosi dell’organizzazione di Alitalia, per trasportare passeggeri che si erano prenotati nelle settimane precedenti su un sito Alitalia che tuttavia dichiarava di vendere biglietti aerei per conto di Ita. Una nuova livrea, con aerei tutti azzurri, è stata annunciata ma al momento la piccola flotta utilizzata è una parte di quella di prima, esteticamente identica, tanto che i viaggiatori non notano differenze se non le etichette adesive col nuovo logo.
All’apparenza la commissaria europea alla concorrenza Vestager, che aveva chiesto una forte discontinuità aziendale per non imputare alla nuova compagnia il prestito ponte concesso illecitamente alla vecchia, si accontenta, essendosi limitata a dichiarare che è importante che “Ita non sia una Alitalia travestita”. Questo auspicio è peraltro condiviso dal contribuente che, dopo tutti gli oneri sostenuti con la vecchia Alitalia pubblica sino al 2008, tra il 2017 e il mese scorso ha dovuto spendere altri due miliardi per l’amministrazione straordinaria, di cui 1,4 di prestiti ponte incompatibili con le norme dell’Unione Europea, e i restanti tra costi della cassa integrazione per i dipendenti e rimborsi covid. Se Ita fosse Alitalia travestita l’esborso sarebbe inevitabilmente destinato a riprendere. Vi è possibilità che non sia più così? Per rispondere bisogna fare un passo indietro nella storia di Alitalia e spiegare perché nell’ultimo ventennio abbondante non è mai riuscita a recuperare i costi coi suoi proventi.
Intanto una precisazione, le Alitalia delle cui perdite stiamo parlando sono due diverse, non una sola. Quella che ha appena smesso di volare era formalmente privata anche se gestita nell’ultimo quadriennio da commissari governativi: l’Alitalia SAI a conduzione italo-araba, sorta alla fine del 2014 dalla trasformazione dell’Alitalia CAI privata, fondata a fine 2008 dai ‘capitani coraggiosi’ e sotto gli auspici congiunti, non particolarmente preveggenti, del governo di allora e dei principali sindacati. A sua volta l’Alitalia CAI privata era subentrata alla dissestata e commissariata Alitalia LAI pubblica, fondata nel lontano 1947 ed entrata in forte crisi nel 2007. Dunque, a far bene i conti Ita è il quarto tentativo di vettore nazionale in un ventennio. Qualcuno potrebbe sostenere che Alitalia è come i papi: morta una se ne fa subito un’altra, anche se stavolta con nome differente.
La penultima Alitalia, quella emiratina che ha finito di volare il mese scorso, ha sempre chiuso i bilanci in passivo e altrettanto ha fatto quella dei capitani che l’ha preceduta. La prima, invece, l’Alitalia pubblica dalla vita molto più lunga, ha registrato risultati economici stabilmente in attivo nel suo primo quarto di secolo, altalenanti nel secondo quarto e sempre negativi in questo millennio. Perché allora le sorti di Ita che ha debuttato ieri, temporalmente parlando l’Alitalia numero 4, dovrebbero essere diverse dalle sorti fallimentari di tutte le tre che l’hanno preceduta? A quali condizioni potrebbe verificarsi questa discontinuità negli esiti? Per evitare il ripetersi di esiti fallimentari bisogna essere in grado di rimuovere le cause che li hanno determinati. Quali sono state?
La causa numero uno è senza dubbio l’agguerrita concorrenza di vettori molto competitivi, i low cost, dotati di un vantaggio di costo marcato quando non estremamente consistente. Il maggiore di essi, Ryanair, ha trasportato nell’anno 2019 ante covid quasi il doppio dei passeggeri di Alitalia a meno della metà dei suoi costi unitari.
È dunque imbattibile come lo sono dal lato dei costi anche i suoi colleghi: comprando flotte uniformi su larga scala ottengono sconti consistenti dai costruttori e usandole si avvantaggiano ulteriormente di minori costi del carburante, resi possibili dai minori consumi, e dalle minori manutenzioni di flotte totalmente nuove.
Quelli più spinti usano poi aeroporti secondari, dai costi minori, e spesso ottengono compensi anche rilevanti dagli enti territoriali per portare aerei e aprire rotte dai medesimi. Inoltre applicano politiche di prezzo aggressive, cercando di appropriarsi al massimo della disponibilità a pagare dei consumatori, per cui è facile trovare prezzi stracciati ma anche esorbitanti, se si è in prossimità della data del volo, perché i primi debbono essere necessariamente sussidiati dai secondi.
Di fronte a simili competitori come si sono potuti difendere i vettori tradizionali, più rigidi e non in grado di replicare tutte le loro soluzioni? Le compagnie di bandiera sono riuscite a sopravvivere nell’ultimo quarto di secolo, dopo che la liberalizzazione europea ha permesso la nascita e poi la diffusione dei low cost, adottato una strategia tutt’altro che nuova.
Come un cavaliere medievale si sarebbe difeso da un avversario molto più forte cercando semplicemente di non incontrarlo mai sulla stessa strada, così esse hanno cercato semplicemente di non incontrarli sulle stesse rotte, evitando i duelli diretti. In primo luogo li hanno tenuti fuori dalle rotte esercitate dai loro hub di riferimento, occupando direttamente quanti più slot possibile nei medesimi e facendo dirottare i low cost dai regolatori pubblici su aeroporti secondari, quanto più possibile distanti dal centro delle grandi metropoli.
In secondo luogo han deciso di uscire da rotte di breve e medio raggio, nazionali ed europee, sulle quali i low cost erano entrati, così da evitare le perdite che lo scontro diretto avrebbe generato. Disimpegnandosi dal breve raggio, sul quale hanno conservato principalmente i voli di feederaggio dei voli a lunga distanza, si sono invece specializzati proprio nel lungo, i voli intercontinentali sui cui sentieri aerei i cavalieri low cost non si incontrano.
Così facendo hanno accresciuto comunque le loro dimensioni nel tempo, e in misura non inferiore a quanto fatto dalle low cost. Infine, a completamento della loro strategia, hanno anche creato vettori low cost interni ai loro gruppi, così da fare almeno in parte concorrenza ai low cost avversari coi loro stessi mezzi, anziché limitarsi a subirla. Il gruppo IAG di British Airways e Iberia ha Vueling come costola low cost, Lufthansa ha Eurowings, il gruppo Air France-Klm ha Transavia.
Questa doppia strategia di barricarsi nel proprio hub e di specializzarsi sul lungo raggio lasciando ai low cost buona parte del breve, è stata adottata da tutti i grandi vettori europei tradizionali con esclusione di uno, proprio Alitalia, che da vent’anni a questa parte ha fatto l’esatto contrario senza mai pentirsene.
Non ha infatti creato una costola low cost anche se avrebbe potuto farla, dapprima con Volareweb e poi con AirOne, non ha accresciuto le sue dimensioni ma le ha progressivamente rimpicciolite, non si è concentrata sul lungo raggio disimpegnandosi dal breve bensì si è disimpegnata dal lungo concentrandosi sul breve. Nel 2001, ancor prima del tragico attentato alle torri gemelle, Alitalia ha spontaneamente cancellato del 30-40% l’offerta di lungo raggio, radiando dalla flotta i Boeing 747, i Jumbo, in grado di trasportare sino a 500 passeggeri per volo.
Poi nel 2008 sono arrivati i capitani coraggiosi che hanno ancora tagliato il lungo raggio e si sono questa volta concentrati sui voli domestici, e sulla Milano-Roma in particolare, sulla quale stava per essere inaugurata l’alta velocità ferroviaria e di lì a poco anche la concorrenza tra il Frecciarossa e Italotreno. E l’hub di Fiumicino è stato espugnato dai low cost già una decina d’anni fa.
Come cambia questo scenario con l’arrivo di ITA? Purtroppo non cambia: dal suo debutto Ita ha volato per circa due terzi dei suoi voli sui cieli nazionali e per i restanti, internazionali, sui cieli europei. Solo dall’inizio di novembre ha ripreso il lungo raggio, ma esclusivamente sulla rotta Roma-New York. Nel suo piano industriale l’offerta di lungo raggio, peraltro il segmento che fa più fatica a riprendersi dal covid, è estremamente limitata, né potrebbe essere diversamente visto che Ita ha scelto di partire con soli 7 aerei di lungo raggio.
Già nel lontano 1957 la vecchia Alitalia ne aveva 13. Ita è decollata con soli 52 aerei totali ma la vecchia Alitalia superò questo numero nel lontano 1962, l’anno dopo l’inaugurazione dell’aeroporto di Fiumicino, e superò i 2.800 dipendenti ora previsti per Ita già nel 1957, quando incorporò l’altra azienda pubblica di trasporto aereo, la LAI.
Ita appare come un piccolo cavaliere che ha scelto di percorrere con convinzione quasi solo sentieri aerei infestati dai potenti cavalieri low cost. Come andranno i futuri duelli è facilmente prevedibile.
(Tratto da www.linkiesta.it)
All’apparenza la commissaria europea alla concorrenza Vestager, che aveva chiesto una forte discontinuità aziendale per non imputare alla nuova compagnia il prestito ponte concesso illecitamente alla vecchia, si accontenta, essendosi limitata a dichiarare che è importante che “Ita non sia una Alitalia travestita”. Questo auspicio è peraltro condiviso dal contribuente che, dopo tutti gli oneri sostenuti con la vecchia Alitalia pubblica sino al 2008, tra il 2017 e il mese scorso ha dovuto spendere altri due miliardi per l’amministrazione straordinaria, di cui 1,4 di prestiti ponte incompatibili con le norme dell’Unione Europea, e i restanti tra costi della cassa integrazione per i dipendenti e rimborsi covid. Se Ita fosse Alitalia travestita l’esborso sarebbe inevitabilmente destinato a riprendere. Vi è possibilità che non sia più così? Per rispondere bisogna fare un passo indietro nella storia di Alitalia e spiegare perché nell’ultimo ventennio abbondante non è mai riuscita a recuperare i costi coi suoi proventi.
Intanto una precisazione, le Alitalia delle cui perdite stiamo parlando sono due diverse, non una sola. Quella che ha appena smesso di volare era formalmente privata anche se gestita nell’ultimo quadriennio da commissari governativi: l’Alitalia SAI a conduzione italo-araba, sorta alla fine del 2014 dalla trasformazione dell’Alitalia CAI privata, fondata a fine 2008 dai ‘capitani coraggiosi’ e sotto gli auspici congiunti, non particolarmente preveggenti, del governo di allora e dei principali sindacati. A sua volta l’Alitalia CAI privata era subentrata alla dissestata e commissariata Alitalia LAI pubblica, fondata nel lontano 1947 ed entrata in forte crisi nel 2007. Dunque, a far bene i conti Ita è il quarto tentativo di vettore nazionale in un ventennio. Qualcuno potrebbe sostenere che Alitalia è come i papi: morta una se ne fa subito un’altra, anche se stavolta con nome differente.
La penultima Alitalia, quella emiratina che ha finito di volare il mese scorso, ha sempre chiuso i bilanci in passivo e altrettanto ha fatto quella dei capitani che l’ha preceduta. La prima, invece, l’Alitalia pubblica dalla vita molto più lunga, ha registrato risultati economici stabilmente in attivo nel suo primo quarto di secolo, altalenanti nel secondo quarto e sempre negativi in questo millennio. Perché allora le sorti di Ita che ha debuttato ieri, temporalmente parlando l’Alitalia numero 4, dovrebbero essere diverse dalle sorti fallimentari di tutte le tre che l’hanno preceduta? A quali condizioni potrebbe verificarsi questa discontinuità negli esiti? Per evitare il ripetersi di esiti fallimentari bisogna essere in grado di rimuovere le cause che li hanno determinati. Quali sono state?
La causa numero uno è senza dubbio l’agguerrita concorrenza di vettori molto competitivi, i low cost, dotati di un vantaggio di costo marcato quando non estremamente consistente. Il maggiore di essi, Ryanair, ha trasportato nell’anno 2019 ante covid quasi il doppio dei passeggeri di Alitalia a meno della metà dei suoi costi unitari.
È dunque imbattibile come lo sono dal lato dei costi anche i suoi colleghi: comprando flotte uniformi su larga scala ottengono sconti consistenti dai costruttori e usandole si avvantaggiano ulteriormente di minori costi del carburante, resi possibili dai minori consumi, e dalle minori manutenzioni di flotte totalmente nuove.
Quelli più spinti usano poi aeroporti secondari, dai costi minori, e spesso ottengono compensi anche rilevanti dagli enti territoriali per portare aerei e aprire rotte dai medesimi. Inoltre applicano politiche di prezzo aggressive, cercando di appropriarsi al massimo della disponibilità a pagare dei consumatori, per cui è facile trovare prezzi stracciati ma anche esorbitanti, se si è in prossimità della data del volo, perché i primi debbono essere necessariamente sussidiati dai secondi.
Di fronte a simili competitori come si sono potuti difendere i vettori tradizionali, più rigidi e non in grado di replicare tutte le loro soluzioni? Le compagnie di bandiera sono riuscite a sopravvivere nell’ultimo quarto di secolo, dopo che la liberalizzazione europea ha permesso la nascita e poi la diffusione dei low cost, adottato una strategia tutt’altro che nuova.
Come un cavaliere medievale si sarebbe difeso da un avversario molto più forte cercando semplicemente di non incontrarlo mai sulla stessa strada, così esse hanno cercato semplicemente di non incontrarli sulle stesse rotte, evitando i duelli diretti. In primo luogo li hanno tenuti fuori dalle rotte esercitate dai loro hub di riferimento, occupando direttamente quanti più slot possibile nei medesimi e facendo dirottare i low cost dai regolatori pubblici su aeroporti secondari, quanto più possibile distanti dal centro delle grandi metropoli.
In secondo luogo han deciso di uscire da rotte di breve e medio raggio, nazionali ed europee, sulle quali i low cost erano entrati, così da evitare le perdite che lo scontro diretto avrebbe generato. Disimpegnandosi dal breve raggio, sul quale hanno conservato principalmente i voli di feederaggio dei voli a lunga distanza, si sono invece specializzati proprio nel lungo, i voli intercontinentali sui cui sentieri aerei i cavalieri low cost non si incontrano.
Così facendo hanno accresciuto comunque le loro dimensioni nel tempo, e in misura non inferiore a quanto fatto dalle low cost. Infine, a completamento della loro strategia, hanno anche creato vettori low cost interni ai loro gruppi, così da fare almeno in parte concorrenza ai low cost avversari coi loro stessi mezzi, anziché limitarsi a subirla. Il gruppo IAG di British Airways e Iberia ha Vueling come costola low cost, Lufthansa ha Eurowings, il gruppo Air France-Klm ha Transavia.
Questa doppia strategia di barricarsi nel proprio hub e di specializzarsi sul lungo raggio lasciando ai low cost buona parte del breve, è stata adottata da tutti i grandi vettori europei tradizionali con esclusione di uno, proprio Alitalia, che da vent’anni a questa parte ha fatto l’esatto contrario senza mai pentirsene.
Non ha infatti creato una costola low cost anche se avrebbe potuto farla, dapprima con Volareweb e poi con AirOne, non ha accresciuto le sue dimensioni ma le ha progressivamente rimpicciolite, non si è concentrata sul lungo raggio disimpegnandosi dal breve bensì si è disimpegnata dal lungo concentrandosi sul breve. Nel 2001, ancor prima del tragico attentato alle torri gemelle, Alitalia ha spontaneamente cancellato del 30-40% l’offerta di lungo raggio, radiando dalla flotta i Boeing 747, i Jumbo, in grado di trasportare sino a 500 passeggeri per volo.
Poi nel 2008 sono arrivati i capitani coraggiosi che hanno ancora tagliato il lungo raggio e si sono questa volta concentrati sui voli domestici, e sulla Milano-Roma in particolare, sulla quale stava per essere inaugurata l’alta velocità ferroviaria e di lì a poco anche la concorrenza tra il Frecciarossa e Italotreno. E l’hub di Fiumicino è stato espugnato dai low cost già una decina d’anni fa.
Come cambia questo scenario con l’arrivo di ITA? Purtroppo non cambia: dal suo debutto Ita ha volato per circa due terzi dei suoi voli sui cieli nazionali e per i restanti, internazionali, sui cieli europei. Solo dall’inizio di novembre ha ripreso il lungo raggio, ma esclusivamente sulla rotta Roma-New York. Nel suo piano industriale l’offerta di lungo raggio, peraltro il segmento che fa più fatica a riprendersi dal covid, è estremamente limitata, né potrebbe essere diversamente visto che Ita ha scelto di partire con soli 7 aerei di lungo raggio.
Già nel lontano 1957 la vecchia Alitalia ne aveva 13. Ita è decollata con soli 52 aerei totali ma la vecchia Alitalia superò questo numero nel lontano 1962, l’anno dopo l’inaugurazione dell’aeroporto di Fiumicino, e superò i 2.800 dipendenti ora previsti per Ita già nel 1957, quando incorporò l’altra azienda pubblica di trasporto aereo, la LAI.
Ita appare come un piccolo cavaliere che ha scelto di percorrere con convinzione quasi solo sentieri aerei infestati dai potenti cavalieri low cost. Come andranno i futuri duelli è facilmente prevedibile.
(Tratto da www.linkiesta.it)
Articolo scritto con competenza e chiarezza, che non lascia certo ottimisti per il futuro. Non tratta però delle cause sottostanti ai ricorrenti errori nella gestione di Alitalia, forse perché le da per scontate e note atutti: debolezza e compiacenza dei decisori politici, eccesiva rigidezza nell’autotutela sindacale e – forse – un tasso di “romanità” eccessivo nella scelta dei dipendenti …